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L’evoluzione del rapporto tra evasione ed economia sommersa, dall’abbandono della lira fino alla crisi globale, economica e sociale, con epicentro in Europa: approfondimenti e sorprese

Scritto da Raffaele Perrone Capano • set 2021

Sintesi

Lo studio rappresenta un approfondimento della relazione sul tema del rapporto tra economia sommersa ed evasione, tenuta a Napoli nel giugno 2020, nell’ambito del Convegno “Spring in Naples”. Il confronto tra la riduzione costante dell’economia sommersa fin dai primi anni dell’introduzione dell’euro e l’accelerazione evidenziata a partire dal 2015, attraverso l’analisi accurata dei rapporti dell’ISTAT sull’economia sommersa, conferma il ridimensionamento di un fenomeno che sopravvive in aree di nicchia non concorrenziali e le cui dimensioni, ormai marginali, sono allineate a quelle delle economie più avanzate.

Il lavoro si conclude con una critica impietosa della controriforma dell’IRPEF attuata tra il 2006 e il 2007 dal secondo Governo Prodi. La principale causa, assieme alla moltiplicazione degli espedienti utilizzati a partire dal 2014 per aumentare il gettito, della bassa crescita dell’Italia nell’ultimo quindicennio.


Abstract

The study represents a further reflection on what was said in the speech presented in Naples in June 2020, as part of the Spring in Naples Conference on the relationship between the underground economy and tax evasion. The comparison between the constant reduction of the underground economy since the first years of the introduction of the euro and the acceleration highlighted starting from 2015, through the careful analysis of the ISTAT reports on the underground economy, confirms the downsizing of a phenomenon that survives in restricted non-competitive areas and whose dimensions, now marginal, are aligned with those of the most advanced economies. The work ends with a harsh criticism of the IRPEF counter-reform implemented between 2006 and 2007 by the second Prodi government. The main cause, together with the multiplication of the expedients used since 2014 to increase revenue, of the low growth of Italy in the last fifteen years.

Contenuto

1. Premessa

Uno degli aspetti che viene segnalato con maggiore frequenza, quando in Italia si affronta il tema del fisco e della sua crisi, è rappresentato dall’immancabile richiamo all’“enorme evasione” italiana: un’espressione che mi è rimasta impressa, evocata in Svizzera da un noto economista, investito di responsabilità di governo a fine 2011, durante la crisi del nostro debito sovrano.

Un’espressione quanto meno infelice per la sede scelta e per l’assoluta genericità che la aveva accompagnata. Un’anteprima populista che avrebbe fatto da apripista nel mondo politico a molti altri imitatori.

Ora, che in Italia, accanto ad un’elevata pressione fiscale, accompagnata da una implicita superiore di almeno 2,5 punti di PIL, di cui nessuno parla, esista anche una diffusa evasione fiscale, occultata con le molteplici opportunità offerte in passato dall’economia sommersa, rappresenta un’affermazione corrente, anche se spesso generica e non adeguatamente documentata.

Basta sfogliare i dati pubblicati recentemente dall’ISTAT sull’economia sommersa e irregolare nel periodo che va dal 2014 al 2019, per rendersi conto che dalle cifre che provengono dall’economia “non osservata” (sommerso economico e economia criminale), emerge una realtà più articolata, e soprattutto una tendenza costante, alla riduzione dell’economia sommersa rispetto al PIL, dall’introduzione dell’euro ad oggi.

Un elemento fin troppo trascurato, nell’approccio economico agli studi sul fisco, che spesso affrontano il tema “evasione” in una singola imposta, prescindendo dalla struttura giuridica. Di fatto viene ignorato che la somma di interventi parziali, talvolta contradittori, rende difficile parlare del fisco come “sistema”, termine che nella Costituzione ha un significato preciso.

Un ordinamento tributario, buono o cattivo che sia, costituisce sempre un “sistema di vasi comunicanti”; quindi le eventuali incoerenze non solo determinano in alcune circostanze fratture con i principi; producono anche effetti a cascata indesiderati, non previsti dal legislatore.

Alla luce di queste premesse, cercherò di analizzare il rapporto tra la tendenza alla diminuzione costante dell’economia sommersa, che ha caratterizzato l’Italia fin dai primi anni dall’introduzione dell’euro, rispetto alle politiche tributarie adottate in Italia, a partire dalla crisi del nostro debito sovrano del 2011.

Un’azione motivata da obiettivi di contrasto all’evasione fiscale nelle attività minori, di lavoro autonomo e d’impresa con meno e di 15 addetti, basata sulla moltiplicazione degli adempimenti burocratici; affiancata dall’introduzione di sistemi derogatori del regime comune di applicazione dell’IVA europea (reverse charge e split payment, nelle diverse versioni), impiegati per contrastare l’evasione, in realtà destinati ad aumentare il gettito, occultato con una serie di costruzioni complesse, basate su meccanismi di illusione finanziaria.

Una condizione frutto di scelte politiche poco meditate, disattente ai principi che ha contribuito nel corso del tempo a dividere il mondo del lavoro nelle due macro aree dei tutelati e dei meno protetti. Con comprensibili riflessi sulla diffusione dell’economia sommersa, brodo di cultura dell’evasione fiscale, di cui cercherò di definire con minore improvvisazione i confini.

Al riguardo basta ricordare che, al momento del fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008 il sommerso economico, secondo l’ISTAT, rappresentava una cifra compresa tra un minimo del 16,3% e un massimo del 17,5%.

Un dato elevato, tuttavia non lontano dalle stime Eurostat dell’economia sommersa, relative alle principali economie europee, in cui la forbice nel 2008, oscillava tra l’11,2% della Francia e il 16,1% di Germania e Svezia.

Dieci anni dopo, nel 2018, in base alle rilevazioni dell’Istat pubblicate alla fine del 2019, il sommerso economico, in lenta ma continua contrazione, costituiva il 10,8% del PIL, al netto dell’economia criminale, stabile intorno all’1,1%, nell’ultimo decennio.

Occorre quindi prendere atto del tendenziale allineamento quantitativo del sommerso italiano a quello delle principali economie dell’UE, spinto dall’introduzione dell’euro e dalle trasformazioni dei sistemi economici, in seguito alla crisi finanziaria internazionale del 2008.

Certo, esistono anche differenze qualitative, legate alle peculiari caratteristiche socioeconomiche dei diversi Stati dell’UE, che possono determinare variazioni settoriali del sommerso economico, di tipo quantitativo. Tuttavia, siamo in presenza di variabili che, specie nelle economie maggiormente integrate dell’Eurozona (che coincidono con i sei Paesi fondatori della CEE, nel 1957), non sono certo in grado di ribaltare il dato quantitativo.

In ogni caso i profili quantitativi dell’economia sommersa rappresentano uno soltanto degli aspetti di un’indagine che non si limiti a definire in modo corretto la dimensione del fenomeno “evasione”, ma ne indichi le aree di maggiore diffusione, alla luce delle caratteristiche strutturali e distributive del sistema tributario e della sua evoluzione, nell’arco di tempo che va dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008, ai giorni nostri.

Un periodo travagliato, specie per l’Italia, che per essere compreso deve essere collocato nel processo di riforme costituenti che hanno caratterizzato l’Ue nell’arco di un trentennio, a partire dall’introduzione dell’euro e dalla nascita dell’Unione monetaria.

In senso opposto, gli squilibri prodotti dalla crisi innescata dalla pandemia da Covid-19, con i loro effetti a cascata, hanno investito direttamente i cittadini europei, non risparmiando nessun Paese dell’UE; dando avvio ad una nuova fase di riforme costituenti, finalizzate al rilancio della costruzione europea.

Una risposta che guardi al futuro, lasciandoci alle spalle le paure e le incertezze prodotte dalla pandemia, contro ogni illusionismo sovranista, che sembra aver rimosso il lungo sonno della libertà, lascito tragico del “secolo breve”.


2. Dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 a quella del debito sovrano del 2011: le ricadute sull'economia italiana e i riflessi sul fisco

Il forte ridimensionamento dell’economia sommersa nel nostro Paese, nell’arco di un decennio, a partire dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 (gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2019), consente di rimettere in discussione alcune certezze sulla “enorme evasione fiscale italiana. Le ragioni di questa affermazione sono diverse, tra loro complementari.

Per esigenza di sintesi mi soffermo brevemente su quelle che mi sembrano le due maggiormente significative. La prima si riferisce agli effetti della crisi finanziaria internazionale del 2008, che aveva determinato nel 2009 un brusco calo del PIL, pari a -5,1% su base annua (-6,2% in Germania); sui profili prettamente tributari di quella crisi, mi soffermerò diffusamente nella seconda parte del lavoro.

In Italia gli effetti della crisi finanziaria, trasferiti quasi immediatamente dal sistema bancario all’economia reale, erano stati tenuti sotto controllo dal DL n. 155, adottato dal Governo Berlusconi, d’intesa con la Banca d’Italia (il Governatore era Draghi), il 9 ottobre 2008, e dalla Legge di conversione n. 190 del 4 dicembre.

Le misure d’urgenza, a sostegno del sistema bancario e del risparmio, si basavano sulla garanzia dello Stato a favore dei depositanti per un triennio e sull’impegno dello Stato, fino al 31 dicembre del 2009, a ricapitalizzare direttamente o a garantire la ricapitalizzazione delle banche che ne avessero la necessità per effetto della crisi. L’intervento aveva messo in sicurezza il nostro sistema bancario, garantendo la continuità del credito al sistema delle imprese. Una condizione che aveva consentito all’economia italiana, sulla spinta della ripresa delle esportazioni, di ripartire fin dal secondo trimestre del 2009, per primi in Europa.

Nel 2010 il PIL italiano aveva registrato una crescita di +1,5%, particolarmente significativa in quanto non drogata dalla spesa pubblica, salvo un forte incremento dell’impiego degli ammortizzatori sociali, estesi alle realtà di minori dimensioni, in precedenza escluse, per consentire alle imprese di superare il blocco dell’attività, nei primi mesi del 2009. Un intervento indispensabile per garantire la tenuta economico- sociale del sistema, salvaguardando la capacità produttiva delle imprese, anche di piccola dimensione.

Una condizione che non si sarebbe ripetuta nel 2011, con gli attacchi speculativi al debito sovrano italiano e la conseguente crisi politica, risolta frettolosamente evitando le elezioni, con la nascita di un esecutivo tecnico presieduto dal prof. Monti.

Una soluzione discutibile, i cui effetti sull’economia italiana proseguiranno oltre la caduta del Governo Monti e le elezioni politiche del 2013.

