Scritto da Mario Cermignani • ott 2023
L’articolo mette in evidenza, innanzitutto, la funzione oggettiva tipica del “tributo” (ed in particolare dell’“imposta”, che rappresenta il tributo per eccellenza e sicuramente quello più rilevante), rinvenibile nel fatto fondamentale che esso è, in linea di principio ed intrinsecamente, un’obbligazione “di riparto” ossia un’obbligazione mediante la quale si attua la equa/giusta ripartizione/distribuzione di una spesa pubblica generale tra tutti i membri di un gruppo sociale organizzato ed istituzionalizzato in “ente pubblico” (Stato, Regione, Comune etc.), secondo ragionevoli e perequati “indici” o “criteri” di riparto (necessariamente convergenti con il presupposto impositivo di fatto della stessa obbligazione tributaria) espressivi di capacità contributiva (e con modalità conformi all’inderogabile principio di uguaglianza, emergente dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost.). Accanto al principio generale dell'uguaglianza “formale” deve però prevedersi un corrispondente principio generale di uguaglianza “sostanziale”, che consiste nell'obbligo per i poteri pubblici di superare ed abbattere le disuguaglianze economiche e sociali (strutturali/fattuali) esistenti nella società, attraverso un'azione pubblica diretta ad attuare principi di giustizia (re)distributiva delle risorse, delle ricchezze e dei beni sociali secondo criteri di effettiva e sostanziale uguaglianza proporzionale ai diritti fondamentali spettanti a ciascun consociato, in ragione della necessità di riparare o compensare gli svantaggi naturali e sociali esistenti oggettivamente tra classi ed individui. Il principio generale di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) fornisce evidentemente il fondamento giuridico-razionale necessario e sufficiente per azioni pubbliche dirette a vantaggio di categorie o classi sociali svantaggiate/sfavorite; l'uguaglianza sostanziale, in altri termini, consente la possibilità di quella continua opera di compenetrazione dialettica tra i principi e gli elementi di giustizia commutativa (fondata sull’equivalenza delle prestazioni reciproche nello scambio sociale) e quelli di giustizia distributiva (riguardante l’equa ed imparziale o uguale distribuzione del prodotto sociale), che costituisce la modalità basilare di sviluppo progressivo delle politiche sociali da attuare necessariamente attraverso il fulcro centrale dell’imposizione tributaria “progressiva” idonea a finanziare l’erogazione di beni e servizi pubblici diretti a garantire e tutelare i diritti sociali fondamentali di tutti i consociati in posizione di assoluta ed universale parità sostanziale, attuando un equo trasferimento di risorse economiche da classi e strati sociali avvantaggiati e “forti” verso classi e strati sociali economicamente “deboli” e svantaggiati, in modo da realizzare concretamente un principio di essenziale “giustizia redistributiva” funzionale a compensare ed eliminare il più possibile gli svantaggi naturali ed economico-sociali dei soggetti deboli (e quindi ad avvantaggiare equamente i soggetti più svantaggiati o meno avvantaggiati, secondo un criterio razionale di generale “giustizia distributiva”).
The article highlights, first of all, the typical objective function of the "tax" (and in particular of the "tax," which represents the tax par excellence and certainly the most relevant one), found in the fundamental fact that it is, in principle and intrinsically, an "apportionment" obligation, that is, an obligation through which the equitable/just distribution of a general public expenditure among all the members of a social group organized and institutionalized in "public entity" (State, Region, Municipality etc.), according to reasonable and equitable "indices" or "criteria" of distribution (necessarily converging with the de facto taxing prerequisite of the same tax obligation) expressive of contributive capacity (and in a manner consistent with the inalienable principle of equality, emerging from the combined provisions of Articles 3 and 53 of the Constitution). Alongside the general principle of "formal" equality, however, there must be a corresponding general principle of "substantive" equality, which consists in the obligation of the public authorities to overcome and eliminate the economic and social (structural/factual) inequalities existing in society, by means of public action aimed at implementing principles of (re)distributive justice of resources, wealth and social goods according to criteria of effective and substantial equality proportional to the fundamental rights due to each fellow citizen, because of the need to repair or compensate for the natural and social disadvantages existing objectively between classes and individuals. The general principle of substantive equality (Article 3 Const.) evidently provides the necessary and sufficient legal-rational basis for public actions directed to benefit disadvantaged/disadvantaged social categories or classes; substantive equality, in other words, allows for the possibility of that continuous work of dialectical interpenetration between the principles and elements of commutative justice (based on the equivalence of reciprocal benefits in social exchange) and those of distributive justice (concerning the fair and impartial or equal distribution of the social product) which constitutes the basic mode of progressive development of social policies to be implemented necessarily through the central focus of "progressive" taxation suitable for financing the provision of public goods and services aimed at guaranteeing and protecting the fundamental social rights of all members of society in a position of absolute and universal substantive equality, implementing an equitable transfer of economic resources from advantaged and "strong" classes and social strata to economically "weak" and disadvantaged classes and social strata, so as to concretely realize a principle of essential "redistributive justice" functional to compensate and eliminate as much as possible the natural and economic-social disadvantages of the weak subjects (and thus to equally benefit the most disadvantaged or least advantaged subjects, according to a rational criterion of general "distributive justice").
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Il “tributo” o “obbligazione tributaria” è un obbligazione giuridica di diritto pubblico – ovvero di natura “pubblicistico-autoritativa”, vale a dire intrinsecamente “pubblica”, in quanto, nella sua struttura sostanziale ed essenziale, essa è determinata, regolata e disciplinata integralmente, tassativamente, in modo specifico ed inderogabile dalla legge (da norme giuridiche di livello legislativo) ed è attuabile, in via “autoritativa” (amministrativa), mediante l’esercizio del potere pubblico di imposizione tributaria a sua volta attribuito e regolato dalla legge in modo altrettanto specifico ed inderogabile – avente per oggetto una prestazione pecuniaria/monetaria “a titolo definitivo” (che non genera cioè obblighi di restituzione), nascente/sorgente direttamente o indirettamente dalla legge (dalla norma giuridica legislativa tributaria “impositrice”, che delinea, definisce ed individua, sul piano razionale ed astratto, la fattispecie tributaria nei suoi elementi costitutivi essenziali/fondamentali) e perciò giuridicamente doverosa, coattiva/coercitiva, unilateralmente vincolante/obbligatoria e, come detto, attuabile autoritativamente, anche eventualmente in via “forzosa” o “forzata” (ossia anche contro la volontà del soggetto passivo), attraverso il legittimo esercizio del potere pubblico di imposizione tributaria (stabilito, nei modi, nelle forme, nelle procedure e negli atti finali, da norme giuridiche di livello legislativo), al verificarsi di un “presupposto oggettivo” di fatto (un “fatto-generatore” della stessa obbligazione tributaria) non avente natura di illecito nonché necessariamente espressivo di “capacità contributiva” (e, quindi, di idoneità economica alla contribuzione o “concorso” alle spese pubblico-collettive e “comuni” del gruppo sociale da parte del singolo soggetto consociato a cui il presupposto impositivo è imputabile o collegabile), e funzionale al finanziamento di spese “pubbliche” (riferibili complessivamente ad una collettività sociale organizzata ed istituzionalizzata), vale a dire di spese (di natura, interesse, rilevanza ed utilità generale, comune/collettiva e sociale) dirette a rendere possibile la produzione, l’organizzazione e l’erogazione di beni e servizi “pubblici” (di natura, interesse, rilevanza ed utilità generale, comune/collettiva e sociale) idonei, a loro volta, a soddisfare interessi, bisogni e diritti aventi essi stessi carattere e natura generale, comune, collettiva e “sociale” (in ragione del fatto che si tratta di interessi, bisogni e diritti individuali e collettivi la cui tutela e la cui realizzazione può avvenire solo attraverso un intervento “attivo” dei “poteri pubblici” riconducibili alla comunità sociale politicamente organizzata, indirizzato a garantire a tutti i consociati un livello minimo ed inderogabile di benessere economico-sociale necessario a consentire ad ogni componente della società, in modo sostanzialmente egualitario ed universale, condizioni di esistenza libera e dignitosa oltre che basilari condizioni personali di integrità e benessere psico-fisico).1
Uno degli elementi più rilevanti ed essenziali ai fini dell’identificazione del tributo (e dell’obbligazione giuridico-tributaria) è il concorso di tutti i soggetti passivi consociati al finanziamento della spesa pubblica o “comune” riconducibile all’utilità dell’intera collettività sociale organizzata;2 il carattere autoritativo del prelievo tributario è incontrovertibile ma non esaustivo, posto che nella ripartizione della spesa pubblica, acquistano indubbia rilevanza principi fondamentali come quelli della progressività dell’imposizione tributaria e della solidarietà sociale: uguaglianza sostanziale, giustizia sociale, giustizia ed equità dell’imposizione fiscale, attraverso la redistribuzione sostanzialmente egualitaria (a favore di classi e strati sociali economicamente svantaggiati o deboli) di quote rilevanti del prodotto sociale o del reddito complessivo, realizzata mediante un’imposizione tributaria (fondata sul principio di capacità contributiva e tendenzialmente “progressiva”) funzionale al finanziamento di una spesa pubblica ad utilità collettiva e fortemente orientata in senso “sociale”, rappresentano concetti ed elementi necessari da aggiungere al carattere autoritativo, ormai non più sufficiente a fornire la piena giustificazione razionale e legale dell’obbligazione tributaria.3 Ciò, ad esempio, non è presente nelle prestazioni patrimoniali pubbliche c.d. “sinallagmatiche” prive di natura tributaria, come canoni, tariffe o prezzi pubblici (in ogni caso tutti inferiori al “prezzo di mercato”) da corrispondere a fronte dell’erogazione di un bene o di un servizio pubblico.
La Corte di Cassazione, ai fini della qualificazione di un’entrata patrimoniale pubblica in termini di “tributo”, conferisce un particolare rilievo alla “qualificazione formale” assegnata dal legislatore: le Sezioni Unite con la sentenza 23 ottobre 2007, n. 25551, hanno infatti statuito che «Deve quindi distinguersi tra tassa, da una parte, che condivide la natura tributaria delle imposte, e, dall’altra, canoni (o tariffe o diritti speciali) e prezzi pubblici, che rientrano nella categoria delle entrate patrimoniali pubbliche extratributarie; distinzione questa che si racchiude in una qualificazione formale prima che contenutistica. È il legislatore che assegna ad una determinata prestazione del soggetto che fruisce il servizio la qualificazione di tassa, e così la assoggetta al regime dei “tributi”, ovvero di canone o prezzo pubblico; e costruisce alternativamente il nesso tra entrata pubblica ed erogazione del servizio, vuoi in termini di paracommutatività (tassa), vuoi di commutatività o di vera e propria sinallagmaticità (entrate pubbliche extratributarie) (…)».
In argomento è ancora degna di nota, in ordine all’ampia nozione di tributo adottata dalla Corte di Cassazione, l’ordinanza dell’11 febbraio 2008, n. 3171, delle Sezioni Unite, con la quale sono state ricondotte alla materia tributaria tutte le entrate pubbliche coattive volte a fare fronte ad una spesa di interesse generale (o pubblico-collettivo) ripartendone l’onere sulle categorie sociali che costituiscono la collettività organizzata in forme istituzionali e che non trovino giustificazione in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico o in un rapporto strettamente sinallagmatico o commutativo ovvero di “scambio” reciproco e corrispettivo tra prestazione patrimoniale e servizio o bene pubblico fornito, qualificabile in termini di natura giuridico-privatistica.4
La Corte costituzionale, in modo più organico e convincente, argomenta sul punto (cfr. sent. n. 64/2008) che, ai fini dell’individuazione della natura tributaria di una data prestazione patrimoniale pubblica, devono sussistere necessariamente alcuni elementi, i quali, indipendentemente dalla qualifica formale attribuita dalla norma giuridica che la disciplina, consistono nella doverosità/obbligatorietà della prestazione e dal collegamento di questa con il finanziamento di una spesa pubblica sulla base di un presupposto impositivo economicamente rilevante (e dunque espressivo di capacità contributiva).5
In sintesi, la natura tributaria di un prelievo e di una prestazione, a prescindere dal mero dato formale e dal nomen iuris, si basa su tre diversi (e congiunti) fattori tipizzanti: quello della struttura pubblica e “coattiva” (fonte legale dell’obbligazione tributaria e conseguente doverosità o obbligatorietà giuridica della prestazione), della funzione oggettiva o “ragione giuridica giustificativa” (attuazione del concorso individuale alle spese pubblico-collettive) e del regime giuridico della fattispecie complessiva (disciplina pubblicistico-autoritativa tributaria e non privatistica del rapporto giuridico regolato), criterio, quest’ultimo, rilevante solo in caso di inadeguatezza del dato strutturale e di quello funzionale, non essendo, di per sé stesso decisivo.6
Dunque, l’attuazione dell’obbligazione tributaria (e della norma giuridica legislativa impositrice che la contiene) avviene normalmente mediante l’esercizio di poteri pubblicistico-autoritativi (“pubblici”) di imposizione tributaria, fondati sulla legge, attribuiti e regolati tassativamente e specificamente dalla legge e diretti alla realizzazione dell’interesse pubblico costituito dalla legittima, corretta e perequata applicazione del tributo e dell’obbligazione tributaria (in particolare dell’obbligazione d’imposta) funzionale alla giusta/equa ripartizione delle spese pubblico-collettive (degli oneri o carichi economici pubblici) tra tutti i consociati (funzionale, quindi, all’attuazione del fondamentale dovere sociale e solidaristico del “concorso” alle spese pubbliche), in ragione dei principi fondamentali di capacità contributiva e di uguaglianza o parità di trattamento (artt. 3 e 53 Cost.), al fine di procurare (coattivamente) allo Stato (o comunque all’ente pubblico impositore esponenziale della collettività sociale) le entrate monetarie necessarie al finanziamento delle spese (pubbliche) di interesse, rilevanza ed utilità generale e sociale (dirette all’erogazione di beni e servizi pubblici essenziali alla sopravvivenza della stessa comunità organizzata).
