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Le dimore storiche vincolate possedute da privati: aspetti rilevanti della normativa tributaria

Scritto da Giuseppe Melis • lug 2023

Sintesi

L’articolo ricostruisce il quadro normativo fiscale riguardante le dimore vincolate di proprietà di soggetti privati, evidenziando il processo “involutivo” che lo ha caratterizzato in questi ultimi anni e riflettendo su possibili interventi migliorativi che lo riconducano in linea con il sistema costituzionale.


Abstract

The article deals with the tax regimes applicable to privately-owned mansions, highlighting the “involutional” process that characterized it in recent years and reflecting on possible amendments that would bring it back in line with the constitutional system.

Contenuto

1. Introduzione: la progressiva riduzione degli incentivi fiscali per i beni vincolati e la conseguente omologazione agli immobili non vincolati

Una ricognizione delle disposizioni tributarie riguardanti le dimore vincolate evidenzia subito un paradosso.

Infatti, nonostante, da un lato, la posizione preminente occupata dall’Italia a livello mondiale per importanza del patrimonio artistico – che costituisce fonte di enorme ricchezza pe il Paese per la forza attrattiva che esso esprime – e, dall’altro, il profluvio di agevolazioni fiscali in costante ascesa nonostante le periodiche dichiarazioni del legislatore di voler procedere ad un loro significativo sfoltimento, il regime fiscale agevolativo riservato alle dimore vincolate possedute da soggetti privati risulta, sorprendentemente, quello che ha forse subìto le maggiori penalizzazioni nell’ultimo decennio, se non addirittura l’unico davvero assolutamente mortificato dal legislatore.

È noto, infatti, che sino a non molti anni fa i beni vincolati di interesse storico ed artistico erano destinatari di una disciplina impositiva di favore ad ogni livello che è tuttavia progressivamente venuto meno, avvicinando sempre di più il trattamento fiscale dei beni vincolati a quello dei beni non vincolati.

Ripercorreremo di seguito questo processo “involutivo” del regime fiscale agevolativo per i beni vincolati per poi riflettere su possibili interventi migliorativi, precisando sin d’ora che non ci occuperemo dei profili relativi sia all’eventuale loro sfruttamento economico da parte dei soggetti privati, sia all’intestazione ad enti o la costituzione in trust, che pure presentano notevoli criticità che meriterebbero approfondite riflessioni.


2. Il regime speciale di cui alla L. n. 413 del 1991 e la sua finale abrogazione e sostituzione con un più tenue regime agevolativo

Tra i trattamenti di favore riservati ai beni di interesse storico artistico vincolati, spiccava la disposizione di cui al notissimo “in ogni caso” contenuto nell’art. 11, comma 2, L. n. 413 del 1991, che riferiva la determinazione del reddito alla minore delle tariffe d’estimo prevista per le abitazioni nella zona censuaria in cui il fabbricato era situato.

Si è trattato, come noto, di una disposizione che ha formato oggetto di una vera e propria battaglia nelle sedi giudiziarie ed istituzionali e che vide a suo tempo l’ADSI – e tanti dei suoi rappresentanti più illustri, che oggi non sono più tra noi – protagonista indiscussa nel difenderne l’ampia interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ne aveva infine fornito, estendendola non solo agli immobili locati, ma anche a qualsiasi uso locativo ne fosse fatto, anche non abitativo, nonostante la strenua resistenza dell’Amministrazione finanziaria.

Questa ampia interpretazione, favorita dal rilievo assorbente rivestito dall’espressione “in ogni caso” utilizzata dal legislatore, aveva resistito anche dinanzi alla sopravvenuta disposizione di cui alla L. n. 431 del 1998, che prevedeva una riduzione del 30 per cento del reddito imponibile nel caso di locazione a canone concordato anche per gli immobili vincolati, che aveva alimentato la speranza dell’Amministrazione finanziaria che essa potesse essere letta a contrario come confermativa dell’applicabilità del regime ordinario anche ai beni vincolati oggetto di locazione.

Tale era la resistenza dell’Amministrazione finanziaria da riuscire a far sollevare, caso più unico che raro, una questione di legittimità contro il contribuente da parte di una commissione tributaria per contrasto di tale regime con gli artt. 3 e 53 Cost., tuttavia rigettata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 346 del 2003 – la leggenda narra, con votazione a maggioranza di 8 contro 7 – considerandola una scelta «tutt’altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione». E ciò, secondo la Corte, anche nell’ipotesi di immobili locati, attesa la «non comparabilità della disciplina fiscale degli immobili di interesse storico o artistico con quella degli altri immobili», peraltro evidenziando l’errore compiuto dal rimettente di avere mosso dall’errato «presupposto della sostanziale omogeneità delle due categorie di beni». Ed infine giustificando la Corte il riferimento alle tariffe d’estimo «nell’obiettiva difficoltà di ricavare per gli immobili di cui si tratta dal reddito locativo il reddito effettivo, per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni».