Gli eccessi della stretta fiscale che il Governo Monti aveva determinato, sia sul versante della spesa pubblica (la riforma Fornero del sistema pensionistico, approvata in fretta e furia, che aveva fatto emergere negli anni successivi il fenomeno degli esodati, con costi aggiuntivi non previsti per molti miliardi), sia su quello tributario, fortemente regressivi, avevano prodotto un colpo di freno molto superiore a quanto previsto, su tutta l’economia italiana.

Un insieme di criticità che aveva innescato una spirale recessiva-depressiva, meno intensa di quella del 2009, di durata 6 volte maggiore che si sarebbe protratta per 37 mesi, fino alle soglie del 2015. Il cui lascito più rilevante, per quel che qui interessa, è stato una riduzione della capacità produttiva del settore manifatturiero vicina in media al 25%, con punte drammaticamente più elevate nel settore dell’auto, e un salto indietro del reddito pro-capite, ai livelli della metà degli anni ’90 del secolo scorso.

Che in questo scenario recessivo, dominato da un fisco impegnato a produrre sempre nuovi adempimenti, inutilmente onerosi, amplificato da una stretta generalizzata del credito, che aveva travolto, in un arco di tempo ristretto, decine di migliaia di imprese, l’economia sommersa, notoriamente la più fragile, sia stata la prima ad essere investita dall’onda lunga della recessione, non deve sorprendere.

Di qui, anticipando quanto cercherò di dimostrare più avanti, la convinzione che le stime di una evasione che sfiora i 110 miliardi di euro, sostenuta dal MEF per esigenze politiche, rivista al rialzo a 120 miliardi dal Vice-ministro dell’economia Misiani nel Governo Draghi, o altre che circolano, ancora più elevate, siano irrealistiche e si scontrino con quanto documentato sul punto dall’ISTAT.


3. Le riforme fiscali attuate tra il 1996 e il 2014 e le ricadute sull'evasione fiscale

a) La riforma fiscale del 1996-97

Il Prof. Vincenzo Visco, ordinario di Scienza delle Finanze nell’Università di Pisa, eletto in Parlamento negli anni ’’70 nelle file della sinistra indipendente, aveva rappresentato in quegli anni l’elemento di collegamento tra il PCI, principale partito di opposizione e il mondo economico, di cui l’on. Bruno Visentini, deputato del partito repubblicano, più volte Ministro, proprio per la collocazione politica, costituiva la più significativa espressione.

Per l’attività svolta in ruoli diversi (docente universitario, parlamentare, più volte ministro) per oltre un quarantennio, si può affermare che il prof. Visco ha rappresentato la personalità più influente nella politica tributaria italiana degli ultimi 40 anni.

Questa affermazione ha trovato un puntuale riscontro nella riforma nell’IRPEF, introdotta dall’ on. Visco, Ministro delle finanze nel I° Governo Prodi, qualificata da una revisione della progressività molto significativa, a partire dai redditi più elevati Tema che aveva affrontato venti anni prima in un Convegno organizzato dall’Ateneo Pisano, proprio su questo argomento.

La riforma dell’IRPEF introdotta nel 1997 ruotava intorno a due cardini: il primo era rappresentato dalla riduzione di 10 punti dell’aliquota massima, dal 55% al 45%; il secondo si basava sull’innalzamento dell’aliquota del primo scaglione dal 10% al 19%. L’aumento dell’imposta a carico dei contribuenti rientranti nel primo scaglione era stato compensato dall’aumento delle detrazioni personali e per carichi familiari. Il nuovo schema di detrazioni era più generoso con i redditi da lavoro dipendente, che beneficiavano degli assegni familiari, rispetto ai redditi da lavoro autonomo e d’ impresa individuale che usufruivano di minori detrazioni e non avevano diritto agli assegni familiari.

La riforma fu ben accolta perché tutti i contribuenti risparmiavano qualcosa; tuttavia aveva determinato un ulteriore ampliamento della forbice delle discriminazioni qualitative tra le diverse categorie di redditi da lavoro, rispetto alla situazione preesistente, motivato dalla forte evasione diffusa nelle attività di lavoro autonomo e d’impresa individuale.

Un elemento di riequilibrio ritenuto propedeutico al quadro di stabilità necessario per presentarsi con le carte in regola all’appuntamento ormai prossimo del passaggio dalla lira all’euro. Una soluzione basata su dati reali, tuttavia di legittimità assai dubbia nella scelta dei mezzi adottati per contenerla.

L’altra novità importante era costituita dall’introduzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, l’IRAP; su questa innovazione il mio giudizio è stato fin dall’inizio decisamente negativo; e l’esperienza non mi ha fatto cambiare idea, anzi.

L’imposta regionale sulle attività produttive, era stata introdotta sia per assicurare alle Regioni una significativa autonomia tributaria, sia per sostituire i contributi sanitari, fortemente regressivi. Sotto il profilo tributario l’IRAP è un’imposta sul valore aggiunto calcolata su basi fisiche anziché finanziarie, come avviene nell’IVA. Ne rappresenta sul piano economico una duplicazione, anche se con effetti in parte diversi.

Salvata con modalità a dir poco fortunose, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, nel 2006 per l’interesse della Francia alla ammissibilità della convivenza tra il sistema comune dell’IVA europea e una seconda imposta sul valore aggiunto basata un diverso schema di determinazione dell’imposta.

In questo delicato passaggio è giusto riconoscere al Ministro Visco, una abilità non comune, avendo strappato il consenso della Confindustria ad introdurre un’imposta che non ha uguali al mondo; la cui caratteristica principale è quella di esentare le importazioni, penalizzando le esportazioni.

In buona sostanza con le riforme del 1996/97, da un lato Visco aveva legato alla propria politica tributaria e dunque al PDS, di cui era un autorevole esponente, l’establishment rappresentato dagli alti redditi da lavoro dipendente (magistrati, dirigenti delle amministrazioni, private e pubbliche, opinionisti dell’informazione, professionisti caratterizzati da elevati redditi personali). Dall’altro aveva strappato il consenso del gruppo dirigente della Confindustria all’introduzione dell’IRAP, uno schema pensato per superare il divieto di discriminazioni qualitative dei redditi da lavoro, stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 42 del 1980, e mai risolto.

La motivazione addotta era che il costo della nuova imposta sarebbe rimasto prevalentemente a carico delle attività di lavoro autonomo, all’epoca caratterizzate da un’evasione diffusa, di dimensione particolarmente elevata, alle quali la riforma avrebbe trasferito maggiori imposte per 7000 miliardi di lire.

Il risultato finale fu molto diverso, perché la riduzione di 10 punti dell’aliquota massima a favore del lavoro dipendente, non ebbe alcun effetto pratico per i redditi da lavoro autonomo, per i quali la riforma aveva comportato una riduzione dell’IRAP netta, inferiore a quella riconosciuta al lavoro dipendente. Dal canto suo la nuova imposta, IRAP, era molto più onerosa rispetto ai contributi sanitari che andava a sostituire, a carico del lavoro autonomo, con il risultato di un forte aumento dell’evasione.

Tutto questo era largamente prevedibile ed era chiarissimo nella mente del Ministro Visco, professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Ateneo pisano, che con l’introduzione dell’IRAP aveva aggirato il divieto di discriminazioni qualitative fra redditi di lavoro, stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza 42 del 1980.

In ogni caso la nuova imposta era illegittima per eccesso di delega; il legislatore delegante aveva stabilito una aliquota ridotta per i redditi da lavoro autonomo, in quanto analoghi sotto il profilo qualitativo ai redditi da lavoro dipendente, non soggetti all’IRAP di cui il governo, in esecuzione della delega, non aveva tenuto conto.

Un aspetto quest’ultimo mai sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, per i noti limiti del sindacato incidentale.

Quando ho svolto questa relazione sul rapporto tra evasione ed economia sommersa, al Convegno di “Spring in Naples” nel giugno 2020 gli ultimi dati disponibili sull’economia sommersa si riferivano al 2018. Una condizione radicalmente diversa, rispetto a quella in cui aveva operato il Ministro delle finanze Visco, 25 anni prima, che non consente alcun parallelismo in tema di evasione, rispetto alla situazione attuale, la cui evoluzione è analizzata analiticamente dall’Istat a partire dall’introduzione dell’euro.

Questo saggio pubblicato nell’ ottobre 2021, a oltre un anno di distanza dal Convegno rappresenta un approfondimento dei temi svolti in quella relazione; tiene conto degli ulteriori aggiornamenti resi successivamente disponibili dall’Istat, riferiti al 2019. Dal punto di vista tributario l’aggiornamento si estende al mese di ottobre 2021.


b) La Legge delega n. 80/2003 e la riforma Berlusconi del 2004/05

Il Presidente Berlusconi, vincitore delle elezioni politiche nel 2001, aveva, con la Legge n. 80 del 2003, ottenuto dal Parlamento, un’ampia delega a riformare il Sistema tributario dello Stato, per adeguarlo alle nuove esigenze di competitività imposte dall’adesione all’euro.

Una riforma, che a consuntivo, aveva ridotto di 18 miliardi di euro il peso dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, ribattezzata per l’occasione IRE, a beneficio soprattutto dei redditi familiari; aveva riformato l’intero sistema tributario statale, allineando, con l’introduzione dell’IRES, l’imposizione dei redditi d’impresa a quella delle economie avanzate; aveva inoltre programmato la graduale abolizione dell’IRAP, una duplicazione dell’IVA, un unicum nel panorama fiscale internazionale.

Da ultimo aveva potenziato l’attività di accertamento, con l’aggiornamento degli studi di settore e la loro estensione alle imprese con un volume di affari fino a 5 milioni di euro. La riforma era stata affiancata ad un ampio condono con l’obiettivo di favorirne l’avvio.

In seguito alla riforma del 2003, le entrate tributarie dello Stato erano aumentate di un punto di PIL nel 2005 e di +1,7 nel 2006. Un risultato particolarmente significativo, perché la crescita del PIL rilevata in quell’anno, era stata in assoluto la più elevata registrata fino ad oggi in Italia, dopo l’attentato delle Torri gemelle del 2001.

Punto di arrivo di un processo di riforma organico, che partendo dalla revisione degli studi di settore, aveva favorito l’emersione di base imponibile nelle principali imposte, dirette ed indirette, soggette a dichiarazione periodica. Vale a dire proprio quelle maggiormente indiziate di evasione.

Con la riforma del 2003/05 l’aliquota del 23% (troppo elevata), stabilita per il primo scaglione fissato a 26.000 €, pur in assenza di modificazioni formali dello scaglione, in realtà poteva essere applicata a redditi significativamente più elevati, nel limite delle deduzioni a cui il contribuente aveva diritto.