La funzione oggettiva tipica della “specie” (o del “tipo”) più rilevante all’interno della categoria generale del “tributo”, cioè dell’“imposta” (che è il tributo per eccellenza e sicuramente più importante), è dunque quella di essere un’obbligazione “di riparto” ossia un’obbligazione mediante la quale si attua la equa/giusta ripartizione/distribuzione di una spesa pubblica generale tra tutti i membri di un gruppo sociale organizzato ed istituzionalizzato in “ente pubblico” (Stato, Regione, Comune, ecc.), secondo ragionevoli e perequati “indici” o “criteri” di riparto (necessariamente convergenti con il presupposto impositivo di fatto della stessa obbligazione tributaria) espressivi di capacità contributiva (e con modalità conformi al principio di uguaglianza, emergente dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost., per cui ad uguale capacità contributiva deve corrispondere un’uguale obbligazione e prestazione tributaria ed a differente capacità contributiva una diversa obbligazione e prestazione tributaria, con l’entità quantitativa della prestazione tributaria che cresce ragionevolmente al crescere della capacità contributiva soggettiva). Ne consegue che l’obbligazione tributaria (obbligazione di natura pubblica), in quanto obbligazione di “riparto” di oneri economici pubblici, è anche, inevitabilmente, obbligazione di “concorso” o “compartecipazione” alle medesime spese pubblico-collettive, rappresentando uno strumento giuridico concretamente attuativo del sottostante e basilare dovere solidaristico (incombente su ogni consociato) di contribuire alle spese “comuni” enunciato dall’art. 53 Cost.7
In questo senso, ogni singola obbligazione tributaria riferibile ad ogni singolo contribuente debitore (insieme a tutti gli altri contribuenti) della stessa imposta, costituisce una “giusta” (ed inderogabile) “quota” della complessiva, generale ed “universale” obbligazione tributaria relativa all’imposta considerata nella sua dimensione unitaria ed onnicomprensiva (quest’ultima viene dunque a rappresentare, in altri termini, un’unica “obbligazione contributiva pubblica” ripartita equamente secondo criteri “sostanziali” di uguaglianza e giustizia distributiva parametrati sull’entità della capacità contributiva manifestata dai singoli contribuenti consociati che concorrono al finanziamento della spesa pubblica generale riferibile all’intera collettività sociale).8
Ne deriva che la norma giuridica legislativa impositrice (che stabilisce e definisce l’obbligazione tributaria d’imposta), determina la “giusta quota” di contribuzione individuale alle spese pubbliche, sulla base di (equi e razionali) “indici di riparto” o criteri di suddivisione/distribuzione della spesa comune/collettiva di riferimento (indici o criteri di riparto che sostanzialmente coincidono con i fatti materiali o le situazioni oggettive, espressivi di capacità contributiva e riferibili ai singoli “soggetti passivi”, che costituiscono il “presupposto impositivo” da cui sorge, sul fondamento della norma legislativa impositrice, la stessa obbligazione tributaria).
Ogni legge d’imposta, accanto alla determinazione dei soggetti passivi della “contribuzione pubblica” (a cui vengono riferiti i fatti materiali e le situazioni oggettive costituenti il “presupposto impositivo”, da cui si fa dipendere la qualifica giuridica di “contribuente”), dovrà sempre stabilire i relativi “indici di riparto” ossia gli stessi fatti materiali e situazioni oggettive (espressivi di capacità contributiva e costituenti il “presupposto impositivo” al verificarsi del quale viene ad esistenza giuridica l’obbligazione tributaria) dai quali si fa dipendere la (giusta/equa) “quota” di contribuzione pubblica posta a carico di ciascun singolo consociato ed alla quale corrisponde il debito individuale d’imposta (fatti e situazioni che sono idonei a risolvere non solo il conflitto di interesse “esterno” tra ente pubblico impositore e contribuente, ma anche, e soprattutto, il conflitto di interesse “interno” tra i vari contribuenti, determinando il giusto rapporto relativo di partecipazione individuale alla comune contribuzione).9 Il legislatore ha dunque l’obbligo di selezionare indici di riparto delle spese pubbliche (i quali sostanzialmente costituiscono i “presupposti impositivi” della corrispondente complessiva obbligazione tributaria da suddividere nelle singole obbligazioni tributarie facenti capo ai singoli contribuenti della stessa imposta complessivamente ed unitariamente considerata) conformi a parametri razionali ed equi o giusti e, perciò, socialmente accettabili.10
Risulta quindi necessario che il legislatore, nel delineare e stabilire le leggi d’imposta e le connesse obbligazioni tributarie, utilizzi, come indici di riparto (delle spese pubbliche da finanziare e distribuire tra i consociati), fatti (materiali) oggettivi e tangibili espressivi di forza economica (e, dunque, di idoneità alla contribuzione pubblica), perché solo tali fatti hanno, sul piano della razionalità complessiva del sistema, la capacità di svolgere adeguatamente la funzione di indici o criteri di ripartizione/distribuzione di una spesa pubblico-collettiva generale e, di conseguenza, la funzione di assurgere a “presupposti” dell’imposizione tributaria, determinando, in conformità con la funzione oggettiva tipica dell’imposta (che è quella di giusta/equa distribuzione ripartitoria della spesa pubblica), sia la corretta quota di contribuzione facente capo a ciascun singolo consociato e alla quale corrisponde il debito individuale d’imposta, sia il rapporto relativo di contribuzione individuale alla comune contribuzione.11
L’imposta, nelle sue connotazioni e caratteristiche essenziali, è quindi un tributo con funzione “solidaristica” (cioè di collaborazione ed aiuto reciproco tra i membri di una comunità organizzata) nella ripartizione delle spese pubbliche, mediante il quale coloro che hanno “capacità contributiva” (ossia “forza ed idoneità economica” alla contribuzione pubblica) concorrono a finanziare le spese collettive e comuni anche in luogo di coloro che mancano del tutto di tale capacità (cioè di coloro che versano in una situazione di grave svantaggio e debolezza economico-sociale, non essendo in grado di “contribuire”) eppure fruiscono pienamente di tutti i beni ed i servizi di utilità generale, pubblica e sociale, forniti dalla comunità politicamente organizzata (lo Stato e le sue articolazioni) e diretti a garantire e tutelare i “diritti sociali” fondamentali (alla salute, all’integrità ed all’incolumità psico-fisica, al lavoro, all’assistenza ed alla previdenza sociale per fronteggiare situazioni di bisogno o necessità economico-sociale, all’abitazione, ai trasporti ed alle infrastrutture pubbliche, ai servizi pubblici ed alle utilità o funzioni pubbliche essenziali e generali, ecc.) di tutti i consociati in modo essenzialmente egualitario e funzionale ad avvantaggiare le classi ed i soggetti oggettivamente più svantaggiati (o deboli sotto il profilo economico-sociale), in un’ottica generale di “giustizia redistributiva” ed “uguaglianza sostanziale” (art. 3 Cost.). L’imposta, in altri termini, ha una funzione basilare di riparto della spesa comune necessaria all’esistenza della collettività sociale politicamente organizzata (della res publica); tuttavia, tramite l’imposta, la ripartizione non avviene secondo uno schema “commutativo” o di reciprocità e corrispettività sinallagmatica ossia in base a ciò che ciascun contribuente riceve in termini di beni e/o servizi pubblici finanziati con la stesse risorse economiche collettive acquisite, ma in stretta ed esclusiva correlazione con gli indici di capacità contributiva o forza economica di ciascun consociato, radicandosi pertanto in un dovere generale di solidarietà sociale che produce un oggettivo effetto di redistribuzione sostanzialmente egualitaria (e dunque “giusta”) in favore dei soggetti e delle classi sociali economicamente più deboli e svantaggiate, che, nonostante non siano in grado di contribuire, ricevono ugualmente i benefici prodotti dai beni e dai servizi pubblici erogati dallo Stato e finanziati con le entrate tributarie.12
È pertanto corretto dire che l’art. 53 Cost. è estrinsecazione del principio di solidarietà (politica, economica e sociale) di cui all’art. 2 Cost., in “un intreccio necessitato di coerenza” che individua nell’imposta uno strumento di solidarietà sociale e nell’art. 53 un dovere solidaristico che regola l’intera contribuzione pubblica attraverso il sistema complessivo delle imposte.13
L’obbligazione d’imposta è quindi un’obbligazione di natura “pubblica” o ex lege, cioè stabilita dalla legge e perciò “coattiva” proprio in quanto fondata su norme giuridiche di livello legislativo (norme “impositrici”) e da esse delineata e definita in modo preciso e dettagliato in tutti i suoi elementi fondamentali (presupposto impositivo oggettivo, soggetti attivi e passivi, base imponibile ed aliquota); essa sorge direttamente dalla volontà (generale ed astratta) della legge e non dalla volontà dei privati che intervengono nella creazione dei negozi giuridici o nello svolgimento delle attività economiche che integrano, in modo oggettivo, gli atti, i fatti o le situazioni costituenti il “presupposto impositivo” al verificarsi del quale sorge la fattispecie giuridico-tributaria obbligatoria definita normativamente sul piano legislativo.14
L’imposta si configura come una quota di contribuzione pubblica (attraverso cui si realizza appunto il concorso universale dei consociati alle spese pubbliche), gravante su ogni individuo consociato fornito di capacità contributiva, per fare esistere e sopravvivere lo Stato e l’intera collettività sociale che esso rappresenta, ossia per assicurare l’esistenza e la funzionalità dell’Ente pubblico preposto alla realizzazione del “bene comune”; l’imposta è pertanto sempre il sacrificio economico individuale che ogni consociato deve obbligatoriamente sopportare se presenta e nella misura in cui presenta capacità economica di contribuzione, non perché riceve controprestazioni o corrispettivi: è dunque assente, nel fenomeno dell’imposta, ogni tipo di rapporto o relazione di scambio, reciprocità o corrispettività (sinallagmatico-commutativa) tra prestazione tributaria ed eventuali prestazioni pubbliche finanziate con l’imposta stessa (le quali vengono regolarmente erogate anche a chi non ha contribuito per oggettiva mancanza di idoneità economica alla contribuzione e, in alcuni specifici casi, possono non essere erogate a chi ha contribuito, in ragione della sua elevata forza economica che ne determina uno stato soggettivo di “non bisogno” e, dunque, di “non diritto” alla stessa prestazione pubblico-sociale), avendo essa una connotazione esclusivamente solidaristica.15
Nella ricostruzione del fenomeno tributario, pertanto, rileva sicuramente il rapporto contribuente-fisco (in base al quale il contribuente deve l’imposta in ragione della propria effettiva capacità contributiva e secondo criteri di equa/giusta uguaglianza proporzionale alla sua entità quantitativa), ma rileva (allo stesso modo) anche il rapporto tra tutti i contribuenti del medesimo tributo o meglio della medesima imposta, che è un rapporto che si risolve nella pretesa (nel diritto soggettivo) di ciascun contribuente a non subire un prelievo tributario ed un concorso alle spese pubbliche superiore alla propria capacità contributiva, comparativamente a quella di tutti gli altri contribuenti che devono partecipare al concorso stesso, e nella conseguente ulteriore pretesa (di ogni contribuente) che ogni altro contribuente non concorra alle spese pubbliche in misura inferiore alla propria capacità contributiva. In altri termini, l’obbligazione tributaria deve attuare il concorso alle spese pubbliche da parte di tutti i consociati, secondo equi/giusti e razionali parametri di giustizia distributiva inderogabili e commisurati proporzionalmente alla effettiva capacità contributiva (o “forza economica”) di ognuno.16
Da quanto detto si deduce il fenomeno della indisponibilità o irrinunciabilità dell’obbligazione tributaria da parte dell’ente pubblico impositore e creditore del tributo; quest’ultimo non può rinunciare o disporre negozialmente dell’obbligazione tributaria relativa ad un singolo contribuente, proprio perché essa rappresenta solo una “quota” (una parte o una percentuale) dell’obbligazione tributaria (di natura pubblica) complessiva e collettiva o “comune”, relativa a tutti i contribuenti debitori della stessa imposta interamente destinata a finanziare le spese pubbliche generali e “comuni” dell’intera collettività sociale organizzata;17 in altri termini, il singolo credito tributario costituisce una “quota parte” del credito pubblico complessivo e, per tutti i singoli debitori cointeressati al pagamento dell’obbligazione tributaria comune (destinata a finanziare beni e servizi pubblici “comuni”), rileva, in modo determinante ed essenziale, il fatto che gli altri debitori dell’imposta complessiva paghino correttamente la loro quota di tributo e che il riparto dell’onere pubblico, attraverso l’obbligazione tributaria, avvenga in modo equo/giusto ed “esatto” sulla base inderogabile del principio di capacità contributiva di ciascuno (per cui ogni contribuente deve pagare a titolo di tributo solo quanto può essere considerato, correttamente e legittimamente, come la “propria” quota di debito tributario commisurata proporzionalmente ed esattamente alla “propria” capacità contributiva, secondo un razionale principio di giustizia distributiva).
Ne consegue una definizione di “imposta” secondo cui essa è un’obbligazione “pubblica” (o “pubblicistica”) indisponibile, di regola pecuniaria, a titolo definitivo (ovvero a “fondo perduto”), nascente direttamente o indirettamente dalla legge, e perciò coattiva, avente la funzione di costringere il soggetto obbligato a partecipare, secondo un determinato “indice di riparto” (costituito da un fatto oggettivo, economicamente valutabile, che funge da presupposto dell’imposizione tributaria ed è espressivo di capacità contributiva), alla contribuzione alle spese pubblico-collettive.18
In questo contesto, l’avviso di accertamento, come atto di imposizione tributaria (estrinsecazione finale dell’esercizio procedimentalizzato del potere pubblico di imposizione tributaria), è il provvedimento amministrativo “vincolato” che, in via di priorità logica, accerta e dichiara l’esistenza del presupposto impositivo previsto dalla legge, e, conseguentemente, determina/costituisce autoritativamente (vale a dire con effetti giuridici che si producono in via unilaterale, vincolante/obbligatoria, coercitiva e coattiva nella sfera soggettiva del destinatario) la legittima e perequata obbligazione tributaria in capo ad un determinato soggetto passivo (o contribuente) (cui è riferibile lo stesso presupposto impositivo).