Si trattava di una “assoluzione” molto ben motivata ma non piena, auspicando la stessa Consulta – la leggenda ancora narra, quale condizione per il voto decisivo – una nuova disciplina volta a tenere conto dell’evoluzione del mercato immobiliare e locativo nel frattempo intervenuta, nonché della disciplina, astrattamente di maggior favore, prevista per i contratti agevolati.

Tra i paladini della lotta contro tale disposizione si mise in luce soprattutto il Ministro delle Finanze Vincenzo Visco, il quale giunse persino a proporre una norma di interpretazione autentica pro Fisco approvata dal Consiglio dei Ministri – che avrebbe addirittura tassato “ora per allora” i canoni di locazione del precedente quinquennio – e che la leggenda ancora un volta narra sia “sparita” dal testo licenziato dal Consiglio dei Ministri prima del passaggio in Gazzetta ufficiale grazie all’intervento dell’allora Ministro per i Beni culturali.

La norma ha resistito così sino al 2012, quando è infine caduta quasi per caso.

Tutto nasce infatti dalla revisione delle tax expenditures nell’ambito del gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito nel 2011 dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze Tremonti con la finalità di «analizzare l’area dell’erosione fiscale, in specie l’area della amplissima forbice aperta dalla dialettica tra la regola (il principio generale dell’imposizione fiscale) e l’eccezione (la deviazione legale da questo principio, via esenzioni, agevolazioni, regimi sostitutivi di favore, etc.)».

Il Gruppo di lavoro, al quale aderirono 32 tra organizzazioni sindacali, associazioni di categoria e ordini professionali, redasse un documento finale, raccogliendo nell’Allegato 3 i contributi che alcuni dei partecipanti avevano ritenuto utile manifestare. Le uniche considerazioni – fortemente critiche – per il regime di cui all’art. 11, comma 2, cit., provennero da CONFPROFESSIONI, secondo cui «In un’ottica di maggiore trasparenza e equità fiscale non è pensabile, ad avviso degli scriventi, che possa essere mantenuto ancora il criterio della tassazione in base alla minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è situato il fabbricato, a prescindere dalla circostanza che l’immobile sia locato a canone superiore».

Il Tavolo individuò allora 720 misure elencandole e classificandole in un “ALLEGATO 1 - ELENCO DELLE MISURE E DEI REGIMI CHE DETERMINANO EROSIONE FISCALE”, tra le quali era appunto compresa anche quella qui in commento, nella specie classificata nella categoria “11. Misura volta alla tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico, paesaggistico e culturale e ad incoraggiare la ricerca e lo sviluppo” – e non già, come sarebbe stato doveroso, nella categoria “3. Misura che garantisce il rispetto di principi di rilevanza costituzionale” – e “cubata” nella modesta cifra di ca. 23,4 mln di Euro su ca. 250 mld di effetti finanziari ex post complessivamente ricondotti alle 720 misure elencate.

In occasione della predisposizione di questa relazione, ho anche rinvenuto il contributo che all’epoca proponemmo come LUISS-Ceradi in relazione a tale elenco in cui, a proposito di tale agevolazione, scrivemmo quanto segue: «L’agevolazione, per la quale il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, è determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato, quandanche quest’ultimo sia locato (come ritenuto per diritto vivente), è conseguenza della scelta, da parte del legislatore, del sistema di tassazione del reddito medio ordinario risultante dalle tariffe catastali, con l’obiettivo anche di incentivare la locazione degli immobili storico-artistici al fine di ricavarne le risorse finanziarie necessarie per far fronte agli oneri connessi alla conservazione di tali beni, in tal modo evitando la necessità di interventi statali sotto forma di sovvenzioni o espropri. Il riferimento alle tariffe d’estimo trova giustificazione anche nell’obiettiva difficoltà (evidenziata dalla giurisprudenza di legittimità), di ricavare per gli immobili di cui si tratta dal reddito locativo il reddito effettivo, per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni. Tale agevolazione ha inoltre ricevuto l’avallo sistematico della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e della Cassazione. Finalità ancora valida».

Ebbene, mentre la stragrande maggioranza di quelle 720 misure agevolative sono tuttora vigenti, ed anzi all’elenco se ne sono aggiunte nel frattempo moltissime altre, alcune delle quali presentano causali alquanto stravaganti, l’auspicio di CONFPROFESSIONI si è invece realizzato per la misura prevista per i beni vincolati di interesse storico e artistico, poiché abrogata con il D.L. 2 marzo 2012, n. 44, con sua contestuale sostituzione con una nuova modalità di tassazione dei redditi derivanti dai beni storici consistente in una deduzione forfetaria del 35% in luogo di quella del 5% ordinariamente prevista per le locazioni ordinarie.