In pratica per effetto del sistema di deduzioni introdotto con la riforma del 2003/2005, i 2/3 dei contribuenti rientravano nel primo scaglione, erano assoggettati ad un’aliquota massima del 23% e ad un’aliquota media sensibilmente inferiore, in funzione delle deduzioni di cui ciascun contribuente aveva diritto.

Quello schema non risolveva completamente il problema della disparità di trattamento tra le famiglie monoreddito e quelle bi reddito, determinato dall’abolizione nel 1976 del cumulo dei redditi familiari, in seguito alla sentenza n.179/1976 della Corte Costituzionale; in attesa di una riforma organica della tassazione dei redditi familiari, ne limitava gli effetti alle famiglie con i redditi più elevati.

Una condizione discutibile, che tuttavia nel breve periodo evidenziava, in base alla giurisprudenza della Consulta una illegittimità potenziale.


c) La contro-riforma Visco del 2006/07

Successivamente, tra il 2006 e il 2007, a seguito del cambio della maggioranza parlamentare, il secondo Governo Prodi aveva da un lato introdotto una serie di adempimenti a carico dei contribuenti, sottoposti a continue modifiche con i Decreti-legge del luglio e dell’ottobre 2006 (produzione di norme a mezzo di norme), che aumentavano decisamente gli oneri amministrativi di gestione delle imposte. Dall’altro aveva rivalutato ulteriormente gli studi di settore, già sottoposti a revisione l’anno precedente dal Governo Berlusconi.

A questi interventi di dubbia legittimità, quantomeno per effetto della retroattività della rivalutazione degli studi di settore, con la Legge finanziaria per il 2007 (un articolato di oltre 1680 articoli, sottratto di fatto al controllo parlamentare) il Vice-Ministro dell’economia on. Visco, titolare della politica tributaria, aveva affiancato la contro-riforma dell’IRE-IRPEF, entrata a regime, appena un anno prima.

Con la Legge finanziaria per il 2007, le deduzioni dall’imponibile, introdotte dalla riforma del 2003, decrescenti per contribuire ad assicurare la progressività del sistema tributario, erano state sostituite da detrazioni d’imposta, in tutto simili a quelle stabilite dalla riforma del 1972, tranne che per un particolare: di essere anch’esse decrescenti.

Un modello privo di trasparenza, di dubbia legittimità costituzionale che, di fatto nascondeva, facendo ampio uso di strumenti di illusione finanziaria, un incremento dell’aliquota formale, pari al tasso di decrescenza delle detrazioni. (3% per la no tax area e 1% per gli oneri familiari).

Completava il quadro della contro-riforma Visco la riduzione del primo scaglione da 26.000 a 15.000 €.

Il mantra che aveva accompagnato la parte relativa al fisco della Legge finanziaria 2007, ripreso da gran parte della stampa di informazione, era stato quello di ridurre i benefici a favore dei redditi più elevati (peraltro un dato non vero), introdotti dal Governo Berlusconi con la riforma del 2003.

Un’ affermazione suffragata dalla credibilità riconosciuta dall’establishment al Prof. Visco che, nell’arco di un solo anno, si sarebbe scontrata con la realtà di una manovra fiscale dissennata, prima ancora che improvvisata, proprio per gli effetti che avrebbe prodotto dal punto di vista distributivo, nel giro di pochi anni.

Il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008, e la crisi finanziaria internazionale che ne era seguita, aveva determinato un forte colpo di freno all’economia mondiale, specie nei Paesi più avanzati, con una previsione di crescita nel 2008 intorno allo zero.

In particolare il Centro studi della Confindustria, aveva indicato per il 2008 una crescita dello 0,5%, per le economie non direttamente coinvolte della crisi finanziaria, come quella tedesca, francese ed italiana.

Per l’Italia, purtroppo, quella previsione si rivelò irrealistica. Il 1° marzo 2009, l’Istat aveva indicato per l’Italia nel 2008 un calo del PIL dell’1,3% (-0,9 nelle regioni del Nord e del Centro, -1,6 in quello del Mezzogiorno). Un dato scioccante, disallineato rispetto alle altre grandi economie europee, salvo il Regno Unito, che aveva trasmesso la crisi finanziaria dagli Stati Uniti al resto d’Europa.

In ogni caso un calo del PIL assai poco influenzato dalla crisi finanziaria, scoppiata alla fine del terzo trimestre del 2008; occorre considerare che la brusca recessione indotta dalla crisi finanziaria, aveva inciso nel 2009 soprattutto sull’esportazioni; ed è noto che all’epoca le esportazioni delle regioni del Mezzogiorno contribuivano alla produzione del PIL in una percentuale che era circa la metà della media nazionale.

Quindi la causa del crollo del PIL del 2008 andava ricercata altrove, negli effetti di trascinamento prodotti dalla Legge finanziaria per il 2007, che aveva previsto un ulteriore crescita delle entrate tributarie pari allo 0,6% del Pil, ed una contrazione stimata di quest’ultimo dello -0,2% rispetto alla crescita tendenziale.

In realtà l’aumento delle entrate tributarie (e contributive a carico dei lavoratori dipendenti) risultò più che doppio, +1,25% rispetto al PIL, con un calo, concentrato nell’ultimo trimestre del 2007, dello -0,5%%, che avrebbe ridotto all’1,5%, la crescita, stimata dall’ISTAT nei primi tre trimestri di quell’anno, al 2%.

Nel 2008, l’effetto di trascinamento della controriforma dell’IRPEF dell’anno precedente aveva determinato un aumento del gettito di 11,2 miliardi, per la sinergia negativa prodotta dalla riduzione dell’ampiezza dei primi due scaglioni e dal l’aumento delle relative aliquote, rispetto all’ IRE-IRPEF del 2006.

In buona sostanza il crollo del tutto imprevisto del PIL nel 2008, era stato determinato solo in misura marginale dal rallentamento dell’economia mondiale nel secondo semestre; mentre i dati territoriali indicavano il ruolo determinante svolto dalla politica tributaria, avviata con i Decreti-legge del luglio e dell’ottobre 2006 e con la Legge finanziaria per il 2007 (II° Governo Prodi, Ministro dell’Economia Padoa Schioppa, Vice-ministro on. Visco con delega alla politica tributaria).


d) Il ruolo svolto dal Ministro dell’economia on. Tremonti tra il 2001 e il 2009

Nell’estate del 2001 dopo la vittoria elettorale e la formazione di un nuovo Governo presieduto dall’on. Berlusconi, l’on. Tremonti tornato alla guida del Ministero dell’Economia, aveva denunziato gli effetti distorsivi della “dual income tax” introdotta dal Ministro delle Finanze on. Visco con la Legge finanziaria per il 1997. Uno schema agevolato di tassazione del reddito d’impresa nelle società di capitali, sperimentato in Svezia.

In effetti lo schema adottato aveva concentrato su cinque grandi gruppi, sconti fiscali nell’ IRPEG per 12.000 miliardi di lire, su un totale di oltre 18.200. Il ministro Tremonti aveva dimezzato da subito il coefficiente agevolativo; abrogando la “dual income tax”, l’anno successivo.

Nel 2008 il PDL, nato dalla fusione di Forza Italia con la Lega Nord, aveva vinto le elezioni anticipate e l’on. Tremonti era tornato al governo nel ruolo centrale di Ministro dell’economia, in quota Forza Italia.

Il Ministro Tremonti, impegnato ad attuare il federalismo fiscale, sulla spinta degli interessi economici espressi dalla Lega Nord, tema che incontrava comprensibili resistenze in Forza Italia, anziché reintrodurre lo schema di IRE - IRPEF stabilito dal Governo Berlusconi in attuazione della Legge delega n. 80 del 2003, aveva deciso di dare un segnale immediato agli elettori, eliminando l’ICI sulla prima casa. Decisione gradita all’on. Berlusconi.

L’ICI, infatti era un’imposta particolarmente impopolare, la cui abrogazione era stata promessa dal Presidente Berlusconi nel confronto conclusivo della campagna elettorale del 2006, con il leader dell’Ulivo, Romano Prodi.

Il crollo del PIL nella prima metà del 2009 (-5,1% su base annua), aveva favorito l’occultamento della componente fiscale nel calo del PIL nel 2008 (-1,3%), alimentato dagli effetti di trascinamento della controriforma dell’IRPEF.

Ma, a prescindere da questa situazione opaca, a mio avviso la scelta di Tremonti fu determinata fin dall’inizio dalla volontà di mantenere in vita la nuova IRPEF, introdotta da Visco con la Legge finanziaria 2007, per acquisire un credito nei confronti del PD, unico beneficiario di quella controriforma, in vista della approvazione della Legge delega n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale.

Basta leggere l’incredibile meccanismo introdotto nella Legge delega per svuotare di contenuto le norme attuative della perequazione della diversa capacità fiscale dei territori, stabilita dall’art.119 Cost. per rendersi conto dell’attendibilità di questa ricostruzione.

La lettura qui richiamata della contro-riforma Visco del 2006/07, era stata a quei tempi oggetto di un mio studio, pubblicato sul questa Rivista, che ne aveva messo in evidenza le criticità. Ma il bandolo della matassa era nelle mani del Ministro dell’economia, attento ad escludere dalla Commissione tecnica qualsiasi esponente indicato dalle Regioni del Mezzogiorno esperto della materia.


e) Nota a margine delle riforme fiscali tra il 2006 e il 2019

Nelle note illustrative finali del Report su “Economia non osservata nei conti nazionali (anni 2016-2019) a cura dell’ISTAT, viene riportato quanto segue.

Al fine di cogliere la tendenza di medio periodo del sommerso economico, se ne presenta un’analisi in serie storica (2011-2019), anche in relazione all’evoluzione delle misure di contrasto all’evasione (introduzione dell’Indice sintetico di affidabilità, ISA, in sostituzione degli Studi di settore, e uso più estensivo della fatturazione elettronica) e alla revisione dei regimi fiscali riguardanti principalmente le piccole imprese e i professionisti” (ad esempio, la modifica, vale a dire la riduzione della platea dei forfettari).

Queste indicazioni non anticipano alcuna valutazione di tipo statistico; la presentazione dei dati in serie storica (2011-2019) offerta dall’Istat nel Report serve a facilitare l’indagine sugli effetti delle misure antievasione adottate dai Governi che si sono succeduti in quegli anni (dall’ultimo Governo Berlusconi ai governi Conte 1° e Conte 2°).