L’attuazione della norma giuridica legislativa “impositrice” e dell’obbligazione tributaria in essa contenuta avviene sempre attraverso l’esercizio di poteri pubblicistico-autoritativi (“pubblici”) di imposizione tributaria, fondati sulla legge, attribuiti e regolati tassativamente e dettagliatamente dalla legge, funzionali alla realizzazione dell’interesse pubblico costituito dalla legittima, corretta e perequata applicazione del tributo, funzionale alla giusta ripartizione delle spese pubblico-collettive tra tutti i consociati in ragione del principio di capacità contributiva (dunque in ragione della capacità contributiva propria di ciascun consociato), al fine di procurare allo Stato le entrate monetarie necessarie a finanziare le spese di interesse pubblico-collettivo e sociale (per l’erogazione di beni e servizi di pubblica utilità a rilevanza generale, collettiva e sociale).
La giurisprudenza e parte della dottrina ravvisano l’essenza dell’avviso di accertamento in ogni atto conclusivo di un procedimento o subprocedimento amministrativo, il quale accerti o dichiari in tutto o in parte l’obbligazione tributaria o un elemento di essa, in quanto suscettibile di produrre una lesione diretta ed immediata della sfera giuridica e della situazione soggettiva del contribuente;19 ricostruendo invece la nozione con riferimento alla disciplina della funzione e dell’attività pubblica di accertamento ed imposizione tributaria, si è definito l’atto di accertamento come atto pubblicistico-autoritativo di “individuazione del presupposto” dell’obbligazione tributaria “e quindi di determinazione dell’imponibile ed eventualmente dell’imposta”20 ovvero si è ricondotta tale figura al generale concetto (ed alla generale categoria) di “atto di imposizione”, inteso come provvedimento amministrativo il quale modifica autoritativamente (in via unilaterale e coattiva) la rappresentazione della fattispecie e dell’obbligazione tributaria fornita (sulla base della verificazione del presupposto impositivo) dal soggetto passivo nella propria dichiarazione tributaria o sopperisce alla mancanza di tale rappresentazione, individuando il presupposto tributario che si è effettivamente e concretamente verificato nella realtà oggettiva e determinando/costituendo giuridicamente la corretta/giusta obbligazione e fattispecie tributaria “reale”, con la conseguente legittimazione dell’Amministrazione finanziaria a riscuotere coattivamente il tributo dovuto in conseguenza di tale determinazione.21
La giurisprudenza di legittimità qualifica come avvisi di accertamento o di liquidazione tutti gli atti (pubblici) con cui l’Amministrazione finanziaria comunica al contribuente una pretesa tributaria (ovvero un’obbligazione ed una fattispecie tributaria) definita e compiuta in tutti i suoi elementi costitutivi essenziali (presupposto impositivo, base imponibile o parametro, aliquota), ancorché tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento e la prospettazione dell’attività esecutiva, ma con un invito bonario a versare quanto dovuto (Cass., SS.UU., n. 16293/2007).
In generale, dunque, si tratta degli atti amministrativi (costituenti una manifestazione di “giudizio” o di cognizione e rappresentazione intellettivo-razionale astratta di uno o più elementi della realtà oggettiva concreta) che svolgono comunque la funzione di portare a conoscenza del destinatario (contribuente) l’affermazione autoritativa (in quanto idonea a produrre effetti preclusivi e definitivi in caso di mancata impugnazione giurisdizionale, rendendo legittima la successiva attività di riscossione coattiva) dell’esistenza “reale” degli elementi specifici e concreti “sussumibili” nella fattispecie tributaria generale e astratta delineata da una norma giuridica legislativa impositrice (cioè riconducibili logicamente a tale fattispecie normativa astratta), in difformità da quanto risulta dalla dichiarazione o denuncia del soggetto passivo o in mancanza di essa, in modo da determinare o costituire giuridicamente la “giusta” obbligazione tributaria in capo allo stesso contribuente inadempiente.
2.
Tenendo presenti le disposizioni normative di cui agli articoli 2, 3, 23 e 53 della Costituzione, può quindi definirsi la nozione di “tributo” o “obbligazione tributaria” come obbligazione giuridica di diritto pubblico (ovvero di natura “pubblica” o “pubblicistico-autoritativa”) avente per oggetto una prestazione monetaria/patrimoniale a titolo definitivo (senza obbligo di restituzione da parte dell’Ente pubblico impositore e tendenzialmente priva di una relazione di reciprocità e corrispettività sinallagmatica con un’eventuale controprestazione), nascente direttamente o indirettamente dalla legge (cioè da una norma giuridica tributaria “impositrice” di livello legislativo, che delinea, definisce ed individua, sul piano razionale “generale” ed “astratto”, la fattispecie tributaria nei suoi elementi costitutivi essenziali e fondamentali, quali i soggetti attivo e passivo, il presupposto impositivo, la base imponibile e l’aliquota) – e perciò coattiva, coercitiva, unilateralmente obbligatoria o “doverosa”, vincolante ed immediatamente attuabile in via “forzosa” (ossia “forzata”) secondo moduli tipicamente pubblicistico-autoritativi – al verificarsi di un presupposto oggettivo “di fatto” non avente natura di illecito (nonché necessariamente espressivo di capacità contributiva e, quindi, di idoneità economica alla contribuzione intesa nel senso di “equo concorso” alle spese collettive o “comuni” da parte del soggetto consociato a cui il presupposto impositivo è imputabile o ricollegabile), e funzionale al finanziamento generale di spese pubblico-collettive (riferibili complessivamente ad una collettività sociale organizzata stabilmente), vale a dire di spese dirette e correlate alla produzione ed erogazione di beni e servizi “pubblici” (di natura, interesse, rilevanza ed utilità generale, comune/collettiva e sociale), idonei, a loro volta, a soddisfare e tutelare (in attuazione dei doveri costituzionali basilari di solidarietà politica, economica e sociale) interessi, bisogni e diritti aventi essi stessi carattere e natura generale, “comune”, collettiva e “sociale” (nella misura in cui si tratta di interessi, bisogni e diritti individuali e collettivi fondamentali la cui tutela e realizzazione può avvenire solo attraverso un intervento “attivo” dei “poteri pubblici”, riconducibili all’intera collettività sociale politicamente organizzata, diretto a garantire a tutti i consociati un livello minimo ed inderogabile di benessere economico-sociale necessario a consentire ad ogni componente della società, in modo sostanzialmente egualitario ed universale, condizioni di esistenza libera e dignitosa).
Il “presupposto impositivo o “di fatto” (detto anche “fatto generatore”) del tributo (e dell’obbligazione tributaria) è dunque definibile come l’elemento oggettivo, fattuale, materiale e “strutturale” (espressivo di capacità contributiva o “forza” ed idoneità economica alla doverosa contribuzione alle spese pubbliche, direttamente riconducibile o imputabile ad un soggetto definibile come “soggetto passivo” del tributo), al cui concreto verificarsi e realizzarsi la norma giuridica legislativa impositrice (che prevede e delinea, sul piano logico-razionale generale ed astratto, la fattispecie tributaria nei suoi elementi soggettivi e oggettivi fondamentali) ricollega il sorgere (il venire ad “esistenza giuridica”) dell’obbligazione tributaria (e quindi della complessiva fattispecie tributaria o imponibile) a carico del soggetto passivo dello stesso rapporto giuridico-tributario obbligatorio che viene di volta in volta a costituirsi sulla base della medesima norma legislativa impositrice.
Sul tema specifico, la Corte costituzionale, con sentenza n. 269 del 14 dicembre 2017 (data di pubblicazione), ripercorrendo brevemente i suoi stessi precedenti giurisprudenziali, ha affermato quanto segue: «In proposito va rilevato che la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che “gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese” (sentenza n. 70 del 2015). Si deve cioè trattare di un “prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria” (ancora sentenza n. 70 del 2015)».
La stessa Corte costituzionale, nelle sentenze n. 73 del 2008, n. 219/2014 e n. 70 del 2015, ha quindi compiutamente definito il “tributo”, sul piano della sostanza giuridica ed a prescindere dalla denominazione formale, come «prelievo coattivo finalizzato al concorso alla pubbliche spese posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva»; il medesimo Supremo Giudice costituzionale, nella sentenza n. 141 del 2009, ha ancora più chiaramente affermato che «occorre, dunque, interpretare la disciplina sostanziale alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributarie alcune entrate: criteri che consistono nella doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione a un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005)», e, nella sentenza n. 238 del 2009, ha ribadito che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris e con riferimento alla sussistenza, nella prestazione tributaria oggetto del rapporto obbligatorio impositivo, di una sostanziale “struttura autoritativa e non sinallagmatica”.
Pertanto la giurisprudenza costituzionale ha costantemente chiarito che il “tributo” possiede i seguenti elementi caratteristici e tratti distintivi: a) trova la sua fonte originaria in un atto normativo di livello legislativo (art. 23 Cost.); b) è strutturalmente connesso ad un presupposto impositivo oggettivo o “fatto generatore” dell’obbligazione tributaria (e del connesso obbligo di pagamento), espressivo di capacità contributiva ovvero di “idoneità economica” alla contribuzione, riferibile ad un determinato soggetto passivo (art. 53 Cost.) e che prescinde dalla circostanza che i soggetti obbligati al pagamento del tributo (contribuenti) traggano o meno un diretto beneficio dagli scopi (di finanziamento delle spese pubblico-collettive in generale) a cui esso è destinato; c) si configura come prelievo giuridicamente doveroso ed obbligatorio con struttura pubblicistico-autoritativa e non sinallagmatica (ovvero non commutativa/corrispettiva); d) è destinato alla copertura delle “spese pubbliche” (intese in senso generale ed onnicomprensivo), a prescindere dal rapporto specifico di tali spese con il soggetto inciso, esprimendo quindi un’essenziale funzione “solidaristica” (art. 2 Cost.) che consiste sostanzialmente nel fatto che il tributo stesso, essendo appunto funzionale al finanziamento di spese pubblico-collettive ad utilità e rilevanza comune e sociale, risulta, per ciò stesso, essere il più rilevante strumento di attuazione degli inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale previsti dall’art. 2 della Costituzione repubblicana.
La Corte di Cassazione ha, sulla base dei criteri dettati dalla Corte costituzionale, precisato ulteriormente il significato logico-giuridico della nozione di “tributo”, sottolineando la “funzione eminentemente pubblica” (e solidaristica) dell’onere tributario, dovuto in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (espressivo di capacità contributiva), il suo carattere di prelievo intrinsecamente doveroso/obbligatorio ex lege e quindi non rinunciabile da parte dell’ente impositore, attuato coattivamente a vantaggio della collettività sociale nel suo complesso e non del (solo) soggetto che ne sopporta il costo (quindi svincolato da uno schema negoziale-sinallagmatico) e finalizzato alla copertura ed al necessario finanziamento delle spese pubbliche (dunque finalizzato, come tipica obbligazione di riparto di oneri pubblici, alla realizzazione del perequato e giusto concorso alle spese pubblico-collettive ad utilità generale, in ragione della effettiva capacità contributiva di ciascun consociato ex art. 53 Cost.; cfr. ex plurimis, ordinanze n. 1780 e n. 1872 del 26 gennaio 2011).
Se ne deduce che la legittimità costituzionale della norma legislativa istitutiva del tributo va valutata sotto il profilo dell’esistenza del presupposto impositivo oggettivo dell’obbligazione tributaria (art. 23 Cost.), della manifestazione della capacità contributiva ad esso correlabile (art. 53 Cost.) e del pieno rispetto del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), il quale implica, con riferimento alla materia giuridico-tributaria, l’uguale trattamento normativo (impositivo) di situazioni simili in modo giuridicamente rilevante sul piano dell’uguale capacità contributiva e di diverso ragionevole trattamento normativo (impositivo) di situazioni dissimili in modo giuridicamente rilevante sul piano della diversa capacità contributiva (in altri termini, ad uguale capacità contributiva deve corrispondere un’uguale imposizione tributaria ed a diversa capacità contributiva deve corrispondere una diversa ragionevole imposizione tributaria, secondo una regola di aumento dell’entità dell’imposizione tributaria corrispondente, in modo proporzionale o progressivo, all’aumento dell’entità della capacità contributiva a norma dell’art. 53 Cost.).
Ciò significa che ad una capacità sensibilmente maggiore imputabile ai soggetti economicamente più forti della società, deve corrispondere una ragionevole e proporzionalmente (o più che proporzionalmente ossia progressiva) maggiore imposizione tributaria finalizzata alla realizzazione (solidaristica) dei principi di perequata giustizia redistributiva del prodotto sociale e di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.), attraverso lo strumento dell’imposizione fiscale e della correlata spesa pubblica funzionale a trasferire risorse economiche da strati, classi e categorie di soggetti “avvantaggiati” verso ed a favore di strati, classi e categorie di soggetti “svantaggiati” (in adempimento necessario dei doveri inderogabili di solidarietà economico-sociale a norma dell’art. 2 Cost.).
Ne consegue che, nell’attuale e storicamente sviluppato Stato costituzionale di diritto qualificabile (sul piano della teoria giuridica) come “sociale”, in cui l’ordinamento giuridico-politico tende, in linea astratta (molto meno sotto il profilo concreto dell’effettività pratica), alla massima realizzazione del “benessere sociale” o collettivo, la ragione giuridica fondamentale ovvero il fondamento razionale giustificativo della norma istitutiva del tributo in generale (ed in particolare, dell’imposta) è peraltro rinvenibile (anche e soprattutto) nella necessità solidaristica di reperire coattivamente risorse economiche (presso alcuni soggetti economicamente “forti” che hanno accumulato e centralizzato quote molto rilevanti di plusvalore) da destinare al finanziamento di una spesa pubblica orientata socialmente in quanto diretta a ridurre drasticamente le disuguaglianze materiali, nel contesto di una logica complessiva di perequata redistribuzione egualitaria del valore economico prodotto collettivamente e di realizzazione di generali obiettivi di uguaglianza sostanziale e giustizia redistributiva (tendente ad avvantaggiare, in modo equo, i soggetti oggettivamente più svantaggiati, per ristabilire condizioni minime e ragionevoli di “parità sociale”) tra le classi ed i gruppi di cui è costituita la comunità o collettività sociale nel suo complesso.
In questa logica si collocano anche le c.d. prestazioni “parafiscali” ovvero i contributi obbligatori di “previdenza ed assistenza sociali” funzionali a finanziare le prestazioni previdenziali ed assistenziali tendenti a fare fronte a situazioni di estremo bisogno materiale di soggetti svantaggiati economicamente (e non in grado di lavorare), al fine di tutelarne i diritti sociali fondamentali ad una esistenza libera e dignitosa, attraverso l’erogazione di trattamenti economici (o “assegni” pensionistici) previdenziali ed assistenziali di vecchiaia, infortunio, invalidità, inabilità o disabilità, malattia, disoccupazione involontaria ecc. (il fondamento giuridico di tali prestazioni è rinvenibile nell’art. 38 della Costituzione, il quale afferma che «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato»).