Dinanzi alle rimostranze dei contribuenti, la Consulta è stata nuovamente chiamata in causa per valutare la legittimità di siffatta “regressione”, ritenendo però che l’avvenuta sostituzione del “regime speciale” con uno “meramente agevolato”, non solo avesse mantenuta “intatta” la differenziazione tra beni vincolati e non – e, dunque, riconosciuto ancora la loro “non omogeneità” – ma, da un lato, avesse armonizzato la tassazione delle locazioni dei beni vincolati con le modalità generali di determinazione del reddito locativo (potendosi, peraltro, fruire dell’ulteriore detrazione del 30% di cui alla L. n. 431/1998, che fa sì che la riduzione si elevi per gli immobili vincolati al 45,5% del canone annuo: Circ. n. 114/E/2012), e, dall’altro lato, si fosse inserita in un “sistema” più generale comunque di favor che prevedeva una detrazione ad hoc del 19 per cento delle spese sostenute – peraltro cumulabile al 50% con quelle previste per il recupero del patrimonio edilizio – nonché ulteriori contributi dello Stato sia per le spese di restauro, sia per gli interessi su mutui.

Va detto, ad onor del vero, che a fronte di una generale meritevolezza del regime agevolativo previgente, si verificavano anche ipotesi – si pensi agli immobili situati in zone di particolare pregio (ad es., un negozio in Via Condotti in un edificio vincolato) – in cui la sproporzione appariva davvero ingiustificata. Ma anziché intervenire chirurgicamente al fine di evitare situazioni abnormi, si è preferito cambiare completamente pagina.

In ogni caso, così stando le cose, appare ormai decisamente improbabile un ritorno al “regime speciale” quale quello previsto dalla L. n. 413/1991, mentre potrebbe semmai riflettersi su un intervento “rafforzativo” sulla percentuale di abbattimento del canone di locazione, anche se, come si dirà oltre, se ne potrebbe soprassedere valorizzando meglio la componente delle spese di manutenzione, anch’essa, come vedremo, oggetto di una recente ed assai rilevante penalizzazione.


3. Le imposte patrimoniali

Un’involuzione parallela si è registrata altresì sul fronte dell’imposizione patrimoniale, la quale era strettamente connessa al regime speciale di cui alla L. n. 413 del 1991 appena ricordato.

Il riferimento alla minore delle rendite catastali previste per le abitazioni della zona censuaria in cui insisteva il fabbricato, trovava infatti applicazione – non per effetto di un rinvio alla L. n. 413/1991, bensì per effetto di una sua sostanziale riproduzione nell’ambito dell’art. 5, comma 2, D.L. n. 16/1993 – anche alla base imponibile ICI, la quale risultava, per tale via, fortemente ridotta.

A partire dal 2008 era poi stata disposta l’esenzione per la prima abitazione, la quale aveva visto, tuttavia, l’esclusione degli immobili in A/1, A/8 e – per quanto qui specificamente di interesse – A/9; tale esclusione, come si dirà ingiustificata, non appariva tuttavia costituire, in considerazione dell’applicabilità in ogni caso della minore tra le tariffe d’estimo, un onere di entità particolarmente rilevante.

Sennonché, con l’introduzione nel 2012 dell’IMU, è venuta meno la determinazione speciale della base imponibile, sostituita dalla rendita catastale effettiva, riconoscendosi per gli immobili storici una riduzione della base imponibile del 50%, che, pur rappresentando un importante indice di attenzione del legislatore per tale categoria di beni, conduce, in ogni caso, ad una imposizione di gran lunga superiore rispetto a quella originariamente prevista.

Resta, soprattutto, l’assurdità dell’esclusione dall’esenzione per le abitazioni principali degli immobili in categoria catastale A/9 che, ancorché non obbligatoria per ogni immobile che formi oggetto di vincolo, compatibile anche con categorie catastali diverse da quelle escluse dall’esenzione per la prima abitazione, si traduce in un carico impositivo assai gravoso per i relativi proprietari, con il risultato paradossale per cui le dimore storiche subiscono una discriminazione negativa rispetto a tutti gli altri immobili. Discriminazione, questa, che si palesa in violazione dell’art. 9 della Costituzione, recante il principio di doverosa tutela del patrimonio storico-artistico, non potendosi sostenere che tale tutela sia garantita da una norma che sottopone le dimore storiche ad una tassazione da cui sono invece esenti tutti gli immobili “ordinari”.

Ma, ancora a monte, è la stessa esclusione di tutte abitazioni censite in A/1, A/8 e A/9 ad essere di assai dubbia legittimità costituzionale, soprattutto in un sistema di classificazione catastale che si presenta, come noto, “a macchia di leopardo” e pertanto si palesa del tutto inidoneo a fornire una attendibile fotografia degli immobili censiti.