È ipotizzabile che la decisione dell’ISTAT di dare conto delle misure richiamate in precedenza sia stata motivata dall’autorevolezza del proponente delle misure antievasione, il prof. Vincenzo Visco, Presidente del Centro studi NENS, parlamentare dagli anni ’’70 del 900, più volte Ministro.

Anticipando quanto emerge dagli elementi statistici indicati nel Report, che verranno approfonditi nel paragrafo 6, si può affermare che dalla lettura del Rapporto, sulla base dei dati statistici offerti, non emerge alcun elemento che consenta di sostenere che le misure anti-evasione abbiano condotto, neppure indirettamente, alla sua riduzione.

Procediamo con ordine. L’aumento del gettito nella prima fase di introduzione in Italia della fattura elettronica, generalizzata a partire dal 2019 è legato al fatto che la nuova metodologia di emissione delle fatture digitali, comporta la corresponsione dell’IVA in tempi strettissimi. Al contrario, con l’emissione della fattura cartacea i termini per il versamento potevano slittare anche di molti mesi.

In buona sostanza chi era in condizione di non emettere fattura, aveva continuato a farlo anche dopo l’introduzione della fattura elettronica. È tuttavia ipotizzabile che l’introduzione generalizzata della fattura elettronica in Italia con quattro anni di anticipo rispetto al 2023, quando diventerà obbligatoria in tutta Europa, abbia indotto una parte dei contribuenti marginali più anziani (lavoratori autonomi ed imprese individuali), ad anticipare l’uscita dal mercato regolare chiudendo la partita IVA. Ma questo dato non ha nulla a che vedere con le misure di contrasto all’evasione introdotte tra il 2014 e il 2017, trovando la propria fonte nel peso insopportabile del fisco nei confronti delle attività minime, sia per la crescita esponenziale degli oneri di gestione degli adempimenti, sia per il peso degli oneri contributivi e fiscali che gravitano sulle attività minori, al di sotto dei 15 dipendenti.

Un dato reale, certificato dalla solitamente prudente Corte dei conti nel proprio rapporto sulla finanza pubblica del giugno 2015.

La sostituzione degli studi di settore con gli ISA è questione del tutto diversa. Non avendo avuto successo il tentativo, avviato dal Vice-Ministro delle finanze on. Visco, con la contro-riforma dell’IRE-IRPEF del 2007, di trasformare gli studi in un catasto anomalo dei redditi, per l’opposizione della Cassazione, l’Agenzia delle entrate si era inventata gli ISA (indici sintetici di affidabilità).

Un’operazione quanto meno discutibile, in cui l’aggettivo “sintetico” ne evidenzia l’assenza di trasparenza rispetto alla platea dei contribuenti, difficile da far rientrare nel concetto di buon andamento della PA, pietra d’angolo dell’art. 97 Cost.

La necessità di giustificare l’aumento del gettito prodotto dalla contro-riforma Visco del 2006-07, non era sfuggita a qualche docente vicino al governo, che aveva sostenuto che il maggior gettito era dovuto al timore degli evasori per ritorno al governo del Ministro Visco (il castigamatti degli evasori).

Oggi, ripensandoci mi vien da sorridere. Ma se penso alle criticità della c.d. flat tax per le partite IVA voluta dall’on. Salvini, di cui ho messo in evidenza i limiti e la confronto con il forfettario privo di qualsiasi elemento sia pur minimo di riscontro, introdotto dall’ex Ministro Visco con la contro-riforma del 2007, mi vien da dire che quando la ricerca si piega alle ragioni della politica, perdendo il senso del ridicolo, danneggia la politica ancor più di sé stessa.


4. La crescita delle entrate tributarie, in un'economia stagnante: un caso di scuola, l'Italia nel 2019

A questo punto dobbiamo chiederci perché il conto sulla diffusa percezione di una “enorme evasione” italiana, distonica rispetto ai nostri principali partner europei, semplicemente non torna. Uno sguardo alla dinamica delle principali imposte nel 2019, rese note dall’ISTAT nel marzo 2020, offre qualche utile riflessione al riguardo.

Il blocco di ogni attività economica non essenziale, dal 9 marzo 2019, in seguito alla rapida diffusione dell’epidemia da Covid-19 nelle regioni del Nord, consente di avere a disposizione tutti i principali indicatori economici e fiscali del 2019, non deformati dalle conseguenze economiche di quella che di lì a poco si sarebbe trasformata in una pandemia diffusa nell’intero pianeta.

Rendono quindi possibile la comparazione con i dati degli anni precedenti, non condizionata dei primi effetti della pandemia, e dalle scelte operate dal Governo per affrontarla.


a) Il gettito delle principali imposte evidenzia una dinamica molto più elevata rispetto alla crescita del PIL a prezzi di mercato: “l’enorme evasione” che fine ha fatto?

Secondo quanto pubblicato dall’ISTAT il 1° marzo 2020, l’economia italiana era cresciuta nel 2019 dello 0,3% in termini reali e del 1,2% a prezzi di mercato. Nello stesso periodo, sempre secondo l’ISTAT, le entrate tributarie erano aumentate dell’1,7%, quindi di mezzo punto in più rispetto all’andamento del PIL. Un risultato non del tutto scontato in un’economia che nel 2019 era stata in recessione tecnica per due trimestri.

Se analizziamo nel dettaglio i dati relativi alle principali imposte, non mancano ulteriori sorprese. L’IRPEF, la principale imposta italiana, aveva registrato un gettito pari a 191,602 miliardi ed un incremento del 2,2% sul 2018.

All’interno di questa cifra le ritenute sui redditi da lavoro dipendente del settore privato crescevano del +3,3%; la medesima percentuale caratterizzava anche nelle retribuzioni del settore pubblico, nel quale rientrano anche i trattamenti pensionistici. Se a questa cifra aggiungiamo l’addizionale regionale e comunale, pari a 12,218 miliardi, il totale sfiora i 204 miliardi di euro.

Ma il conto non è ancora finito. Nel 2019 alla cosiddetta flat tax per le partite IVA, in realtà un regime forfettario con numerose criticità, su cui abbiamo richiamato l’attenzione in questo lavoro, occorre aggiungere altre 7 nuove imposte cedolari, che a vario titolo sottraggono base imponibile all’IRPEF. Un indirizzo politico contestato con argomenti ineccepibili dal prof. De Mita, per l’assenza di una puntuale motivazione che ne legittimi la deroga, alla luce del principio di capacità contributiva.

Una soluzione debole che non consente una valutazione comparativa del vantaggio che ogni esclusione dall’IRPEF distribuisce ai beneficiari di queste deroghe; e non permette quindi una valutazione ponderata dei benefici distribuiti. Molto più razionale ed equo sarebbe uno schema basato su deduzioni in percentuale dell’imponibile dell’IRPE, che consentirebbe di ridurre l’imposta in situazioni che ne evidenzino l’esigenza per obiettivi di politica economica, mantenendo la riduzione dell’imposta netta all’interno e non al di fuori dell’imposta progressiva.

In controtendenza, le entrate relative alle ritenute sui redditi da lavoro autonomo e da impresa, assoggettati ad IRPEF, indicavano una contrazione di -1,276 miliardi, pari a -10,1%, determinata dall’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2019, della cosiddetta flat tax per le partite IVA.

In realtà un regime forfettario frutto d’ improvvisazione, caratterizzato da motivazioni ideologiche, costruito su misura per le attività di lavoro autonomo, esteso alle imprese individuali senza alcuna differenziazione tra redditi di lavoro autonomo e di impresa, caratterizzati da indici di redditività e da modalità di calcolo del reddito netto, non comparabili.

Uno modello d’imposizione sicuramente utile per semplificare il rapporto tra contribuenti e fisco e per invertire la tendenza alla fuga dalle attività individuali, contratte di oltre un quarto negli ultimi anni (1.550.000 partite IVA cancellate per effetto della crisi finanziaria internazionale del 2008, prima delle chiusure imposte dalla pandemia); esposto tuttavia a una serie di criticità, per le molte incertezze che lo hanno accompagnato fin dall’inizio, a partire dai limiti strutturali e dalle modalità di applicazione.

Da ultimo, difficilmente adattabile alle imprese familiari, quelle che avrebbero maggior bisogno di sostegno sul piano economico e sociale e d’innovazione in campo tributario.

Soprattutto uno schema non sufficientemente coordinato rispetto al regime generale dell’IRPEF, anch’esso caratterizzato da un inestricabile congerie di particolarismi, che ne hanno minato nel corso del tempo la credibilità, sotto il profilo della parità di trattamento, indi della tenuta dell’intero sistema.

Osservata da questo punto di vista, in un’ottica scevra da pregiudizi, è possibile affermare che la flat tax per le partite IVA, introdotta dal primo Governo Conte, ha avuto effetti positivi sotto il profilo della semplificazione dei rapporti tra il fisco e le partite IVA individuali, assoggettate all’IRPEF. Tuttavia ha sostanzialmente mancato l’obiettivo di armonizzare l’imposizione dei diversi redditi da lavoro non dipendente in senso perequativo.

Interessante anche il dato relativo ai redditi d’impresa soggetti ad IRES, che nel 2019 ha registrato entrate pari a 33,555 miliardi, con un incremento del 2,7%, in un anno in cui l’economia italiana è stata per due trimestri in recessione tecnica. Un chiaro indice che i problemi dell’economia italiana non vanno affrontati soltanto dal lato dell’offerta (es. la produttività), ma sono condizionati da una domanda interna sempre più debole e dalla dinamica delle esportazioni, che dipende solo in parte da noi.

Del resto, proprio la crescita vorticosa delle esportazioni negli ultimi sette anni, sulla quale ritornerò più avanti, rappresenta accanto ai numerosi indizi offerti dall’Istat al riguardo, la prova del ridimensionamento crescente dell’evasione.

Si tratta infatti di attività sottoposte a controlli doganali sia in uscita, sia in entrata nel paese di destinazione: pensare che un sistema di imprese che ha visto crescere in pochi anni le esportazioni di oltre 300 miliardi di euro, con una stima per il 2021 intorno ai 500 miliardi sia fiscalmente corretta sul mercato internazionale ed evasore seriale sul mercato interno significa non avere la minima idea su come funzioni un sistema produttivo avanzato, in un’economia mondializzata.

Purtroppo non mancano le criticità. Il blocco quasi totale delle attività produttive in seguito alla pandemia, a partire dal marzo 2019, ha evidenziato una notevole carenza di investimenti (pubblici e privati) nelle imprese di maggiori dimensioni. D’altra parte il continuo incremento della spesa pubblica corrente per l’acquisto di beni e servizi e la crescita abnorme del peso dell’IRPEF, alimentata dalla moltiplicazione di norme di contrasto all’evasione, coperte da meccanismi d’illusione finanziaria, hanno frenato la ripresa dell’economia. Fungendo da moltiplicatore degli effetti recessivi prodotti dalla crisi finanziaria del 2008 e da quella politica del 2011.