Si tratta di quell’amplissima e variegata categoria di prestazioni pecuniarie obbligatorie e coattive che i privati sono tenuti a versare a norma di legge agli enti pubblici previdenziali ed assistenziali statali (Inps, Inail etc.) al verificarsi di taluni presupposti di fatto quali il pagamento o la percezione di salari e stipendi nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. A fondamento degli istituti previdenziali sta l’idea dello “scambio commutativo”, della reciprocità o corrispettività delle prestazioni fornite e ricevute, del do ut des: i versamenti contributivi imposti obbligatoriamente e coattivamente fanno nascere in capo ai versanti (contribuenti) il diritto soggettivo a future controprestazioni previdenziali (pensioni di vecchiaia e superstiti, anzianità, invalidità o inabilità/disabilità, indennità di malattia o infortunio, prestazioni sanitarie, ecc.). Ne discende che se la contribuzione obbligatoria è posta a carico di soggetti che non possono maturare alcun diritto alla controprestazione (ad es., datori di lavoro, lavoratori che non raggiungono i minimi contributivi pensionistici per percepire l’assegno di vecchiaia o anzianità e che dovranno quindi percepire l’indennità di assistenza sociale, lavoratori che non subiscono mai, nel corso della loro vita, situazioni di invalidità o inabilità/disabilità, di disoccupazione involontaria, ecc.) si è al di fuori dell’area della “parafiscalità” e l’obbligazione contributiva assume pienamente i caratteri di un’obbligazione tributaria che si configura precisamente come “imposta” ossia come prelievo coattivo di natura essenzialmente solidaristica e funzionale al finanziamento di una spesa pubblico-collettiva generale di carattere ed interesse sociale. Se, al contrario, i soggetti obbligati vantano un diritto alla controprestazione previdenziale o assistenziale, la prestazione coattiva contributiva obbligatoria assume carattere commutativo (o meglio “paracommutativo”) e si identifica con un’obbligazione tributaria qualificabile come “tassa”, intesa come tributo avente ad oggetto una prestazione pecuniaria obbligatoria/coattiva o ex lege che il soggetto passivo è tenuto a corrispondere all’ente pubblico in relazione alla fruizione o alla fruibilità di un servizio pubblico o di un’attività pubblica (amministrativa o giurisdizionale).22
Inoltre, vi è da precisare che attualmente le entrate parafiscali contributive sono largamente insufficienti a coprire i costi delle gestioni degli enti previdenziali ed assistenziali, i cui enormi disavanzi vengono necessariamente coperti con le entrate della fiscalità generale cioè con i proventi delle “imposte fiscali” (solidaristiche e non commutative), a conferma della complessiva natura prevalentemente solidaristica dell’attuale sistema di previdenza ed assistenza sociale, incentrato essenzialmente sull’idea di “sicurezza sociale” collettiva e individuale collegata alla necessità per lo Stato di garantire a tutti i cittadini, in modo egualitario ed universale (ed a prescindere, quindi, dal versamento dei contributi previdenziali obbligatori), la liberazione dal bisogno economico-sociale e materiale, base fondamentale per potere effettivamente godere di tutti i diritti democratici civili e politici.23
La Costituzione repubblicana, infatti, considera la tutela previdenziale come espressione di una solidarietà universale estesa a tutti i cittadini consociati, la cui realizzazione corrisponde alla soddisfazione di un interesse generale di tutta la collettività rappresentato appunto dall’interesse pubblico alla liberazione dei cittadini-lavoratori da situazioni di bisogno economico-materiale (determinato dalle condizioni soggettive di vecchiaia, invalidità, disabilità o grave menomazione psico-fisica che incide sulla capacità lavorativa, malattia, infortunio, disoccupazione involontaria, ecc.) al fine di tutelare, secondo criteri di uguaglianza sostanziale universale (art. 3 Cost.), il loro diritto fondamentale alla dignità personale e sociale e, dunque, ad una esistenza effettivamente libera e dignitosa, fornendo, attraverso l’intervento dello Stato, i mezzi necessari a garantire le loro essenziali esigenze vitali e la loro integrità psico-fisica complessiva. Secondo i principi costituzionali, il titolo giuridico per avere diritto alle prestazioni previdenziali risiede soltanto nell’essere “cittadini” (in senso ampio, cioè “consociati” in modo stabile e duraturo) e i livelli essenziali di quelle prestazioni sociali (“mezzi adeguati alle esigenze di vita”) devono essere determinati soltanto in funzione delle scelte politiche che ispirano il legislatore nella valutazione e nella individuazione delle esigenze di liberazione dal bisogno alle quali occorre dare soddisfazione.24 In questo quadro complessivo, l’obbligazione contributiva obbligatoria e coattiva non può che confluire nella più generale categoria dell’obbligazione tributaria (solidaristica e/o “paracommutativa”).
Tutto ciò appare con ogni evidenza conforme al combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost., cioè a quel principio di uguaglianza tributaria che la Corte costituzionale ha nettamente definito come principio in base al quale «a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale”, in modo tale che, nel rispetto del principio di capacità contributiva espresso nell’art. 53 Cost., venga in ogni caso garantita «l’esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza» (Corte cost. n. 120/1972), posto che «la possibilità di imposizioni differenziate deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta» (Corte cost. n. 142/2014 e n. 21/2015).
Ciò è tanto più vero se si considera che, in ordine alla scelta legislativa del presupposto del tributo, rientra pienamente nella «discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva quale idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, che può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale» (Corte cost. n. 156/2001).
La Corte costituzionale si è espressa più volte nel senso di riconoscere un’ampia discrezionalità al legislatore con riferimento all’identificazione degli indici di capacità contributiva (necessariamente espressi dal presupposto impositivo), osservando costantemente che «in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica» (Corte cost., sent. n. 288/2019 ed ord. n. 165/2021).
Inoltre, il Supremo Giudice delle Leggi ammette anche (in piena coerenza con i principi di uguaglianza e capacità contributiva di cui al combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost.) una ragionevole diversificazione del regime tributario effettuata dal legislatore per tipologia di contribuenti, a condizione che tale diversificazione sia «supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione» (Corte cost., n. 104/1985 e n. 42/1980).
Analogo principio viene ribadito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 269 del 14 dicembre 2017, laddove si può testualmente leggere che «”al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale” (sentenza n. 240 del 2017), con il solo limite della non arbitrarietà e della non manifesta irragionevolezza e sproporzione. In questa prospettiva, costantemente ribadita dalla giurisprudenza di questa Corte, non può ritenersi costituzionalmente illegittima la scelta del legislatore di imporre la contribuzione in esame esclusivamente a carico delle imprese che si contraddistinguono per una presenza significativa sui mercati, perché dotate di una particolare struttura e perché caratterizzate da una rilevante dimensione economica».
Sulla base dei principi costituzionali di cui agli articoli 3, 23 e 53 della Costituzione, il tributo deve necessariamente e sempre presentare «un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (Corte cost. n. 341/2000 e n. 223/2012).
3.
La struttura e la formulazione (nettamente avanzata e progressiva) della Costituzione democratico-sociale della Repubblica italiana, contiene, espliciti e ben definiti concetti e principi giuridico-normativi che si pongono come fondamento logico-giuridico dell'intervento pubblico nell'economia (categoria generale a cui è interamente ascrivibile l’attività e la funzione pubblica dell’imposizione tributaria): il principio generale della necessaria “funzione sociale” della proprietà privata (art. 42 Cost.), che allude alla necessità che la proprietà privata (soprattutto dei mezzi di produzione cioè dei complessi economico-produttivi) sia funzionale (anche) al raggiungimento di interessi pubblico-collettivi di rilevanza sociale ossia di interessi caratterizzati da un'utilità generale e collettiva (occupazione, sviluppo economico e benessere sociale complessivo, tutela della salute e dell'ambiente, sicurezza delle condizioni di lavoro, ecc.), e trovi un limite giuridico in tale funzione sociale; quello, strettamente connesso al precedente, di “utilità sociale” come limite all'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) che non può svolgersi in contrasto con essa (cioè con l'utilità generale e gli interessi pubblici riferibili all'intera collettività sociale organizzata), né in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana (vale a dire in modo da violare l'obbligo giuridico di rispetto e considerazione per l'essere umano in quanto ontologicamente portatore di intrinseci valori e principi morali e/o razionali fondamentali ed universali che devono essere sempre riconosciuti e tutelati) ed all’ambiente naturale; quello di espropriazione della proprietà privata e di collettivizzazione/nazionalizzazione/socializzazione di imprese o categorie di imprese, cioè di soppressione giuridica della proprietà privata ed instaurazione su determinati beni (soprattutto quelli di natura economico-produttiva organizzati in aziende, ma non solo) di una proprietà pubblico-collettiva o sociale, per motivi di preminente interesse generale ossia in ragione della realizzazione di un interesse pubblico generale e collettivo preponderante o preminente rispetto a tutti gli altri interessi particolari e privati coinvolti (artt. 42 e 43 Cost.); quello dei programmi e controlli istituiti per legge e finalizzati ad indirizzare e coordinare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali, quindi di utilità generale/collettiva (art. 41 Cost.); quello di proprietà pubblico-collettiva (appartenenza allo Stato o ad enti pubblici) dei “beni economici” (dei mezzi o strumenti di produzione cioè, in sostanza delle aziende, art. 42 Cost.), funzionale strutturalmente alla realizzazione di interessi generali e collettivi attraverso la possibilità di esercizio di un'impresa pubblica (gestita ed esercitata da enti pubblici economici e non finalizzata al profitto privato ma alla basilare produzione economica di beni e servizi ad utilità generale da distribuire ed erogare a condizioni economiche accessibili a tutti i consociati).
È perfettamente chiaro, quindi, che il diritto di proprietà privata e la libertà (il diritto) di iniziativa economica privata, devono essere necessariamente inquadrati nel delineato contesto complessivo dei più ampi, fondamentali e prevalenti principi giuridici “sociali” e solidaristici contenuti nella Carta Costituzionale, e con tali principi vanno quindi contemperati, bilanciati, ponderati e soprattutto limitati in modo ragionevole e proporzionato (ciò che la funzione pubblica di imposizione tributaria fa in modo non solo assolutamente legittimo, ma anche razionalmente necessario alla stessa esistenza materiale dell’organizzazione sociale politicamente strutturata o istituzionalizzata).
La Costituzione repubblicana prevede espressamente, infatti, accanto al principio generale dell'uguaglianza “formale” (che è principio di uguale trattamento normativo di situazioni uguali o simili in modo logicamente e giuridicamente rilevante e di differente ragionevole trattamento normativo di situazioni diverse o dissimili in modo logicamente e giuridicamente rilevante), un corrispondente principio generale di uguaglianza “sostanziale”, che consiste nell'obbligo per i poteri pubblici di superare ed abbattere le disuguaglianze economiche e sociali (strutturali/fattuali) esistenti nella società, attraverso un'azione pubblica diretta ad attuare principi di giustizia (re)distributiva delle risorse, delle ricchezze e dei beni sociali secondo criteri di effettiva e sostanziale uguaglianza proporzionale ai diritti fondamentali spettanti a ciascun consociato, in ragione della necessità di riparare o compensare gli svantaggi naturali e sociali esistenti oggettivamente tra classi ed individui (eliminando le iniquità irrazionali ed intollerabili).
L'art. 3 della Costituzione italiana afferma il principio di uguaglianza sostanziale (economico-sociale) e, quindi, di giustizia sociale, in termini di obbligo per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (della collettività sociale organizzata).
Il principio generale di uguaglianza sostanziale fornisce evidentemente la base giuridica necessaria e sufficiente per azioni pubbliche dirette a vantaggio di categorie o classi sociali svantaggiate/sfavorite; l'uguaglianza sostanziale, in altri termini, consente la possibilità di quella continua opera di contaminazione e connessione dialettica tra i principi e gli elementi di giustizia commutativa e quelli di giustizia distributiva, che costituisce la modalità basilare di avanzamento delle politiche sociali. In applicazione del principio di uguaglianza sostanziale e giustizia redistributiva sono dunque possibili azioni pubbliche (finanziate necessariamente con le entrate tributarie) dirette ad attuare trasferimenti di risorse economiche dalle classi sociali e dai soggetti avvantaggiati/favoriti alle classi sociali ed ai soggetti svantaggiati, sfavoriti e deboli sul piano economico-sociale.
Un elemento fondamentale che giustifica l'intervento pubblico nell'economia a fini di giustizia sociale e di redistribuzione egualitaria delle risorse economiche (della “ricchezza”), è quindi rappresentato dal concetto e dal principio generale di “solidarietà” (art. 2 Cost.), definibile come dovere giuridico di cooperazione e collaborazione tra tutti i consociati, finalizzato alla realizzazione di interessi comuni (o pubblico-collettivi) ed alla garanzia del livello minimo di prestazioni, funzioni e servizi sociali erogati dai pubblici poteri (cioè dalla collettività sociale organizzata in forme politico-istituzionali) ed idonei a tutelare, realizzare e preservare il diritto di ognuno ad un'esistenza libera e dignitosa mediante il soddisfacimento dei diritti e dei bisogni sociali fondamentali; tale dovere riguarda dunque essenzialmente la tutela dei c.d. “diritti sociali”.
I diritti sociali si collocano a fianco dei diritti civili e politici come diritti di “terza generazione” tutelati e garantiti (sia come diritti individuali fondamentali, sia, soprattutto, come interessi pubblico-collettivi a rilevanza generale) dalle funzioni pubbliche svolte dal c.d. “Stato sociale”, finanziate attraverso le entrate tributarie (ossia mediante le entrate economiche derivanti dall’imposizione tributaria) e dirette ad erogare prestazioni e servizi di utilità pubblica, finalizzati essenzialmente a soddisfare i fondamentali bisogni ed interessi di carattere “sociale” (in quanto connessi all'organizzazione sociale/collettiva nel suo complesso) degli individui consociati (lavoro, sanità/salute ed assistenza medica, abitazione, istruzione, trasporti pubblici, erogazione di servizi pubblici essenziali generali come energia elettrica, acqua, gas, rete fognaria, igiene e tutela urbana ed ambientale, illuminazione, viabilità, ecc., assistenza e previdenza sociali tendenti a fare fronte a situazioni di bisogno materiale di soggetti svantaggiati sul piano economico-sociale al fine di tutelarne i fondamentali diritti ad una esistenza libera e dignitosa, ecc.).