Anche il dato dell’IRES conferma un aumento del gettito più che doppio rispetto alla crescita del PIL ai prezzi di mercato; un segnale che deve far riflettere in un’imposta proporzionale, non progressiva come l’IRPEF.

Sempre con riferimento alla tassazione dei redditi d’impresa, richiamo il dato relativo al gettito dell’IRAP applicata al settore privato, pari a 15,002 miliardi, con un incremento del +0,4% rispetto all’anno precedente. Unica, tra le grandi imposte, in linea con l’allentamento dell’economia internazionale, a partire dalla Germania, uno dei principali mercati di sbocco delle nostre esportazioni.

Quanto all’IVA, sfiora i 137 miliardi di incassi, è la seconda imposta per gettito, ed ha registrato nel 2019 una crescita delle entrate del 2,5%: il doppio dell’incremento del PIL a prezzi di mercato (+1,2%). Disaggregando i dati, emerge qualche altro elemento significativo. L’IVA interna (122,990 miliardi) che riguarda sia il mercato interno, sia gli scambi con tutti i paesi dell’UE (che costituiscono il Mercato unico), ha segnato nel 2019 un incremento del 3%. In calo invece il gettito dell’IVA relativa alle importazioni extra UE (13,893 miliardi, -2,2%) in seguito al forte calo dei prodotti petroliferi e al rallentamento dell’economia internazionale.

Dalla lettura di questi numeri, che si riferiscono ad oltre il 90% del gettito complessivo delle entrate tributarie dello Stato nel 2019, emerge un dato incontrovertibile: nonostante una presunta “enorme evasione”, il gettito delle principali imposte cresce ad un tasso medio che è almeno il doppio, o più, rispetto alla crescita del PIL a prezzi di mercato (+1,2%).


b) Qualche approfondimento ulteriore

Di qui possiamo indicare due primi argomenti di riflessione. Il primo è il prodotto del ritorno al sistema di detrazioni d’imposta, introdotto per la prima volta con la riforma fiscale del 1971. Questo schema era stato superato dalla riforma dell’IRPEF del 2003/05, che aveva sostituito le detrazioni d’imposta e l’ampiezza degli scaglioni, indicizzati dalla fine degli anni ’’70 per tenere conto dell’inflazione, con deduzioni dall’imponibile non indicizzate.

La contro-riforma dell’IRE-IRPEF (riformata appena un anno prima), stabilita dal 2° Governo Prodi (Ministro dell’economia Padoa-Schioppa, Vice-Ministro con delega alla politica fiscale on. Visco), con la Legge finanziaria per il 2007, aveva due peculiarità:

a) la reintroduzione di detrazioni di imposta in sostituzione delle deduzioni dall’imponibile, caratteristiche della riforma Berlusconi;

b) la natura decrescente delle detrazioni, che comportava una maggiorazione dell’aliquota pari al tasso di riduzione delle detrazioni fino al loro esaurimento.

Il cumulo di queste due caratteristiche strutturali, introdotte con la Legge finanziaria per il 2007, in contrasto tra loro e mai corrette (un classico esempio di illusione finanziaria, di difficile percezione), ha impoverito i ceti medi, ha soffocato la crescita ed ha incentivato, quando sussistono le condizioni, l’evasione fiscale. Il secondo elemento di riflessione è evidenziato dal ridimensionamento dell’economia sommersa nel corso del tempo, e trova conferma nella cancellazione di 1.550.000 partite IVA (lavoratori autonomi ed imprese individuali) negli ultimi anni, fino allo scoppio della pandemia; quest’ultima ne ha fatte sparire altre 830.000.

È vero che i primi tre trimestri del 2021 hanno evidenziato una significativa dinamica nella nascita di nuove imprese e un aumento ancora più interessante dell’occupazione; ma si tratta di due fenomeni del tutto diversi.

Le partite IVA cancellate appartengono, nella maggior parte dei casi ad imprese piccole e piccolissime, che avendo meno di 15 dipendenti (il 60% dell’occupazione nel settore privato), non possono avere una RSA e quindi non hanno accesso alla tassazione agevolata della produttività (al 10%).

Per quelle di maggiori dimensioni, dei 20 fino a un centinaio di dipendenti o più, la situazione e non solo diversa ma più complessa; alcune hanno cominciato ad investire in seguito alla forte rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro subito dopo lo shock provocato dall’attentato delle torri gemelle a New York; molte altre hanno compiuto lo stesso percorso fino alla crisi finanziaria del 2008.

In questo processo che abbiamo descritto sinteticamente in precedenza, gli errori compiuti nel campo della politica tributaria, hanno svolto un ruolo poco osservato, tuttavia determinante.

Le imprese più dinamiche quelle che hanno innovato investendo sul proprio futuro, hanno trasformato gradualmente il nostro sistema industriale, rendendolo uno dei più competitivi, tra le economie avanzate. Le altre, troppo piccole per poter sopportare i costi crescenti degli adempimenti burocratici e di una fiscalità soffocante, sono state spazzate via nei sette terribili anni che vanno dal 2008 fino alle soglie del 2015.

Un chiaro indizio che l’ammortizzatore anomalo dell’economia sommersa e dell’evasione funziona sempre meno, per ragioni strutturali connesse con la modernizzazione dei processi produttivi e la continua contrazione dei segmenti non concorrenziali del mercato, in cui il sommerso economico trova ancora qualche spazio per sopravvivere.

Queste affermazioni trovano un supporto di grande interesse negli studi del Direttore della Fondazione Edison prof. Marco Fortis, profondo conoscitore ed innovativo interprete dell’industria manifatturiera globale. In un articolo pubblicato sul Il Sole 24 ore aveva richiamato l’attenzione su un dato inatteso, vale a dire che tra le 4800 tipologie di industrie manifatturiere, alle soglie della crisi finanziaria del 2008, le imprese italiane erano ai primi tre posti nel 12% del totale (520).

Un dato particolarmente significativo se si pensa che nel primo decennio di introduzione dell’euro la media degli addetti nelle imprese manifatturiere era di 3,2, in Italia contro il 19,4 delle imprese tedesche. Una condizione che ha fatto emergere il profondo cambio di strategia industriale delle imprese italiane per contrastare la rivalutazione dell’euro e l’eccesso de oneri amministrativi e fiscali che ne frenano la competitività, fondato sul binomio, innovazione e investimenti.

Il richiamo alla crisi finanziaria internazionale del 2008 ci riporta agli effetti molti plicativi che in quella crisi aveva svolto la controriforma dell’IRPEF, introdotta dal Vice-Ministro dell’economia, on. Visco, con la Legge finanziaria per il 2007. Effetti mantenuti in un cono d’ombra dei grandi mezzi di informazione, impegnati a sostenere l’immagine di una riforma, quella del 2003/ 2005 Berlusconi, che era opportuno correggere perché aveva concentrato il grosso delle riduzioni dell’imposta a favore dei redditi più elevati. (Un dato non corrispondente al vero).

È interessante notare che questa cortina fumogena impenetrabile in Italia, era stata spazzata via nel maggio 2012, da un Rapporto Eurostat sulla fiscalità nell’ UE che aveva evidenziato che nel 2011 la pressione fiscale in Italia era stata del 47,3, molto più elevata rispetto al 201o in cui era stimata al 45,6%.

Quanto ai dati relativi alla pressione fiscale implicita sul lavoro era stimata da Eurostat nel 2010 del 42,6%. In ogni caso si tratta di dati superiori rispetto a quelli diffusi sul la pressione fiscale implicita sul lavoro in Italia.

È ben vero che i dati relativi alla pressione fiscale sul lavoro, pubblicati da Eurostat sono limitati al 2010 e quindi non sono comparabili rispetto alla pressione fiscale del 2011 rilevata da Eurostat che tiene conto della crisi del debito sovrano italiano del 2011. Ma questo secondo dato resta sicuramente molto significativo sia perché riguarda la pressione fiscale complessiva; sia perché risulta significativamente superiore a quella registrata dall’Istat nello stesso 2012.

Un tema su cui occorre riflettere perché ha fortemente condizionato la politica tributaria italiana degli ultimi 10 anni; tema su cui mi soffermerò nella seconda parte del lavoro.

Con questo non voglio dire che l’evasione (che ovviamente non è scomparsa) non rappresenti un problema anche nelle economie avanzate alle quali l’Italia appartiene a pieno titolo. Ma osservata da quest’angolo visuale, dall’analisi dei dati ISTAT sul sommerso economico emerge un’Italia che pochi si attenderebbero, ormai allineata agli Stati dell’UE che presentano un tasso di evasione particolarmente contenuto e un’economia sommersa intorno al 10% del PIL, in continua diminuzione. Se aggiungo che il nostro fisco è inutilmente complesso, caratterizzato da elevati costi di adempimento, discriminatorio e penalizzante per le attività minori, ostile a tutte le forme di lavoro, diverse dal lavoro dipendente, si può concludere che ormai si sono create le condizioni per una svolta fiscale.


5. La "lotta all'evasione" metafora di una politica tributaria alla ricerca esasperata di maggiori entrate, con lo schermo di meccanismi di illusione finanziaria che non c'entrano niente con l'evasione

a) La crescita delle compensazioni per finanziare nuova spesa pubblica priva di copertura

Uno degli aspetti che hanno richiamato la mia attenzione, leggendo il Bollettino delle entrate tributarie, pubblicato ogni mese dal MEF, è la voce “compensazioni”, che, nel 2019, ha raggiunto la cifra “lunare” di oltre 41,607 miliardi di euro. Altro elemento interessante, 5 anni prima, nel 2014, le compensazioni ammontavano a 25,164 miliardi: un aumento di 16,5 miliardi in soli 5 anni.

Alla voce compensazioni, corrispondono, giocoforza, crediti dei contribuenti nei confronti del fisco, di dimensioni analoghe.

Ne consegue che l’aumento del 40% della voce compensazioni, nel breve arco di tempo di un quinquennio, non sia solo il frutto di automatismi interni al sistema, che in ogni caso andrebbero corretti; la sua origine va ricercata nelle misure fiscali discrezionali, introdotte nel corso del tempo, con le leggi finanziarie, con Decreti-legge e circolari interpretative dell’Agenzia delle entrate sulle modalità di applicazione e riscossione, di fatto vincolanti.

Una serie di disposizioni legate da un unico filo conduttore: quello di aumentare il gettito, disattente ai principi, poco trasparenti, sottratte di fatto per le fonti adottate, a controllo parlamentare. Modifiche di costituzionalità assai dubbia, quando introdotte con il Decreto legge di accompagnamento alla Legge di stabilità che incorpora il bilancio, o con variazioni ai saldi di bilancio, senza rispettare il vincolo dell’approvazione a maggioranza qualificata. Un principio stabilito con la Legge costituzionale n.1-2012, che ha introdotto in Costituzione con la riscrittura dell’art. 81, il vincolo dell’equilibrio del Bilancio al netto delle fasi avverse del ciclo economico.

In realtà la lievitazione della voce “compensazioni” è soltanto in parte concentrata nel breve arco temporale preso in esame. L’incremento di 8,9 miliardi nelle imposte dirette, registrato nel 2014 è stato determinato dall’entrata in vigore del D.Lgs. n.175/2014, che ha obbligato i sostituti d’imposta a contabilizzare separatamente le ritenute d’imposta effettuate, e le compensazioni operate. In precedenza invece i sostituti erano tenuti a versare al fisco le ritenute effettuate periodicamente al netto delle compensazioni.

Una modifica che nel 2015 (Governo Letta, Ministro dell’Economia Padoan) ha accresciuto il gettito dell’IRPEF di oltre 8,9 miliardi; a cui ha corrisposto un parallelo aumento di pari importo della voce “compensazioni”; un’operazione di trasparenza contabile, che ha ridotto i margini temporali a disposizione dei sostituti d’imposta per contabilizzare le compensazioni maturate dai contribuenti, favorendo il rimborso dei crediti d’imposta.

Un’innovazione che non ha prodotto alcuna ricaduta negativa sui contribuenti: in pratica un accredito più rapido delle ritenute operate dai sostituti, con vantaggio per il fisco (a spese dei sostituti).

Una novità che, letta alla luce dell’articolo 3 del DL. n.124/2019, di accompagnamento alla Legge di stabilità per il 2020 (Governo Conte-bis, Ministro dell’economia Gualtieri), che aveva introdotto nuove importanti limitazioni all’utilizzazione da parte dei contribuenti delle compensazioni (già registrate dall’Agenzia delle entrate nel proprio cassetto fiscale) a cui hanno diritto, evidenzia un indirizzo di politica tributaria, non episodico, che ha utilizzato il paravento del contrasto all’evasione, per accrescere a vantaggio del fisco, il fardello sempre più pesante delle compensazioni (42 miliardi di euro nel 2019, riferiti a IRPEF, IVA, IRES, IRAP).

Una voce che fino al 2013 non era neppure indicata nel Bollettino delle entrate tributarie, che nasconde una maggior pressione fiscale pari a oltre 2,3 punti di PIL, nel 2020, e riguarda indistintamente tutti, famiglie ed imprese con meno di 15 dipendenti, escluse dai premi di produttività detassati con l’aliquota ridotta del 10%. In base alla legislazione tributaria vigente, vengono registrati i dati relativi alle sole compensazioni operate sulle entrate tributarie, erariali e territoriali. Tra queste, quindi non rientrano le agevolazioni fiscali e i crediti d’imposta, di cui il contribuente sia eventualmente titolare, in quanto classificati come spese nel bilancio dello Stato.

Una precisazione opportuna, perché ne evidenzia, per differenza, sia l’ampiezza sia l’origine; in buona sostanza le compensazioni sono il frutto di versamenti periodici o di ritenute operate dai sostituti d’imposta o dal fisco, maggiori del dovuto, o di altri schemi ad effetto equivalente, nelle imposte soggette a dichiarazione annuale e a versamenti periodici scaglionati nel periodo considerato, resi poco trasparenti dall’ impiego meccanismi diffusi di illusione finanziaria.

Nell’IRES, in particolare, l’aumento degli acconti, molto superiore a quanto dovuto l’anno precedente, è stato utilizzato anche di recente per incrementare il gettito, senza intervenire sull’aliquota formale.

Una misura che utilizza per aumentare gli incassi un tipico strumento di illusione finanziaria, posta in essere da ultimo, tra il 2014 e il 2015, con effetti distributivi casuali, talvolta discutibili (Governo Letta, Ministro dell’economia Padoan).

Gli esempi richiamati evidenziano un indirizzo politico, esasperato a partire dal 2015, che nell’ultimo trimestre dell’anno, fa schizzare la pressione fiscale complessiva ben oltre il 50% del PIL.

Un andamento a scossoni, con effetti pro ciclici soprattutto nella fase discendente del ciclo, che ha colpito indistintamente le famiglie, le imprese individuali, i lavoratori autonomi, le imprese familiari e i pensionati.

Una condizione economica di origine tributaria che non ha uguali in Europa, che evidenzia la principale causa della bassa crescita italiana, a partire dalla crisi finanziaria del2008.


b) L’evoluzione del diritto e l’“illusione finanziaria” come disvalore

In buona sostanza, il disfavore nei confronti dell’illusione finanziaria nel diritto tributario, non dovrebbe essere relegato alle sole ipotesi in cui i suoi effetti determinino disparità di trattamento, in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di diritto interno ed europeo.

L’evoluzione del diritto, costituzionalmente orientata, nel concreto divenire della società nelle diverse componenti, sociali, culturali, economiche, tecnologiche, ha fatto emergere nella giurisprudenza, con crescente forza espansiva, la questione della buona fede oggettiva e dell’affidamento, quali valori fondanti del nostro ordinamento giuridico, indi di natura Costituzionale. Un tema di grande valore civile, espressione di principi giuridici immanenti al sistema, non frazionabili, che non può essere confinato ai soli rapporti tra privati.

Purtroppo la sua affermazione nella sfera pubblica, benché consustanziale all’agire della PA e limite alla discrezionalità dello stesso legislatore, nel corso del tempo ha evidenziato un preoccupante arretramento nel diritto tributario, di cui non vi è una sufficiente percezione, anche nella cultura giuridica.

È appena il caso di aggiungere che anche l’affidamento, non è senza limiti; ma questi, nel quadro del bilanciamento dei diversi interessi, non possono giungere al punto da giustificare un presunto “particolarismo” del fisco, fino a comprimere irragionevolmente la parità di trattamento dei contribuenti. Principio cardine dell’ordinamento, non solo tributario, che l’abuso dell’illusione finanziaria, ha contribuito a corrodere.


6. Dal 2014 la "lotta" all'evasione, con la moltiplicazione delle ipotesi di reverse charge, imbocca un sentiero scivoloso: ma è il diritto a finire fuori strada

Nel paragrafo precedente ho evidenziato dettagliatamente le criticità introdotte nel sistema tributario attraverso l’impiego crescente di meccanismi di illusione finanziaria, destinati a gonfiare in misura abnorme la voce “Rimborsi e compensazioni”. Quest’ultima, nel 2020 ha sfiorato i 42 miliardi di euro, classificandosi al terzo posto tra le entrate tributarie, dopo l’IRPEF e l’IVA.

Il questo paragrafo invece ci occuperemo di alcune figure specifiche introdotte nell’ordinamento tributario con l’obiettivo dichiarato di contrastare l’evasione fiscale: finalizzate in realtà a far lievitare le entrate attraverso l'introduzione di nuove specifiche deroghe al regime comune di applicazione dell'IVA europea.

Con ricadute anche nelle imposte dirette nelle imprese minori, con meno di 15 dipendenti (oltre il 60% dei dipendenti del settore privato), che, non avendo una RSA interna non hanno diritto al’ aliquota ridotta (10%) per i premi di produttività. Una disparità rilevabile quando l’aumento dell’inflazione a prezzi di mercato supera la soglia dell’1%.; che tuttavia opera anche quando l’aumento riguarda pochi € e dunque passa inosservato.


a) Le nuove figure di inversione contabile, finalizzate ad incrementare il gettito dell’IVA

Tra le novità più significative che hanno caratterizzato le politiche di contrasto all’evasione nell’ultimo quindicennio, oltre alla moltiplicazione degli adempimenti, con oneri aggiuntivi spesso superiori ai vantaggi per il fisco in termini di recupero del gettito, si segnala la lievitazione dello schema di inversione contabile nell’IVA.

Si tratta di una serie di deroghe al sistema comune di applicazione dell’IVA europea, assoggettate alla preventiva autorizzazione del Consiglio europeo, su proposta della Commissione.

Se si esclude il reverse charge nelle vendite di oro per uso industriale, entrato a far parte dell’ordinamento italiano con la Legge n. 7/2000 (Legge comunitaria) in applicazione della Direttiva n. 80/1998 CE, che aveva introdotto lo schema di inversione contabile nel sistema comune dell’IVA europea, in questo specifico settore, caratterizzato dalla possibilità di frodi di dimensioni enormi, il reverse charge facoltativo, è entrato a far parte della disciplina dell’IVA in Italia, in base alla Legge n. 296/2006 (Legge finanziaria per il 2007).

La prima richiesta di deroga era stata presentata dal Governo italiano alla Commissione e al Consiglio UE nel 2006 (secondo Governo Prodi, viceministro delle finanze Visco) ed aveva riguardato l’introduzione del regime di inversione contabile (c.d. reverse charge) nei sub-appalti in edilizia.

In base al nuovo schema di applicazione dell’imposta, che rimarrà in vigore, in seguito a successive proroghe, fino al 2023, l’IVA dovuta dall’impresa sub-appaltante, è versata direttamente dall’impresa titolare dell’appalto principale, in luogo di quella che, in base alle norme comuni in materia di IVA, sarebbe, secondo un’espressione non felice della legge italiana, il soggetto passivo (il contribuente, secondo la legislazione francese da cui ha tratto origine l’IVA comunitaria) titolare dell’obbligazione tributaria.

Il reverse charge, spezzando il meccanismo di determinazione del valore aggiunto, calcolato su base finanziaria, attraverso gli istituti della detrazione e della rivalsa, determina, a prima vista, un vantaggio (temporaneo) per il fisco.

L’Amministrazione finanziaria incassa un’IVA calcolata sul valore del corrispettivo fatturato dall’impresa subappaltante al proprio committente; quest’ultimo a sua volta, versa al fornitore il corrispettivo pattuito, trattenendo l’IVA dovuta, che, in seguito, verrà versata direttamente al fisco dall’impresa committente.

Descritto così, Io schema del reverse charge appare lineare: un elemento di semplificazione che rende più semplice la gestione dell’IVA sia da parte dell’impresa subappaltante, sia dell’Amministrazione finanziaria.