Dunque, i diritti sociali possono essere qualificati come diritti individuali e collettivi nei confronti della stessa collettività organizzata ed istituzionalizzata (giuridicamente e politicamente) ossia come diritti individuali a dimensione collettiva in quanto inscindibilmente connessi alla necessaria appartenenza dell’essere umano ad una collettività sociale organizzata (ed al fatto che l’essere umano può vivere ed esistere esclusivamente come “essere sociale” e quindi come parte di un’organizzazione collettiva strutturata).
L'effettivo godimento di questi diritti è pertanto condizionato dall'intervento attivo del legislatore e della pubblica amministrazione (cioè dei “pubblici poteri”), che devono stabilire, organizzare ed erogare materialmente il servizio o la prestazione pubblico-collettiva a rilevanza sociale, finanziarla attraverso le entrate tributarie generali (in una logica progressiva che si innesta sul dovere di ogni consociato di “contribuire” alle spese pubbliche in ragione della sua capacità economica, con una contribuzione fiscale che cresce in misura più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza imponibile, attuando in tal modo un trasferimento equamente redistributivo di consistenti quote di risorse economiche da classi e strati sociali avvantaggiati verso ed a favore di classi e strati sociali svantaggiati), fissare la tipologia di prestazione pubblica o di bene pubblico erogato (gratuitamente o a corrispettivi nettamente inferiori a quelli di mercato in quanto privi di margine di profitto), precisare le specifiche modalità di erogazione ed i requisiti o le condizioni necessarie per usufruirne (tenendo ovviamente conto anche delle variabili di tipo economico-finanziario e degli equilibri del bilancio pubblico).
Il diritto/dovere di solidarietà contiene dunque un elemento “sociale”, costituito dai diritti individuali e collettivi aventi ad oggetto la garanzia (da parte della collettività sociale organizzata ed istituzionalizzata) di un minimo e sufficiente grado di benessere e sicurezza economica individuale, cioè dai diritti c.d. “sociali” che si risolvono sinteticamente nella possibilità (tutelata giuridicamente) di partecipare effettivamente e pienamente alla vita economica, politica e sociale della collettività e di avere garantito un livello minimo di dignità personale e sociale per effetto di un intervento attivo della stessa collettività sociale istituzionalizzata, la quale (a sua volta) ha un preciso “obbligo giuridico” di garantire tale livello minimo di dignità individuale attraverso la predisposizione e l'erogazione di servizi pubblici finanziati mediante le entrate tributarie (tendenzialmente progressive) ed idonei a soddisfare i bisogni e gli interessi sociali essenziali di tutti i consociati.
In questo modo muta la dimensione e cambia la qualità stessa della “Cittadinanza” e dell'intero contesto dei diritti e dei doveri ad essa correlati: anche i diritti (civili e politici) tradizionali, innanzitutto il diritto di proprietà e la connessa libertà di iniziativa economica, tendono ad essere ridefiniti e limitati in funzione della rilevanza giuridica assunta dalla dimensione sociale e collettiva in cui si situano.
Tutto ciò, come detto, si coglie immediatamente nella Costituzione italiana, dove i tipici “diritti sociali” (dal diritto al lavoro, insieme con i diritti del lavoro, al diritto alla salute ed all'assistenza sanitaria pubblica; dal diritto all'istruzione pubblica ed alla cultura a quello all'assistenza ed alla previdenza sociali; dal diritto all'abitazione a quello ai servizi pubblici essenziali e generali) ricevono un esplicito riconoscimento giuridico, giustamente limitando e condizionando, in ragione della rilevanza del legame sociale e dell'interesse pubblico-collettivo in stretta connessione con il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3), gli stessi diritti individuali di libertà e di proprietà, rendendo non più sostenibile una lettura esclusivamente individualistica di tali diritti e, al contrario, imponendo una loro visione collocata funzionalmente in un necessario contesto sociale e collettivo (che tiene appunto conto dell'esistenza di diritti sociali – nella loro configurazione di diritti individuali “a dimensione collettiva” – e dell'obbligo giuridico di realizzarli, rispettarli e tutelarli da parte dei pubblici poteri).
Nel dettato costituzionale si parla, dunque, di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), di “pari dignità sociale” di tutti i cittadini (art. 3); di “utilità sociale” e di rispetto della dignità, della sicurezza e della libertà umana, come limiti giuridici all'iniziativa economica privata (art. 41); di “funzione sociale” del diritto di proprietà (art. 42); di espropriazione e collettivizzazione, cioè di legittima soppressione giuridica della proprietà privata su determinati beni (produttivi o meno) e di instaurazione su di essi della proprietà pubblico-collettiva (dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori o utenti), per motivi di preminente interesse generale ossia in ragione della realizzazione di un interesse pubblico generale e collettivo preponderante o comunque preminente rispetto a tutti gli interessi particolari e privati (artt. 42 e 43); di programmi e controlli pubblici finalizzati ad indirizzare e coordinare l'attività economica pubblica e privata a fini sociali (di utilità generale/collettiva, art. 41); di proprietà pubblico-collettiva (appartenenza allo Stato o ad enti pubblici) dei “beni economici” (dei “mezzi o strumenti di produzione”, cioè, in sostanza, delle aziende e delle imprese, art. 42), funzionale strutturalmente alla realizzazione non del profitto privato ma di interessi generali e collettivi, attraverso la possibilità di esercizio di un'impresa pubblica (gestita ed esercitata da enti pubblici economici o da enti pubblici in forma societaria).
I diritti sociali sono strettamente connessi alla formazione ed allo sviluppo storico dello “Stato sociale” inteso come forma di Stato democratico pluralista funzionale a garantire il soddisfacimento e la tutela proprio di alcuni fondamentali bisogni e interessi (e, dunque, “diritti” o “pretese giuridicamente tutelate”) sociali dei consociati, come il lavoro, la salute e l'integrità psico-fisica, l'istruzione pubblica e gratuita, l'assistenza pubblico-sociale, l'informazione corretta, l'abitazione, la previdenza sociale, i servizi pubblici generali, le infrastrutture, ecc.; tali diritti di carattere sociale, nella loro dimensione minima (necessaria e sufficiente) sono ormai diventati, in effetti, una precondizione basilare dello stesso processo democratico ed una componente ineliminabile del concetto stesso e dello status di cittadinanza.
Il tema dei diritti sociali e della loro effettiva e concreta realizzazione appare quindi, come già rilevato, strettamente connesso al concetto, al principio ed al dovere (morale e giuridico) di “solidarietà sociale” (art. 2 Cost.) intesa come vincolo che connette una pluralità di individui organizzati in una collettività sociale e come diritto/dovere di cooperazione ed aiuto reciproco tra i consociati all'interno dell'organizzazione collettiva di cui sono parte integrante, oltre che nei rapporti dei singoli con tale organizzazione sociale (la quale ha l’obbligo giuridico di tutelare e garantire i diritti ed i bisogni sociali fondamentali di tutti i suoi componenti in posizione di assoluta ed universale uguaglianza, fornendo un livello minimo e necessario di benessere e sicurezza economica cui è correlato il rispetto della dignità umana e sociale di ciascuno).
Emergono chiaramente i nessi logico-giuridici del diritto/dovere di solidarietà con il principio di dignità (umana e sociale) e con quello di uguaglianza formale e sostanziale tra i consociati (art. 3), collocando lo stesso dovere di solidarietà in un contesto costituzionale più ampio, all'interno del quale assumono un rilievo essenziale i correlativi “diritti sociali” o diritti individuali “a dimensione collettiva” cioè i diritti soggettivi il cui soddisfacimento è fondato necessariamente sull'intervento attivo da parte dell'organizzazione sociale generale nel suo complesso e dunque da parte dello Stato (“sociale”) e dei suoi poteri pubblici istituzionali (in tutte le loro articolazioni ed ai vari livelli) attraverso i meccanismi della finanza pubblica vale a dire del sistema delle entrate tributarie (complessivamente “progressive”) dirette al finanziamento di beni e servizi pubblici ad utilità collettiva (e generale) ed a rilevanza sociale (dunque dirette al finanziamento di “prestazioni sociali” universali in senso lato).
Il dovere generale di solidarietà sociale, contenuto prescrittivo logico del principio giuridico di solidarietà sociale (espressione, a sua volta, di un processo reale e razionale di “giuridicizzazione” – ossa di trasformazione in norma giuridica generale e astratta – di un principio morale connesso ad una necessità sociale oggettiva), implica dunque, per i consociati, l'obbligo di interagire reciprocamente in modo “cooperativo” (o “collaborativo”) al fine di realizzare obiettivi comuni di interesse collettivo o generale e di soddisfare conseguentemente anche i bisogni essenziali dei singoli (tutti, senza eccezioni, ossia in modo “universale”), consentendo la coesistenza sociale su basi razionali e su criteri/principi di uguaglianza formale e sostanziale (di tipo “universale”).
Esso inoltre impone all'organizzazione sociale, al collettivo organizzato in istituzioni pubbliche, ed in definitiva all'organizzazione politica generale della società (lo Stato), di operare in modo da eliminare o ridurre fortemente le disuguaglianze fattuali tra i singoli e le classi sociali, al fine di garantire, realizzare effettivamente e tutelare i fondamentali diritti dei consociati come individui e come membri dell'organizzazione sociale stessa (uguaglianza sostanziale).
Si tratta della formalizzazione giuridica di un dovere morale universale (di carattere essenzialmente razionale) che riguarda “tutti e ciascuno” (S. Rodotà) e produce sullo Stato (“sociale”) l'obbligo di garantire a tutti i cittadini (o meglio, a tutti gli individui membri della società) in modo uguale e “giusto” (secondo cioè i principi di uguaglianza formale e sostanziale) il soddisfacimento dei diritti fondamentali alla vita, alla salute ed all'integrità psico-fisica, ad un'esistenza libera e dignitosa, al lavoro ed alla retribuzione proporzionata e sufficiente (principio di giustizia commutativa e distributiva in base al quale ad uguale quantità e qualità del lavoro prestato deve corrispondere un'uguale retribuzione, che sia in ogni caso sufficiente a consentire un'esistenza libera e dignitosa per il lavoratore), al nutrimento ed all'abbigliamento adeguati, all'abitazione, all'ambiente naturale salubre e protetto, alla dignità sociale in generale, all'istruzione ed alla cultura, all'assistenza sociale pubblica in situazioni di bisogno o di grave disabilità/inabilità ed alla previdenza o sicurezza sociale (prestazioni pensionistiche per l'anzianità e la vecchiaia, prestazioni indennitarie per gli infortuni, le malattie, l’invalidità connessi all’attività lavorativa e la disoccupazione involontaria: in altre parole, si tratta di garantire a tutti coloro che ne hanno bisogno, ed in modo egualitario, il diritto sociale ai mezzi economici necessari a consentire un’esistenza biologica dignitosa soddisfacendo le esigenze vitali fondamentali in caso di inabilità, disabilità, infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione, ecc.), alla sicurezza individuale e collettiva, ecc.
Il dovere di solidarietà va quindi considerato come “norma oggettiva” che fonda i diritti sociali degli individui ossia i diritti (o “pretese” giuridicamente tutelate) che gli individui hanno nei confronti della collettività sociale a cui appartengono e che lo Stato deve garantire attraverso l'accesso ai servizi pubblici e sociali; tali servizi, finanziati con le entrate tributarie “progressive” (fondate cioè su imposte che crescono in misura più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza o forza economica soggettiva), devono essere forniti (gratuitamente o a prezzi e tariffe “politici” ossia inferiori al loro costo di produzione) dalle strutture istituzionali pubbliche al fine di soddisfare bisogni sociali fondamentali come, appunto, la salute, il lavoro e la retribuzione equa/giusta e proporzionata, l'istruzione e la cultura, l'abitazione, la previdenza e l'assistenza sociale, l'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, i trasporti, le infrastrutture ed i servizi pubblici generali, la tutela dell'ambiente ovvero del contesto naturale in cui si sviluppa la vita e di cui è parte integrante l'esistenza biologica animale e vegetale, in modo tale da attuare una redistribuzione sostanzialmente egualitaria del reddito, delle risorse e della ricchezza sociale complessiva in favore di classi e soggetti svantaggiati o sfavoriti sul piano materiale e sociale.
4.
Lo Stato e gli altri Enti pubblici minori necessitano, dunque, di adeguati mezzi economici allo scopo di assolvere alle molteplici e svariate funzioni pubbliche (di interesse, rilevanza ed utilità pubblico-collettiva) loro demandate dall’ordinamento giuridico generale della società; tali risorse economiche vengono acquisite da una duplice fonte: 1) in parte vengono attinte dall’attività iure gestionis di amministrazione e gestione dei beni (pubblici) appartenenti al loro patrimonio o comunque dall’esercizio di altre attività di diritto privato (quali le attività commerciali o industriali delle imprese pubbliche); 2) in parte (quella più rilevante) dalla acquisizione iure imperii (per “diritto di supremazia” ed attraverso l’esercizio di poteri pubblicistico-autoritativi) di ricchezza dei cittadini mediante il prelievo coattivo (o coercitivo) dei tributi. L’attività finanziaria è costituita appunto dall’attività complessiva (iure gestionis e iure imperii) di acquisizione, di gestione e di spesa dell’insieme dei mezzi economico-finanziari necessari allo Stato e agli Enti pubblici minori per il raggiungimento delle loro finalità istituzionali e per lo svolgimento di tutte le loro funzioni o attività pubbliche (di interesse e rilevanza generale).25
Poiché l’ordinamento giuridico italiano è informato ai principi dello “Stato di diritto”, l’attività finanziaria pubblica (come tutte le altre attività e funzioni della pubblica amministrazione) è integralmente regolata e disciplinata da apposite norme di diritto positivo costituzionali e legislative.