Purtroppo questa è una rappresentazione semplicistica di una realtà più complessa, che va esaminata con equilibrio e la necessaria prudenza, per gli effetti negativi che può determinare nei confronti dei soggetti sottoposti a questi schemi derogatori del sistema comune dell’IVA europea.

In questo meccanismo impositivo i vantaggi sono ripartiti tra il fisco e l’impresa committente, mentre per l’impresa subappaltante il maggiore onere è rappresentato dalla circostanza che, non incassando l’IVA relativa alle prestazioni effettuate e fatturate, non potrà detrarre l’IVA assolta a monte per realizzare le prestazioni stesse.

Il fisco è più tutelato perché, specie nel caso di una pluralità di attività affidate in subappalto dall’impresa committente, potrà concentrare le attività di controllo. Anche l’impresa committente ha un vantaggio finanziario dal reverse charge, perché corrisponderà all’impresa subappaltante soltanto il corrispettivo delle prestazioni ricevute; mentre verserà, per conto dell’impresa subappaltante l’Iva trattenuta, alla prima scadenza utile.

Il risvolto negativo, per l’impresa sub-appaltante, fiscalmente corretta, è costituito, appunto, dall’impossibilità di detrarre l’IVA assolta a monte, per mancanza di IVA da versare al fisco, su cui effettuare la detrazione; questa potrà essere detratta successivamente, compensata, ovvero ne potrà essere chiesto il rimborso.

Una condizione che, sia detto per inciso, per rispettare il diritto dei contribuenti a detrarre integralmente l’IVA assolta a monte, più volte riaffermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, richiederebbe compensazioni e rimborsi rapidi, che non appartengono al DNA della nostra Amministrazione finanziaria.

Uno schema indubbiamente efficace, per contrastare l’evasione in situazioni particolari, con evidenti fattori di criticità (in passato effettivamente diffusa nei subappalti), che tuttavia rompe la coerenza dello schema impositivo dell’IVA, determinando disparità di trattamento, in contrasto con il principio di neutralità dell’IVA.

Il reverse charge, limitando l’esercizio della rivalsa, trasferisce dai contribuenti IVA, assoggettati al regime di inversione contabile, allo Stato, un gettito IVA maggiore del dovuto. L’impresa committente, destinataria della fattura emessa dall’impresa sub-appaltante per la liquidazione delle attività svolte, verserà all’impresa commissionaria il corrispettivo pattuito, trattenendo invece l’IVA, che verrà corrisposta direttamente allo Stato.

Il vantaggio finanziario a favore dell’erario sarà tanto maggiore, quanto più lungo sarà il tempo necessario al contribuente per poter esercitare la rivalsa sull’attività imponibile non assoggettata al reverse charge, ovvero chiederne il rimborso.

Questo schema di deroga al sistema comune dell’IVA, dovrebbe essere limitato alle sole attività interne (come i subappalti) che, per i profili strutturali che le caratterizzano, presentino un potenziale rischio di evasione, che non possa essere diversamente contrastato.

Si deve quindi trattare di situazioni specifiche che, per le particolari condizioni in cui viene svolta l’attività imponibile, rendano il reverse charge, strumento di elezione nel contrasto all’evasione nell’IVA. Ad esempio, l’obbligo di inserire nella dichiarazione dei redditi dell’anno successivo le somme di IVA da portare a compensazione o a rimborso, non inserite nel modello 730, introdotto dal 2° Governo Conte (Ministro dell’economia Gualtieri) nel giugno 2020, è di tutta evidenza vessatorio, dunque illegittimo.

È appena il caso di aggiungere che il reverse charge non dovrebbe essere utilizzato in sostituzione di una normale attività di controllo, da parte dell’Agenzia delle entrate.

In conclusione, la possibilità di estendere il reverse charge alle importazioni di merci sottoposte a controlli doganali in Italia, o in altri paesi dell’UE (di provenienza extra-UE) non dovrebbe essere consentita. Un elemento oggettivo qual è il controllo doganale, esclude ogni possibilità di evasione e quindi non autorizza deroghe al sistema comune dell’IVA, che ne compromettono la neutralità.

Uno strumento da usare quindi con particolare cautela, soltanto nelle situazioni in cui le esigenze anti frode appaiono tali da giustificare una misura che, altrimenti assumerebbe la connotazione di un privilegio del fisco, incompatibile con i principi del diritto europeo e con la natura democratica dello Stato repubblicano.

Purtroppo è quel che è accaduto ed abbiamo documentato nel paragrafo precedente. Il contrasto all’evasione ha rappresentato, tra il 2014 e il 2019 e permane tuttora, lo schermo per alimentare, attraverso la moltiplicazione delle deroghe al sistema comune dell’IVA europea, il pozzo senza fondo delle compensazioni, con un vantaggio in termini di maggiore gettito temporaneo molto significativo, superiore ai 42 miliardi di Euro (considerando tutte le principali imposte dirette, oltre l’IVA), in ulteriore crescita anche nel 2020/21.


7. L'evoluzione dell'economia sommersa nel periodo 2014/2018 in un recente rapporto dell'ISTAT

a) Le nuove misure di contrasto all’evasione e gli effetti anomali sul gettito

Nelle pagine che precedono ho messo in rilievo i limiti e gli effetti distorsivi prodotti dall’introduzione nell’ordinamento tributario di due distinti strumenti anomali, finalizzati ad incrementare le entrate tributarie.

Il primo, rappresentato dalle compensazioni e dai rimborsi, ha ad oggetto la moltiplicazione delle ipotesi in cui il contribuente, attraverso l’impiego spregiudicato di meccanismi di illusione finanziaria è costretto a versare anticipatamente più del dovuto nelle imposte dirette, calcolate su base annuale, soggette a versamenti periodici.

Il secondo si riferisce alle deroghe al sistema comune dell’IVA europea autorizzate dalla Commissione e dal Consiglio UE con l’obiettivo di contrastare l’evasione. In realtà, sulla base degli elementi offerti dall’esperienza italiana, non emerge alcun elemento che evidenzi che le misure autorizzate dalla UE oltre ad avere determinato un incremento temporaneo del gettito, per periodi di tempo variabili, anche molto lunghi, abbiano anche comportato una riduzione dell’evasione dell’IVA.

Le cifre che vengono indicate per la quantificazione dell’evasione in Italia sono molto diverse tra loro. Le ragioni di queste differenze sono le più varie, spesso nascondono interessi economici, politici, sindacali; in qualche caso i numeri che circolano sembrano il risultato semplicistico dell’applicazione alle stime relative all’economia sommersa della percentuale relativa alla pressione tributaria e contributiva nazionale, il che, banalmente, è fuorviante. Mi sembra quindi opportuno partire da elementi certi, per giungere a conclusioni più vicine alla realtà.

Innanzitutto, un chiarimento metodologico. Gli studi dell’Istat sull’economia sommersa sono aggiornati ogni due anni, in modo da consentire il maggior affinamento possibile delle stime fornite. Gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2019, pubblicati nell’ottobre 2021; ulteriori indicazioni relative al 2020 verranno comunicate dall’Istat nell’ottobre 2022.

Secondo l’Istat l’aspetto di maggiore interesse è rappresentato dai trend che caratterizzano i settori osservati; anche scostamenti che possono apparire minimi (+0,1%, -0,2%) se coerenti nel corso del tempo hanno un importante valore indicativo.

I dati che interessano il nostro lavoro sono quelli relativi al sommerso economico, composto da due elementi: a) sotto-dichiarazione, b) lavoro irregolare.

A questa cifra occorre aggiungere una quota oscillante tra l’1% e l’1,2% del PIL, sostanzialmente stabile nel tempo, che rappresenta la stima dell’economia criminale. Nell’analizzare i dati elaborati dall’Istat, non terrò conto di questa voce: è infatti un dato di comune esperienza che l’economia criminale rappresenta una particolare tipologia di contribuente, che utilizza attività regolari, ineccepibili sotto il profilo fiscale, per “lavare” i profitti delle attività illecite. Tra questi rientrano tipicamente, lo spaccio di droga, il riciclaggio di denaro sporco, il contrabbando di sigarette; una voce quest’ultima che ha rilevanza fiscale, tuttavia del tutto marginale rispetto all’evasione, che si concentra nelle principali imposte dirette ed indirette.

Tra le componenti dell’economia irregolare l’Istat indica inoltre la voce “altro”, 17,6 miliardi (1% PIL). In quest’ultima rientra il valore degli affitti in nero, quello delle mance corrisposte ai lavoratori dipendenti dai privati nel settore della ristorazione e una quota che emerge dalla riconciliazione fra le stime degli aggregati della domanda e dell’offerta, che corrisponde essenzialmente ad aggiustamenti statistici. Non prenderemo in considerazione anche questo elemento, privo di qualsiasi rilevanza ai fini dello studio.

Gli ultimi dati disponibili pubblicati dall’ISTAT nell’ottobre 2021, si riferiscono al periodo che va dal 2014 al 2019: offrono spunti di notevole interesse perché analizzano gli anni immediatamente successivi alla recessione-depressione innescata dalla crisi del debito sovrano italiano (2011/12), terminata alle soglie del 2015.

Nel 2014, ultimo anno di recessione, l’economia irregolare si era attestata a 195,5. miliardi (12% PIL) mentre nel 2018 il sommerso economico valeva 188,9miliardi (10,7% PIL). Il 2019 aveva evidenziato una ulteriore riduzione (183, 4 miliardi) con un calo rispetto al PIL a prezzi di mercato, di un altro mezzo punto (10,2%).

Nel 2018 la principale voce dell’economia sommersa era rappresentata dalla sotto-dichiarazione del valore aggiunto prodotto: 95,6 miliardi (5,4% PIL) mentre la voce relativa al lavoro irregolare era stimata pari a 78,5 miliardi (4,4% PIL).

La stima del lavoro irregolare (78,5 miliardi pari 4,4% del PIL, nel 2018) richiede, secondo l’Istat, particolare attenzione; si riferisce infatti non soltanto al lavoro nero, completamente irregolare, ma investe anche il lavoro regolare.

In quest’ipotesi, i dipendenti vengono dichiarati in base ai minimi contrattuali, mentre una parte del salario viene corrisposto fuori busta; a questo occorre aggiungere gli straordinari e i premi di produzione, anch’essi corrisposti al nero.

Una condizione quest’ultima che potremmo definire normale nelle imprese con meno di 15 dipendenti che non hanno una RSA; il presupposto per poter usufruire dell’aliquota ridotta del 10% per la produttività, richiede infatti il preventivo accordo con la rappresentanza sindacale aziendale.