La branca del diritto che disciplina l’attività finanziaria è il “diritto finanziario”, che può quindi definirsi come il complesso delle norme giuridiche che regolano l’acquisizione, la gestione e l’erogazione dei mezzi economici necessari all’esistenza ed al funzionamento di tutti gli Enti pubblici (Stato ed enti minori) e, dunque, all’esistenza della stessa collettività sociale organizzata in istituzioni. Lo studio del diritto finanziario viene scisso in due scienze giuridiche distinte ma funzionalmente connesse tra loro: a) la contabilità di Stato, che è quella più correlata al diritto privato e ha ad oggetto le norme sull’amministrazione del patrimonio pubblico, sui contratti pubblici, sulla contabilità generale e sul bilancio dello Stato; b) il diritto tributario, che ha rilevanza tipicamente pubblicistica.26
L’oggetto del diritto tributario viene dunque individuato nel complesso delle norme giuridiche che disciplinano la specifica attività dello Stato e degli Enti pubblici diretta ad acquisire, coattivamente ed in forza del potere pubblico di supremazia autoritativa loro attribuito dalla legge (sulla base del dettato costituzionale), i mezzi economico-finanziari necessari allo svolgimento delle proprie attività/funzioni (pubbliche) istituzionali ed alla realizzazione delle connesse finalità di rilevanza ed interesse pubblico-collettivo (ossia “comune” all’intera collettività sociale organizzata).27
Parte della dottrina sostiene correttamente che il tributo, in quanto prestazione patrimoniale/pecuniaria coattiva funzionale alla (giusta) ripartizione individuale delle spese pubbliche e comuni alla collettività sociale organizzata, nasce necessariamente dalla socialità dell’essere umano, dalla sua tendenza naturale a vivere assieme ad altri esseri umani nella “città-stato”; il vivere associato nella “civitas” genera inevitabilmente “spese comuni” e il “tributo” è lo strumento che veicola i criteri (razionali, egualitari e, dunque, giusti) per la ripartizione delle stesse spese comuni o pubbliche dell’organizzazione sociale, posto che, in ogni caso, la ripartizione e la copertura/finanziamento di spese comuni, che nelle organizzazioni sociali politicamente istituzionalizzate (Stato ed Enti pubblici infrastatuali come Regioni, Province e Comuni) è soddisfatta dal “tributo”, si presenta anche in ogni aggregato associativo umano (famiglia, tribù, associazioni di varia natura, ecc.).28
In ogni raggruppamento sociale è sempre necessario stabilire regole (giuridiche) per il riparto distributivo delle spese e dei costi comuni, ragione per cui il diritto tributario deve essere qualificato come “diritto distributivo” che racchiude l’insieme delle regole giuridiche che lo Stato crea per fissare i criteri razionali da utilizzare per la giusta ripartizione dei carichi e degli oneri pubblici (criteri che, nel corso dello sviluppo storico, assumono progressivamente e necessariamente un carattere di maggiore razionalità e giustizia).29
Lo Stato costituisce l’organizzazione politico-giuridica “generale” della società, ma non l’unica organizzazione giuridico-sociale: accanto ad esso infatti esistono numerose altre organizzazioni giuridiche della società (tutte le organizzazioni istituzionali e di tipo giuridico-associativo di natura pubblica e privata, come ad esempio i partiti politici, gli enti pubblici territoriali e non territoriali, le associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, le stesse imprese, ecc.) con esso coesistenti (teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici). Ovunque si ha la sottoposizione stabile di un corpo sociale e collettivo ad un’autorità comune e riconosciuta con la conseguente riduzione ad unità (ad una dimensione collettiva unitaria) della pluralità o molteplicità degli elementi personali e materiali mediante un’organizzazione sociale permanente ed istituzionalizzata (una “istituzione”) con un connesso “ordinamento giuridico” (anche e soprattutto “tributario”).30
Se ne deduce, su un piano generale, che non può esistere nessuna organizzazione sociale che non sia fondata sul “tributo” cioè sul finanziamento (potenzialmente coattivo) della stessa organizzazione collettiva (la cui esistenza materiale ed il cui funzionamento essenziale, consistente nello svolgimento delle funzioni e delle attività fondamentali di utilità generale e comune, dipende esclusivamente da tale finanziamento) attraverso il necessario “contributo” (tendenzialmente egualitario e proporzionale alla capacità contributiva individuale) di tutti i consociati (che sono oggettivamente in grado di contribuire); ne discende ulteriormente che in assenza delle norme che costituiscono il diritto tributario, lo Stato non può sorgere né può esistere e, dunque, non può esistere l’ordinamento giuridico-politico nella sua globalità e nei suoi singoli rami: in altri termini, il diritto tributario è l’elemento strutturale essenziale per l’esistenza dell’intero ordinamento giuridico generale della società e dello Stato.31
Il filosofo G.W.F. Hegel, nel suo libro sulla Costituzione della Germania (in “Scritti politici”, ed. it. 1972, p. 47) approfondisce questo profilo e rileva che lo Stato, come forma evoluta di organizzazione sociale di natura politica e generale, non può esistere se la pluralità o moltitudine di individui consociati e stanziati stabilmente su un territorio non organizza istituzionalmente la “forza militare” (per garantire la difesa comune da aggressioni esterne e l’ordine pubblico, la sicurezza e l’incolumità collettiva dei consociati all’interno) e la “forza finanziaria”, cioè un ordinamento tributario come sistema di regole giuridiche coattive volte al prelevamento necessario delle risorse economiche per il finanziamento di tutti i bisogni essenziali dell’organizzazione collettiva nel suo complesso (ovvero se non organizza, sulla base della forza militare e di quella finanziaria, la propria “sovranità” intesa come suprema potestà di governo politico dell’intera collettività sociale).
In altri termini, per riprendere un’affermazione del filosofo italiano Antonio Rosmini, “la società statuale non può esistere se non mediante il denaro: ella paga gli impiegati e la milizia, fa eseguire opere pubbliche, ecc.: nulla fa senza denaro. Dunque ella è una società di contribuenti” (A. Rosmini, Progetti di Costituzione, Saggi editi ed inediti, Milano, 1852, p. 33).
D’altro canto, già al tempo dell’Italia romana, il tributum rappresentava la quota di contribuzione incombente su ciascuna tribus (“tribù”) – entità che costituiva l’aggregazione sociale minima in cui erano suddivisi tutti i cittadini romani stanziati sulla penisola italica – necessaria al finanziamento (ed all’esistenza materiale stessa) dell’organizzazione collettiva pubblica (della res publica); il diritto tributario nasce appunto come sistema di regole giuridiche dirette a disciplinare la contribuzione delle singole “tribù” dei cittadini (e quindi dei singoli cittadini) al finanziamento dello Stato romano, da cui il principio latino “nulla civitas sine tributo” (nessuna organizzazione sociale può esistere senza il fondamento del tributo).32
Lo stesso Hegel indica con il termine “Spirito oggettivo” la sfera sociale, la dimensione (cosciente) collettiva ed organizzata nelle “istituzioni” all’interno delle quali l’essere umano si trova a vivere; le “istituzioni” rappresentano le organizzazioni sociali fondamentali che vincolano obbligatoriamente l’agire collettivo ed individuale con norme e regole (principalmente giuridiche) le quali, a loro volta, attribuiscono “significati” ragionevoli, funzionali ed oggettivi ad azioni, rapporti, eventi, situazioni ed elementi che si sviluppano nel contesto dell’organizzazione sociale complessiva. Per Hegel, l’istituzione per antonomasia, la forma istituzionale razionalmente compiuta, quella più importante, evoluta e di dimensione universale, è lo “Stato” con il suo ordinamento giuridico generale: esso fornisce le regole giuridiche che definiscono e disciplinano tutte le attività, le condotte e le relazioni sociali (più rilevanti) dei consociati (Lineamenti di filosofia del diritto, ed. it., Roma-Bari, 1990); al vertice dell’ordinamento giuridico statale c’è la “Costituzione” che esprime, sul piano della razionalità oggettiva, le norme giuridiche fondamentali e vincolanti per tutte le altre norme giuridiche di livello inferiore. La Costituzione, per Hegel, pone dunque, in modo fondamentale ed interamente razionale, “la determinazione dei diritti, vale a dire delle libertà in generale” (Enciclopedia delle scienze filosofiche, ed. it., Torino, 1981-2002).
Lo Stato “ideale” (con il suo “ordinamento giuridico”), espressione della compiuta razionalità oggettiva raggiunta dalla realtà sociale, è, per Hegel, quello in cui si realizza (contestualmente) la piena ed effettiva libertà individuale e collettiva, quello in cui la sfera individuale e quella collettiva si connettono dialetticamente tra loro in una relazione organica, equilibrata, stabile e “giusta” o “equa”, dunque integralmente “razionale”: esso è una comunità o collettività di cittadini associati che si organizza in modo tale da garantire, secondo criteri di uguaglianza formale e sostanziale, tutti i diritti fondamentali dei consociati ed il perseguimento del benessere (psico-fisico) di ciascun consociato, in termini altrettanto egualitari.33
Tutto ciò si inserisce e trova un fondamento giustificativo originario nella tesi esposta da Hegel in quella che può essere definita come una delle opere più significative e basilari del suo sistema filosofico, e cioè la “Scienza della logica” (ed. it. Roma-Bari, 1968): per Hegel il “pensiero soggettivo” (la “ragione umana”) e la realtà materiale oggettiva (e dunque anche la più specifica realtà sociale) hanno la stessa identica struttura logico-concettuale e razionale, in quanto sono parti integranti di un’unica ed unitaria razionalità universale complessiva intrinseca all’unica ed unitaria realtà universale sostanziale (infinita ed eterna) in continua e perenne evoluzione dialettica. In altri termini, le strutture, le categorie e le funzioni logico-concettuali fondamentali (essere, divenire, quantità, qualità, causalità, uguaglianza, correlazione dialettica, procedimento logico deduttivo ed induttivo, ecc.) sono contemporaneamente presenti nella razionalità soggettiva (nel pensiero soggettivo degli esseri umani) e nella razionalità oggettiva della realtà materiale (che Hegel chiama “pensiero oggettivo”), proprio perché entrambe sono strettamente/indissolubilmente connesse tra loro e sono elementi costitutivi di una razionalità universale onnicomprensiva che pervade tutta la realtà materiale esistente (e da cui deriva ed in cui si inserisce necessariamente anche la razionalità soggettiva degli esseri umani o, comunque, la basilare e minima capacità di pensiero intellettivo comune a tutti gli esseri viventi animali evoluti e dotati di forme anche minimali di coscienza e senzienza).
Pertanto nel pensiero soggettivo (individuale e collettivo) esistono, ad esempio, le strutture e le funzioni logico-concettuali del sillogismo deduttivo (che procede dal concetto “generale” a concetto “particolare”, il quale è logicamente contenuto nel concetto “generale”) e della connessione di derivazione causale (incentrata sul binomio “antecedente causale necessario” e “conseguente effettuale necessario”) tra fenomeni o eventi o classi generali di fenomeni o eventi basata su criteri di regolarità “normale” o elevata probabilità logico-razionale, ovvero ancora esistono le strutture concettuali logico-prescrittive delle norme giuridiche e del diritto con le loro connessioni deduttive, proprio in quanto tali strutture e funzioni logico-concettuali esistono necessariamente anche nella razionalità universale della complessiva realtà materiale oggettiva “naturale” e (per implicazione logica) “sociale” (ed anzi costituiscono una derivazione immediata e progressiva di tale razionalità universale).
È stato correttamente rilevato che il diritto tributario appartiene alla sfera della giustizia distributiva in quanto è il diritto che regola la giusta/equa ed imparziale (quindi “proporzionalmente uguale”) ripartizione o distribuzione degli oneri pubblici:34 un altro filosofo italiano, G. Vico, sostiene che la struttura logica delle norme giuridiche tributarie riflette un primo rapporto “sociale” (reale ed oggettivo) tra il soggetto attivo detentore del potere pubblico di imposizione tributaria (rector) ed il soggetto passivo della stessa potestà di imposizione (rectum); la giustizia tributaria è innanzitutto, nel suo aspetto di giustizia distributiva, una relazione tra rector e rectum che si incentra necessariamente su criteri di equità ed imparzialità basati sul principio di uguaglianza formale e sostanziale e, naturalmente, è una relazione di “uguaglianza proporzionale” alla forza economica del soggetto colpito dall’imposizione tributaria, cioè una iuris proportio basata sull’entità della ricchezza soggettiva tassata.35 Accanto a questo rapporto tra rector e rectum, esiste necessariamente un altro rapporto “inter rectos”, cioè un rapporto, che deve essere anch’esso improntato a criteri razionali di correttezza, uguaglianza, giustizia ed equità, che si estrinseca all’interno della collettività sociale organizzata ed intercorre tra tutti i consociati “contribuenti” o soggetti passivi dello stesso tributo; quest’ultimo rapporto deve essere tale per cui, rispetto ai vari soggetti passivi, i soggetti che esprimono la stessa (“uguale”) forza economica devono soggiacere allo stesso prelievo tributario (cioè ad un “uguale” prelievo tributario), mentre i soggetti che possiedono una forza economica diversa, devono sottostare ad un prelievo tributario differenziato e di entità direttamente proporzionale all’entità della forza economica manifestata (quindi ad un prelievo tributario che cresce al crescere della forza economica o capacità contributiva imputabile al soggetto, secondo una relazione di tendenziale “uguaglianza proporzionale”).36
Quindi è fondamentale, nel tributo e nella giustizia tributaria, il principio di uguaglianza, che si manifesta come uguale trattamento impositivo tra coloro che hanno uguale forza economica contributiva e differente ragionevole trattamento impositivo tra coloro che hanno capacità contributiva differente (secondo una regola di crescenza del livello di imposizione fiscale in rapporto di “uguaglianza proporzionale” alla crescenza della forza economica o capacità contributiva soggettiva del contribuente): sostiene dunque Vico che, se, nelle norme sulla giustizia di questo tipo, viene meno il principio di uguaglianza (cioè la parità di trattamento “inter rectos”), allora viene meno la stessa “giustizia distributiva”37.
Il concetto ed il principio di uguaglianza “formale” consiste nell'uguale trattamento normativo di situazioni simili (o “uguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti ad una stessa classe logica generale/universale sulla base di determinate caratteristiche comuni rilevanti) e nel diverso e razionale/logico trattamento normativo di situazioni dissimili (o “disuguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti a diverse classi logiche generali sulla base caratteristiche non comuni rilevanti).