Se teniamo conto che il 49% dei dipendenti del settore privato lavora in imprese con meno di 10 dipendenti, mentre il 70% è occupato in imprese con meno di 50, dobbiamo essere consapevoli che la struttura distributiva del lavoro è frazionata in una miriade di micro e piccole imprese.

Queste ultime devono confrontarsi sia con il peso degli oneri contributivi e tributari, tra i più elevati al mondo, sia con il costo crescente degli adempimenti fiscali, inversamente proporzionali rispetto alle dimensioni di impresa. Questa condizione, determina una produzione di quote di valore aggiunto e di retribuzione irregolari, il cui limite è rappresentato dalla possibilità di resistere in nicchie di mercato non concorrenziali: una condizione sempre più difficile da realizzare.

I premi di produttività tassati con l’aliquota del 10% furono introdotti all’inizio del 2009, vale a dire in un’altra era geologica dal Ministro dell’economia on. Tremonti, per compiacere sia la Confindustria sia i sindacati.

In considerazione delle condizioni del mercato del lavoro qui richiamate, si deve riconoscere che si trattò di una decisione politica sbagliata, che, nel corso del tempo ha moltiplicato le disparità di trattamento tributarie nel mercato del lavoro, in contrasto con principi di rilievo costituzionale.

Un dato di fatto, che trova un immediato riscontro nella cancellazione di oltre 1.550.000 partite IVA individuali, tra il 2009 e il 2014; mentre altre 870.000 sono state spazzate via dalla pandemia. Per inquadrare meglio questo aspetto rinvio alla relazione sulla finanza pubblica e il sistema tributario del giugno 2015 della Corte dei conti.

La di solito prudente magistratura contabile scrive a chiare lettere che il sistema delle imprese più piccole non potrebbe sopravvivere senza l’apporto di una robusta evasione fiscale. In buona sostanza non è il sommerso ad alimentare l’evasione; al contrario è l’eccesso di pressione tributaria concentrato nei settori del lavoro autonomo, degli imprenditori individuali assoggettati all’IRPEF e dei lavoratori dipendenti di imprese con meno di 15 addetti ad alimentare secondo l Corte dei Conti l’evasione per sopravvivere.

È interessante notare che la quota di valore aggiunto non dichiarato, si riduce nel periodo considerato dal 46,5% del 2014 al 46,1% del 2017, mentre quella relativa al il lavoro irregolare scende negli stessi anni dal 38,2% al 37,3%. In questo quadro, la componente del lavoro irregolare dipendente cresce del 3,1%, mentre quella delle partite IVA individuali si riduce del 5,2% (un chiaro indice della contrazione delle attività in questo settore).

Un altro elemento di indubbio interesse ai fini della valutazione del rapporto tra sommerso economico ed evasione in base agli elementi indicati dall’Istat è rappresentato dalla individuazione dei settori nei quali si concentra maggiormente il sommerso economico.

1) Settore dei servizi alla persona, che evidenzia irregolarità pari al 33,5% concentrate per i 2/3 nel lavoro irregolare; 2) Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, attività di ristorazione, che evidenziano irregolarità pari al 21,9%; 3) Costruzioni, 20,6%; 4) agricoltura e pesca, 17,3%; 5) Produzione di beni alimentari e di consumo, 10,9%.

Negli ultimi tre anni (2017-18 -19) l’economia sommersa si è ridotta di 11, 5 miliardi concentrati per i 2/3 sulla sotto-dichiarazione e, per meno di 1/3 sul lavoro irregolare.

In base ai dati del 2018 sulla contrazione del sommerso economico, ulteriormente corroborati da quelli del 2019 che evidenziano un ulteriore contrazione dello 0,5% rispetto al PIL, è interessante rilevare che dal 2014 al 2019 l’economia inosservata, vale a dire il sommerso economico e l’economia criminale sono diminuiti di -4,3%.

L’Istat richiama l’attenzione sul fatto che la diffusione del sommerso economico è fortemente legata al tipo di mercato piuttosto che alla tipologia di bene/servizio offerto. A questo fine rileva la specificità funzionale dei prodotti/servizi scambiati piuttosto che le caratteristiche tecnologiche dei processi produttivi. In buona sostanza è la specificità dei servizi offerti e non la loro qualità a favorire il sommerso, vale a dire l’assenza di concorrenza.

In coerenza con questo indirizzo le attività industriali sono distinte in produzione di beni di consumo, produzione di beni di investimento e produzione di beni intermedi (che include il comparto energetico). Nel terziario le attività dei servizi professionali sono considerate separatamente dagli altri servizi alle imprese.

In base a questi criteri selettivi i settori in cui il peso del sommerso economico è più rilevante sono nell’ordine 1) Altri servizi alle persone (35,5% del valore aggiunto totale); 2) Commercio, trasporti, alloggi, ristorazione (21,9%); 3) Le costruzioni (20,6%).

Negli altri servizi alle imprese (5,5%), nella produzione di beni di investimento (3,4%) e nella produzione di beni intermedi (1,6%) si registrano le minori incidenze.

Aggiungo per completezza, che sia nei settori a maggior incidenza del sommerso economico, sia in quelli di minor rilevanza, possono evidenziarsi differenze tra la componente sommerso economico e quella del lavoro irregolare; ma questo elemento non influisce sulla incidenza maggiore o minore delle attività come indicate in precedenza, con due sottolineature: nel settore Altri servizi alle persone (23,2%) la componente lavoro irregolare ha un peso elevato perché in questo settore rientra il lavoro domestico.

Il lavoro irregolare svolge un ruolo importante anche nel settore primario in cui l’economia sommersa è alimentata esclusivamente dal lavoro irregolare (17,3%).

L’accelerazione della contrazione dell’economia sommersa degli ultimi tre anni e la marginalità dei settori di mercato non concorrenziali in cui è concentrata, su cui si sofferma l’Istat confrontando i dati del triennio 2017/2019, hanno messo in evidenza una condizione di sopravvivenza che ha impedito a queste imprese, piccole e piccolissime di investire sul proprio futuro.

Un insieme di criticità che ha colpito indistintamente tutte le regioni italiane. Tuttavia, con esiti ancor più gravi, nel Mezzogiorno continentale e nelle grandi isole, nelle quali il crollo dei redditi, prodotto dalla crisi finanziaria del 2008, si è innescato sugli effetti prodotti dall’incremento esponenziale degli adempimenti amministrativi e dall’aumento dell’IRPEF, dopo le modifiche radicali introdotte negli anni 2006/2007 dal secondo Governo Prodi. Dei cui effetti negativi sul funzionamento del sistema tributario vi è tuttora in Italia una percezione marginale, per non dire irrilevante.


8. Conclusioni

Nel paragrafo 4) che analizza il tema delle compensazioni ho indicato con chiarezza che la loro moltiplicazione è il punto centrale di una strategia messa in campo dall’Agenzia delle entrate per conto del Governo, per aumentare le entrate tributarie senza intervenire sulle imposte. Ho quindi evidenziato la palese illegittimità di uno schema che aumenta la disponibilità di cassa e quindi la spesa, incrementando in misura abnorme la voce “rimborsi e compensazioni”.

Quest’ultima fino al 2013 non era neppure indicata nel Bollettino delle entrate tributarie, pubblicato ogni mese a cura del MEF.

In buona sostanza sono stati impiegati intenzionalmente una serie di artifici per incrementare il gettito, attribuendo il risultato, in buona parte alla “lotta all’evasione”.

Nella relazione svolta a Napoli nel giugno 2020, nell’ambito del Convegno Spring in Naples, ero giunto a conclusioni analoghe, partendo da un dato oggettivo: la spesa per l’acquisto di beni e servizi da parte della PA nel corso degli ultimi 10 anni è raddoppiata, con un tasso di crescita molto superiore a quello del PIL a prezzi di mercato.

Non deve stupire che l’introduzione di nuove figure quali il “reverse charge” esteso, nel quadro delle misure di contrasto all’evasione nell’IVA, abbia determinato un incremento del gettito. Un risultato che, come abbiamo dimostrato nei paragrafi precedenti, soltanto in ipotesi particolari previene il rischio di evasione.

Al riguardo occorre sottolineare che la stessa idea di gap da recuperare rispetto al gettito potenziale delle principali imposte, rappresentato dall’evasione apre la strada a molti dubbi. La Commissione che si occupa di questo tema istituita presso il MEF è composta da funzionari dell’Agenzia delle entrate, da economisti ed altre figure di contorno. Spicca l’assenza di un giurista esperto in diritto tributario, vale a dire l’unica figura tecnicamente attrezzata per offrire una lettura sistematica del tema per il quale la Commissione è stata istituita.

La disponibilità, a partire dal 2014 dei dati sull’economia sommersa, presentati dall’Istat in serie storica, ha consentito, attraverso la comparazione dei dati disaggregati relativi al sommerso economico e al lavoro irregolare di evidenziare una pressoché perfetta corrispondenza tra la dimensione del sommerso economico indicata dall’Istat e l’andamento dei prezzi registrato sul mercato.

Più elevati nei settori in cui il sommerso economico appare rilevante, caratterizzati da limitazioni alla concorrenza, rispetto ai settori concorrenziali nei quali l’aumento dei prezzi è molto più contenuto se non addirittura irrilevante. Questo confronto ha richiesto un po’ di tempo e l’elaborazione di una serie di dati, che hanno dimostrato la pressoché piena e costante corrispondenza tra i dati forniti dall’Istat sulla concentrazione del sommerso economico e la corrispondente evoluzione dei prezzi registrati sul mercato interno.

Ad esempio, al dato riportato dall’Istat relativo ai beni di investimento acquistati dalle imprese in cui il sommerso economico e stimato pari all’1%, praticamente irrilevante, corrisponde una significativa stabilità dei prezzi di mercato.

Un elemento particolarmente significativo sul rapporto tra sommerso ed evasione fiscale viene dal settore agricolo. La riforma della fiscalità introdotta tra il 2006 e il 2007 dal II° Governo Prodi, a favore delle società agricole, prescinde dalla forma giuridica adottata, con la sola esclusione delle società per azioni. A partire dal 2010, la bilancia commerciale agricola ha registrato per la prima volta un surplus di 250 milioni di euro.

Dieci anni dopo, l’avanzo commerciale dell’agricoltura italiana ha superato i 40 miliardi di euro, pur rappresentando nel quadro dell’economia nazionale una quota di poco inferiore al 3% del PIL.

Tutti i dati riportati nel corso del lavoro sono ricavati dei rapporti sull’economia sommersa che listata pubblica annualmente, con aggiornamento biennale.

Gli elementi relativi alle entrate tributarie sono invece riportati esclusivamente dal Bollettino delle entrate tributarie, che il MEF pubblica con cadenza mensile.