L'uguaglianza (nucleo logico del concetto di “giustizia”) è un principio ed un concetto di carattere intrinsecamente universale (o generale), che, di per sé, presuppone l'universalità degli ambiti di sua applicazione, interessando, in modo assolutamente paritario/equivalente tutte le situazioni, i soggetti e le fattispecie appartenenti ad una classe logica “aperta” e costituita da tutti gli elementi individuali aventi determinate caratteristiche o “proprietà” comuni e rilevanti; peraltro, essa, come principio giuridico generale, si riferisce segnatamente ad una serie di situazioni ed attributi che attengono allo sviluppo della personalità umana.
Inoltre, per quanto riguarda l'attribuzione dei diritti umani fondamentali (vita, integrità psico-fisica, libertà personale, di manifestazione del pensiero, di opinione, di associazione ecc. ̶ dignità morale e sociale e, conseguentemente, liberazione dal bisogno, dalla sofferenza e dall’oppressione), l'uguaglianza è il principio universale che regola la distribuzione ed il conferimento di tali diritti a vantaggio di tutti gli individui appartenenti alla classe logica generale degli “esseri umani” in posizione di assoluta parità ed equivalenza reciproca, senza alcuna arbitraria ed irrazionale discriminazione o distinzione.
In questo senso, l'uguaglianza è il principio cardine che consente la liberazione di ogni essere umano da ogni possibile connotazione e marchio irrazionale di minorità, di inferiorità e di discriminazione (irragionevole ed ingiusta).
La questione ed il concetto dell'uguaglianza vengono dunque ricondotti alla loro dimensione universale, che è quella di principio generale che ricomprende il divieto di ogni possibile discriminazione (irrazionale, ingiusta e lesiva della dignità umana) ed aspira ad informare di sé l'intero ordinamento giuridico con un'efficacia immediata e diretta.
Accanto al principio generale dell'uguaglianza “formale” deve però prevedersi un corrispondente principio generale di uguaglianza “sostanziale”, che consiste nell'obbligo per i poteri pubblici di superare ed abbattere le disuguaglianze economiche e sociali (strutturali/fattuali) esistenti nella società, attraverso un'azione pubblica diretta ad attuare principi di giustizia (re)distributiva delle risorse, delle ricchezze e dei beni sociali secondo criteri di effettiva e sostanziale uguaglianza proporzionale ai diritti fondamentali spettanti a ciascun consociato, in ragione della necessità di riparare o compensare gli svantaggi naturali e sociali esistenti oggettivamente tra classi ed individui.
Ancora una volta si deve fare riferimento all'art. 3 della Costituzione italiana, il quale afferma il principio di uguaglianza sostanziale (economico-sociale) e, quindi, di giustizia sociale, in termini di obbligo per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il principio generale di uguaglianza sostanziale fornisce evidentemente, come già detto, il fondamento giuridico-razionale necessario e sufficiente per azioni pubbliche dirette a vantaggio di categorie o classi sociali svantaggiate/sfavorite; l'uguaglianza sostanziale, in altri termini, consente la possibilità di quella continua opera di compenetrazione dialettica tra i principi e gli elementi di giustizia commutativa (fondata sull’equivalenza delle prestazioni reciproche nello scambio sociale) e quelli di giustizia distributiva (riguardante l’equa ed imparziale o uguale distribuzione del prodotto sociale), che costituisce la modalità basilare di sviluppo progressivo delle politiche sociali da attuare necessariamente attraverso il fulcro centrale dell’imposizione tributaria progressiva idonea a finanziare l’erogazione di beni e servizi pubblici diretti a garantire e tutelare i diritti sociali fondamentali di tutti i consociati in posizione di assoluta ed universale parità sostanziale, attuando un equo trasferimento di risorse economiche da classi e strati sociali avvantaggiati e “forti” verso classi e strati sociali economicamente “deboli” e svantaggiati, in modo da realizzare concretamente un principio di essenziale “giustizia redistributiva” funzionale a compensare ed eliminare il più possibile gli svantaggi naturali ed economico-sociali dei soggetti deboli (e quindi ad avvantaggiare equamente i soggetti più svantaggiati o meno avvantaggiati, secondo un criterio razionale di generale “giustizia distributiva”).
Sul concetto di giustizia (incentrato sostanzialmente e necessariamente sul principio di uguaglianza) occorre precisare che esso si traduce in un dovere e in un diritto che coinvolgono, in modo uguale, universale, reciproco e corrispettivo, tutti i soggetti che appartengono ad una comunità o ad una collettività sociale organizzata e quindi, in linea di principio, ogni persona umana (e, in un’ottica ancora più ampia di universale “uguaglianza interspecifica”, ogni essere vivente cosciente e senziente appartenente alla comunità biologica interspecifica terrestre); la giustizia è la costante e perpetua volontà razionale, tradotta in azione (morale e giuridica) individuale e collettiva, di riconoscere ed attribuire a ciascuno ciò che gli è dovuto (in quanto “proprio”) secondo criteri razionali di uguaglianza proporzionale al diritto, al contributo o al bisogno essenziale di ciascun consociato. Perciò, il nucleo logico ineliminabile ed il “mezzo” della giustizia in senso stretto, è rappresentato dall'“uguale” (cioè dal criterio dell'uguaglianza formale e sostanziale) che non è una quantità fissa ed astrattamente assoluta, ma variabile secondo un principio di proporzionalità: non si tratta di dare a tutti in modo astrattamente ed assolutamente uguale, ma di dare a ciascuno il “proprio” in proporzione (“uguale”) al suo diritto fondamentale, incomprimibile ed essenziale; la giustizia sostanziale assume quindi forme diverse secondo la natura dei rapporti sociali che ne costituiscono l'oggetto e secondo il criterio dell'uguaglianza proporzionale (al diritto soggettivo, al contributo fornito o al bisogno di fondo ed essenziale di ciascun consociato) applicato per determinare il “proprio” di ognuno (cfr. Enciclopedia Treccani, voce “Giustizia”).
Aristotele parla di giustizia fondata sulla proporzione e sull'uguaglianza e distingue tra: “giustizia distributiva”, che regola i rapporti pubblico-collettivi intercorrenti tra i singoli consociati e la collettività sociale organizzata, con riferimento alla distribuzione di beni, risorse e ricchezze pubbliche secondo criteri di uguaglianza e proporzionalità rispetto ai diritti, ai contributi ed ai bisogni fondamentali di ciascuno; e “giustizia commutativa o regolativa” che regola i rapporti tra i singoli individui (lo scambio corrispettivo di cose o prestazioni tra i privati) e, dunque, i rapporti individuali tra i singoli esseri umani in posizione di assoluta uguaglianza personale e di equivalenza tra il valore dei beni e delle prestazioni scambiate reciprocamente, nella misura in cui essa tende a “riparare” o “compensare” i danni e gli svantaggi ingiusti subiti da una delle parti del rapporto (Enc. Treccani, cit.).
Cicerone, nel De Inventione, scrive: «Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem» (“La giustizia è uno stato morale [uno “stato dell'animo”], osservato per l'utilità comune, che attribuisce a ciascuno la sua dignità”); Ulpiano traduce la definizione di Cicerone in termini giuridici affermando che «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi» («La giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il proprio diritto»); la giustizia è dunque non soltanto una scienza o una ratio (una “ragione” giustificativa di scelte) ma è anche una “volontà” razionale e costante di attribuire a ciascun consociato ciò che può considerarsi il “proprio” sulla base di criteri di uguaglianza proporzionale al legittimo diritto di ciascuno (Enc. Treccani, cit.). E questi sono i fondamentali principi (giuridici e filosofici) che devono regolare, in una progressione storica di sempre maggiore razionalità (ed intrinseca giustizia), la funzione pubblica dell’imposizione tributaria, come funzione basilare ed ineliminabile della civiltà e della società umana.
1 A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, IX ed., Milano, 1965; A. Fedele, Appunti di diritto tributario, Torino, 2003; A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003; E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2007; F. Tesauro, Compendio di diritto tributario, Torino, 2004; F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 2023; in senso sostanzialmente conforme (Corte cost. n. 64/2008, n. 334/2006 e n. 73/2005). Amatucci (Principi e nozioni di diritto tributario, cit., p. 83) rileva che la dottrina prevalente qualifica quindi il tributo come prestazione patrimoniale coattiva caratterizzata dall’attitudine a determinare il concorso alle spese pubbliche, in quanto collegata, necessariamente ex art. 53 Cost., ad un fatto economico (presupposto impositivo) assunto ad “indice” di capacità contributiva; altri invece negano che tale ultimo elemento abbia effettiva “portata specializzante e qualificatoria”, rilevando, tra l’altro, che la giurisprudenza costituzionale consolidata esclude che le tasse – quasi unanimemente considerate tributi – siano soggette al principio di capacità contributiva (G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte Generale, Padova, 2008). Tuttavia, occorre evidenziare che anche nella “tassa” (qualificabile essenzialmente come prestazione tributaria pubblicistico-coattiva, determinata legislativamente e dovuta obbligatoriamente in relazione all’erogazione di un’attività, di un servizio o di una funzione pubblica che concerne in modo particolare il soggetto obbligato al pagamento), vengono molto spesso previste esenzioni o riduzioni del tributo stesso in ragione della insufficiente o assente capacità contributiva dell’obbligato destinatario dell’attività o del servizio erogato dall’Ente pubblico impositore. Sulla base dell’art. 53, però, la Corte costituzionale ha elaborato la nozione di “obbligazione di concorso”, che include le imposte e i prestiti forzosi ma non le tasse, che restano escluse dal principio di “capacità contributiva” in particolare nelle ipotesi in cui risulta chiaro il loro carattere divisibile (Corte cost., 2 aprile 1964, n. 3, in Giur. Cost., 1964, 250; Corte cost., 17 aprile 1968, n. 23, ivi, 1968, p. 425). In dottrina si è ampiamente criticata questa indiscriminata esclusione della tassa dal principio di capacità contributiva cioè dalla disciplina sostanziale dell’art. 53 Cost., v. Fedele, voce “Tassa”, in Enc. Giur., Vol. XXX, Roma, 1993, 52, il quale nota come l’interpretazione della Corte sembra il frutto di un espediente tecnico-politico volto ad evitare che le ipotesi di tasse, ovviamente qualificate come tributi, risultino incostituzionali nel caso in cui manchi in modo assoluto il collegamento con la capacità contributiva del soggetto passivo. Ancora in argomento, F. Fichera, I contributi speciali e le tasse, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, vol. IV, Padova, 2001, 356; P. Boria, la dialettica costituzionale del fenomeno tributario, in Dir. Prat. Trib., 2004, p. 988.
2 F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, cit., p. 84; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, I, Milano, 2006, p. 6; A. Fedele, Appunti delle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 14; A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., p. 54; G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte Generale, Padova, 2005; ampiamente sul punto, L. Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 180, con particolare riferimento alla problematica del requisito funzionale del concorso alle spese pubbliche (pp. 185 e ss.).
3 F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, cit., p. 84.
4 F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, cit., p. 85 (nota 13).
5 F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, cit., p. 85; C. Glendi, Limiti costituzionali all’espansione extra moenia della giurisdizione tributaria, in Corr. Trib. n. 18/2008, p. 1445; Batistoni Ferrara, La giurisdizione speciale tributaria nell’ultima giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rass. Trib. n. 4/2008, p. 1055.
6 In questo senso, L. Del Federico, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, cit., p. 304.
7 L.V. Berliri, La giusta imposta, Roma, 1945, cap. II, pp. 336 e ss., citato da G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, Parte Generale, Padova, 2005, pp. 22 e ss.
8 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit. p. 23.
9 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit. p. 23; L.V. Berliri, la giusta imposta, cit., p. 345. Aderisce a questa tesi A. Fedele, I principi costituzionali e l’accertamento tributario, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin, 1992, I, 464, laddove evidenzia che “il nucleo essenziale del fenomeno (fiscale) è dunque nell’individuazione dei criteri di riparto. Individuare questi criteri significa risolvere conflitti di interessi, tra i consociati, i loro gruppi, categorie ed istanze”.
10A. Fedele, Concorso alle pubbliche spese e diritti individuali, in Riv. Dir. Trib., 2002, I, pp. 1 e ss.
11 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., pp. 23-24.
12 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 25.
13 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 25. L’Autore precisa che tutti i giuristi tributari e finanziari (e tutti gli scienziati di finanza pubblica) sono concordi nell’affermare che l’imposta ha una funzione sociale di solidarietà per cui alcuni consociati (i più svantaggiati e deboli sul piano economico-sociale) usufruiscono dei beni e dei servizi pubblici (di utilità e rilevanza “sociale”) e possono non pagare l’imposta che serve a finanziarli (proprio in ragione della loro debolezza economico-sociale e della conseguente mancanza di “capacità contributiva”), mentre altri la corrispondono in misura proporzionale (o progressiva) alla rispettiva capacità contributiva, per sé e per gli esenti (cfr. B. Griziotti, “Vecchi e nuovi indirizzi nella scienza delle finanze”, in “Saggi sul rinnovamento degli studi della scienza delle finanze e del diritto finanziario”, Milano, 1953, p. 200; id., “Il principio della solidarietà finanziaria”, ivi, p. 241).
14 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 25.
15 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 25.
16 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 26.
17 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 26.
18 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 26.
19 A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, p. 406; critico S. Muscarà, in Rass. Trib., 1994, p. 1508; A. Giovannini, in Proc. Trib. Tesauro, pp. 382 e ss.
20 A. Fantozzi, Diritto Tributario, Torino, 2012, pp. 397 e ss.
21 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., pp. 311 e ss.
22 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 15; attribuisce ai contributi natura di tassa e non di imposta P. Russo, Manuale di diritto tributario, Parte Generale, Milano, 2002, pp. 28-29, per il quale i contributi “rispondono ad un assetto di interessi ispirato alla corrispettività e non alla solidarietà” di talché agli stessi si applicherebbe l’art. 23 ma non l’art. 53 Cost. Tra i giuslavoristi attribuiscono al contributo previdenziale natura di tassa: Donati, Il rapporto giuridico delle assicurazioni sociali, Dir. Lav., 1950, I, 9; Ottolenghi, Lezioni di diritto ed ordinamento delle assicurazioni sociali, Roma, 1937, p. 11; Liquori, Nozioni di diritto previdenziale, Roma, 1952, p. 100. La tesi non è condivisa da P. Puri, Destinazione previdenziale e prelievo tributario, 2004, p. 99, ed. provv., pp. 99 e ss., il quale esclude la natura di tassa del contributo previdenziale (attribuendogli conseguentemente natura di vera e propria imposta) e la riconducibilità di tale prelievo coattivo ad un assetto di tipo commutativo in base all’argomento dell’assenza di sinallagma in senso tecnico tra contribuzione e controprestazione previdenziale. Ne conseguirebbe l’asserto secondo cui tutto il fenomeno tributario ricade nell’area di operatività dell’art. 53, in contrasto con quanto ripetutamente affermato dal diritto vivente della Corte costituzionale, secondo cui l’art. 53 riguarda i soli tributi solidaristici ma non anche quelli commutativi (o, come altri preferisce dire, “paracommutativi”); perciò, secondo il Giudice di legittimità costituzionale delle leggi, ai contributi previdenziali ed assistenziali si applicherebbe l’art. 23 ma non l’art. 53 Cost.
Per un esame del quadro complessivo della nascita e dell’evoluzione della legislazione previdenziale “parafiscale” nel nostro Paese e per la dimostrazione che tale legislazione si è ispirata, con una stratificazione talvolta contraddittoria e confusa, a due opposte “rationes”: quella che giustifica la contribuzione previdenziale ed assistenziale in ragione della sua correlatività, sia pure mediata, con le prestazioni previdenziali fornite dall’ente pubblico, e quella che la farebbe operare, svincolata da queste ultime, come “contributo in funzione di tributo”, cfr. R. Braccini, Parafiscalità, in Dig. IV, sez. comm., X, Torino, 1994, pp. 447 e ss., come citato in G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, cit., p. 16, note 3 e 4.
23 M. Persiani, Diritto della Previdenza Sociale, Padova, 1994.
24 M. Persiani, Diritto della Previdenza Sociale, cit.
25 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, Parte Generale, XI ed., Milano, 2020, p. 3.
26 V. per tutti, A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 6; G.A. Micheli, voce “Diritto tributario e finanziario” in Enc. Dir., Vol. XII, Milano, 1964, pp. 1122 e ss.; A. Berliri, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 1985, pp. 3-5; L. Rastello, Diritto Tributario, Padova, 1980, pp. 3-5; G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., pp. 4 e ss.
27 In tal senso, A.D. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, VII ed., 1956; id., I concetti fondamentali del diritto tributario, cit.; A. Berliri, Principi di diritto tributario, Milano, 1967; id., Corso Istituzionale di diritto tributario, cit.
28 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 5.
29 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 6.
30 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 6.
31 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., pp. 8-9.
32 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., pp. 8-9.
33 Hegel scriveva testualmente che: “Nel diritto, deve venire incontro all’uomo la sua propria ragione; egli deve dunque considerare la razionalità del diritto, e questo è il compito della nostra scienza (…). Poiché il pensiero si è innalzato alla forma essenziale, così si deve tentare di cogliere anche il diritto come pensiero. (…) ma il verace pensiero è non opinione della cosa, bensì il concetto della cosa stessa. (…) Il pensiero del diritto non è all’incirca ciò che ciascuno ha di prima mano, bensì il corretto pensiero è notizia e conoscenza della cosa, e la nostra conoscenza deve pertanto essere scientifica” (Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio). Ed ancora: “Lo Stato in quanto spirito vivente, è soltanto come una totalità organizzata e distinta in attività particolari; le quali, procedendo da un unico concetto (…) della volontà razionale, producono questo perennemente come loro risultato. La “costituzione” è tale organizzazione del potere dello Stato. (...) La “costituzione” è la giustizia esistente come realtà della libertà nello svolgimento di tutte le sue determinazioni razionali. (…) Per quel che concerne la “libertà”, questa viene presa, più precisamente, da una parte nel senso “negativo” contro l’arbitrio estraneo e il trattamento illegale; dall’altra, nel senso “affermativo” della libertà “soggettiva”. (…) Un tempo i diritti legalmente determinati, privati e pubblici, di una nazione, di una città etc., si chiamavano le “libertà”. Infatti ogni vera legge è una libertà; giacché contiene una determinazione razionale dello spirito oggettivo, e quindi un contenuto della libertà. (…) (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Filosofia dello spirito, par. 539). Inoltre “L’organismo dello Stato (…) è lo sviluppo dell’idea alle di lei distinzioni e alla realtà oggettiva di esse. Questi distinti lati sono così i “diversi poteri” e le loro funzioni e attività, attraverso di che l’universale si produce continuativamente ed anzi, poiché essi sono determinati dalla natura del concetto, in modo necessario, e, poiché l’universale è parimenti presupposto alla sua produzione, si conserva; - questo organismo è la costituzione politica” (Lineamenti di filosofia del diritto, par. 269). Per Hegel dunque “lo Stato è la vita morale reale, calata nell’esistenza. Infatti lo Stato è l’unità del volere universale, essenziale, e del volere soggettivo, e questa unità costituisce la morale concreta. (…) Le leggi della morale concreta non sono casuali, bensì sono la ragione stessa. Il fine dello Stato è che la sostanza valga, esista e si conservi nell’agire reale degli uomini e nella loro disposizione d’animo. L’esistenza di questo complesso della morale concreta è l’interesse assoluto della ragione; qui risiedono il diritto e il merito degli eroi fondatori di Stati, per quanto quegli Stati possano essere rimasti ancora incolti. Nella storia mondiale è solo possibile parlare di popoli che formino uno Stato. Infatti bisogna sapere che uno Stato è la realizzazione della libertà, ossia del fine ultimo assoluto, che lo Stato esiste come fine in sé; inoltre bisogna sapere che tutto il valore dell’uomo, tutta la realtà spirituale, gli viene solo dallo Stato. La realtà spirituale dell’uomo sta, infatti, nel sapere in che cosa consiste la sua essenza, ovverosia nella ragione, così che la ragione abbia per lui un’esistenza oggettiva, immediata; solo così l’uomo è coscienza, solo così egli è inserito nel costume, nella vita giuridica e morale dello Stato. Infatti il vero è l’unità della volontà universale e della volontà soggettiva; nello Stato la volontà universale è contenuta nelle leggi, in disposizioni universali e razionali. (…)” (Lezioni sulla filosofia della storia. Introduzione).
Nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, Hegel sostiene che le forme giuridiche e sociali di organizzazione (collettiva) istituzionale ed associativa (e le stesse norme di diritto che le regolano) variano nel corso del tempo e costituiscono l’estrinsecazione progressiva e dialettica (dunque “dinamico-evolutiva”) di una razionalità universale che è presente (è “immanente”) nella struttura essenziale della realtà materiale oggettiva e che quindi si traduce necessariamente nella sfera storico-sociale della stessa realtà complessiva (eterna ed infinita nella sua essenza materiale); quando analizza la storia universale, Hegel scorge dunque (sia pure in modo dialettico ossia attraverso contraddizioni, contrasti, disomogeneità e differenziazioni, arretramenti provvisori ed avanzamenti che superano le contraddizioni operandone una “sintesi” razionale) un progressivo sviluppo ed un costante affermarsi della razionalità universale (che il filosofo chiama anche “spirito oggettivo”), nella forma essenziale della concretizzazione evolutiva della “libertà” come concetto razionale e reale, ossia l’evoluzione e lo stabilirsi di forme istituzionali di organizzazione sociale che garantiscono la “libertà” (individuale e collettiva) in modo sempre più ampio, completo ed universale (cioè in modo sempre più razionale); in questo senso, il concetto razionale ed il corrispondente “diritto” di libertà incorpora dialetticamente, in un’unità razionale, i suoi stessi limiti costituiti dal doveroso rispetto dell’uguale diritto di libertà altrui (incorpora, cioè, il principio del doveroso rispetto reciproco tra tutti i consociati delle sfere e dei diritti di libertà individuali e collettivi spettanti agli altri esseri viventi consociati, secondo un razionale criterio di uguaglianza universale, la cui violazione costituisce sempre un “arbitrio” illegittimo). Il diritto di libertà è quindi inteso, in senso negativo, come libertà dai comportamenti ingiustamente lesivi ed oppressivi altrui (dall’arbitrio illegittimo o illegale ed ingiusto di altri), ed in senso positivo, come libertà di agire in modo da non ledere ingiustamente la stessa libertà altrui.
34 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 9.
35 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., pp. 9-10.
36 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 10.
37 G. Falsitta, Manuale di Diritto Tributario, ult. cit., p. 10; G.B. Vico, Il Diritto Universale e Sinopsi del Diritto Universale (1720), in Opere, Milano-Napoli, 1953; “Tutte le Opere”, Milano, 1957; “Opere”, Milano, 1959; “Opere Filosofiche”, Firenze, 1971; “Opere Giuridiche”, Firenze, 1974. Per Vico, alla base di ogni istituzione umana (di ogni forma di organizzazione sociale istituzionalizzata) è sempre operante una legge universale e fondamentale (di carattere necessariamente razionale), un insieme di nozioni (giuridiche) comuni, colte nel loro concreto, effettivo e “reale” sorgere storico, nel loro incidere nel tempo, svilupparsi, scomparire e poi ancora sopravvenire in forma più evoluta e conformare intere epoche (“Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti”, 1725). Vico, nel delineare un progetto di “Diritto Universale”, approfondisce sia il giusnaturalismo (la teoria del “diritto naturale”) di Grozio e Pufendorf sia il diritto positivo, cioè delle leggi che governano l’uomo come essere sociale determinato storicamente e la sua natura universale. Vico si oppone ai teorici del diritto naturale, per i quali questo è connesso staticamente ad una ragione astratta ed immutabile, sostenendo invece che il diritto naturale è espressione di una razionalità concreta che si estrinseca in modo tendenzialmente e sostanzialmente progressivo nella realtà storica oggettiva, in un processo generale di “civilizzazione” continua (anche se “oscillante”); per Vico infatti il “diritto naturale” manifesta un duplice aspetto: è un prodotto originato da una razionalità universale ed eterna che si traduce progressivamente nel concreto ed effettivo processo storico-sociale “reale” (dunque nella realtà materiale delle organizzazioni sociali umane), e, nel contempo, esso è strettamente legato agli interessi materiali fondamentali degli esseri umani con la funzione di regolarli in modo razionale (e “giusto”). Ogni tappa storica di sviluppo del diritto manifesta sempre questa duplice natura. Il “Diritto Universale” deve dunque studiare le leggi (le norme giuridiche ed il loro ordinamento) come risposta, rimedio e limite razionale all’egoismo che caratterizza la natura “passionale” dei singoli esseri umani, facendo prevalere, sull’arbitrio irrazionale individuale, la equa “ragione” collettiva ed universale della complessiva organizzazione sociale istituzionalizzata e conciliando l’universalità e la razionalità della legge naturale con le leggi storiche positive che esistono di fatto e che di conseguenza regolano la vita civile; il filosofo, nel “Diritto Universale”, riflette dunque (anticipando sostanzialmente Hegel) su quanta razionalità è presente nella storia e su quali siano i modi in cui tale razionalità si realizza nel processo storico. In questo senso, il diritto naturale non è una struttura innata, bensì il termine di un processo reale di costante riacquisizione progressiva di un ragionevole strumento regolativo dei rapporti sociali che passa attraverso la storicità del diritto naturale delle genti nella sua essenziale struttura razionale e “comune”; quest’ultima è all’origine di tre forme di diritto: “libertà”, “dominio” e “tutela”, le quali costituiscono le tre parti della “giustizia” poste alla base di tutte le repubbliche e di tutte le leggi. Da ciò deriva che gli esseri umani si organizzano per natura in strutture sociali (cioè in strutture organizzative stabili di tipo associativo e collettivo ovvero in “società”), in cui, tramite la regolazione dei rapporti intersoggettivi operata dal diritto razionale universale, si realizza progressivamente ed in forme sempre più evolute il “vero giusto” che è poi l’“utile uguale” (aequum bonum o “bene comune equo ed uguale” ovvero “giusto” per tutti i consociati) in cui consiste lo stesso diritto naturale razionale. Tale diritto naturale è in parte dipendente dalla volontà razionale collettiva e consiste nella libertà (uguale per tutti i consociati), nel suo dominio e nella sua tutela; d’altra parte, il diritto naturale, che dipende in primo luogo dalla ragione infinita ed eterna (insita nella realtà oggettiva), conferisce la forma razionale ed eterna del “giusto” (egualitario), ossia dà la giusta ed “uguale” misura alla “libertà”, al “dominio” ed alla “tutela”. Ne consegue in definitiva che il primo principio delle leggi e della giurisprudenza è la ragione ed il secondo è l’autorità (M. Marassi, Vico, Milano, 2017, pp. 34 e ss.). Per Vico, quindi, il concetto razionale ed unitario del diritto di libertà ricomprende implicitamente il limite interno del doveroso rispetto, secondo un universale principio di uguaglianza o giustizia, degli analoghi diritti di libertà (individuali e collettivi) spettanti, in modo assolutamente paritario, a tutti gli altri consociati. All’interno di un percorso evolutivo segnato da un progresso di civilizzazione continua (ma, potremmo dire, di carattere “dialettico” ovvero contraddittorio e connotato anche da arretramenti o regressi temporanei), la storia umana giunge alla cosiddetta “età degli uomini”, in cui prevale e domina la “ragione” pienamente sviluppata, grazie alla quale gli uomini divengono consapevoli di essere tutti “uguali”: dunque Vico stabilisce l’equivalenza tra l’evoluzione storica della razionalità complessiva della realtà oggettiva (e degli esseri umani associati) e l’affermazione del principio di uguaglianza di tutti i membri della collettività sociale istituzionalizzata. In questo quadro, il diritto assume una oggettiva “funzione civilizzatrice” di natura etica e politica, dato che è inteso come un fattore razionale fondamentale necessario a consentire la coesistenza sociale (o collettiva) organizzata e l’unità della società civile contro gli elementi disgreganti delle passioni e degli impulsi irrazionali individuali: il diritto e la legislazione, per Vico, partono ed originano dalla realtà sociale e per poi risalire, per induzione (processo logico che procede dal concetto particolare a quelle generale comprensivo del primo), ad enunciati generali/universali, fondando razionalmente il potere politico e l’organizzazione sociale su un equilibrio di forza e paura (della sanzione) che tiene conto sia di un’autorità costituita legalmente, che di una continua ricerca di equità o giustizia nella situazione storica concreta (M. Marassi, Vico, Milano, 2017, pp. 47-50).
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