È peraltro interessante rilevare che, recentemente, la Cassazione (n. 6266/2023) ha riconosciuto la possibilità di cumulare le riduzioni IMU per la soggezione a vincolo storico-artistico e quella per lo stato di inagibilità (dunque, riducendo del 50% l’imposta già ridotta del 50%), nel primo caso rilevando la volontà del legislatore «di sgravare i proprietari di questi dagli ingenti costi di ristrutturazione a cui sono soggetti», nel secondo caso quella di «venire incontro ai proprietari che, per cause ad essi non imputabili, non possono utilizzarli».

Dunque, ancora una volta riconoscendo la speciale natura di questa categoria di beni.


4. Le imposte sui trasferimenti

Anche le imposte sui trasferimenti hanno formato oggetto di una sensibile riduzione delle agevolazioni originariamente riconosciute.

A fronte dell’originaria applicazione dell’imposta di registro sui trasferimenti nella misura del 3%, a seguito della riforma della tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso di cui all’art. 10, D.Lgs. n. 23/2011 e all’art. 26, D.L. n. 104/2013 (conv. in L. n. 128/2013) e a decorrere dal 1.1.2014 il trasferimento degli immobili vincolati è soggetto ad imposta di registro nella misura del 9%, con applicazione delle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa.

A tale ultimo riguardo, peraltro, si era posto il problema circa la tassazione in misura fissa ovvero proporzionale ai fini delle imposte ipotecarie e catastali ante modifica, da ultimo risolto dalla Cassazione, a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. n. 185/2008, in senso favorevole ai contribuenti (Cass., n. 32598/2021) ancora una volta mettendo in evidenza la natura “speciale” di tali beni, in particolare rilevando che «d’altra parte, un regime “di favore” nei confronti delle compravendite di immobili di interesse storico, artistico ed architettonico si giustifica, sul piano della ratio legis, alla luce delle soggezioni di tali beni ad una serie di limitazioni nel loro uso, che vanno dal divieto di demolizione, modifica e/o restauro, senza la previa autorizzazione del Ministero dei beni culturali, al divieto di adibire gli stessi ad usi incompatibili con il loro carattere».

Per quanto attiene all’inasprimento dell’imposta di registro appena evidenziato, ci si è effettivamente domandati se con riferimento ad una imposta, qual è quella del registro, che fa riferimento al valore del bene, si giustifichi un diverso trattamento tra immobili vincolati e non, giungendosi ad avanzare al riguardo dubbi derivanti sia dal fatto che, gravando tale imposta tendenzialmente sul compratore, quest’ultimo dovrebbe essere compensato per gli oneri ed i pesi che si appresta a dover affrontare, sia dall’incidenza che i vincoli hanno sul valore venale del bene. Al tempo stesso, la stessa rimozione di ostacoli alla circolazione dei beni culturali potrebbe favorire il raggiungimento degli obiettivi di tutela del patrimonio culturale, consentendo ai beni di transitare più agevolmente ad un proprietario che sia in grado di sostenere le notevolissime spese manutentive che essi comportano.

Resistono, dunque, rispetto al passato, solo più l’esclusione dall’attivo ereditario dei beni culturali (art. 12, D.Lgs. n. 346/1990), ancorché alle rigide condizioni ivi previste; e l’applicazione in misura fissa dell’imposta sulle donazioni aventi ad oggetto i medesimi beni. Ferma restando, in entrambi i casi, l’applicazione in misura proporzionale delle imposte ipotecarie (2%) e catastali (1%).

Ci si potrebbe naturalmente chiedere il motivo di questa diversa considerazione impositiva del trasferimento a titolo gratuito rispetto a quello a titolo oneroso, posto che il soggetto che acquista l’immobile “vincolato” potrebbe paradossalmente essere considerato maggiormente meritevole di ricevere un’agevolazione rispetto all’erede o donatario, poiché, diversamente da questi ultimi, ottiene l’immobile vincolato a seguito di un sacrificio patrimoniale.

Sotto questo profilo, l’imposizione proporzionale di registro meriterebbe, pertanto, di essere rivista ripristinando la misura agevolativa originaria ma alle stesse condizioni previste per i trasferimenti a titolo gratuito in specie riguardanti l’avvenuto rispetto, da parte del dante causa, degli obblighi di conservazione, sì da incentivare sotto ulteriore profilo il sostenimento dei rilevanti costi di manutenzione imposti dalla legge.


5. I "bonus" e le detrazioni per attività edilizie

Nessuna speciale considerazione hanno infine ricevuto i beni vincolati in occasione dei vari bonus, e ciò sia per l’Art bonus – che esclude i beni di proprietà privata – sia per i bonus edilizi – facciate, ecobonus, sismabonus e superbonus – per i quali non soltanto è stato escluso il cumulo con la detrazione speciale prevista dall’art. 15, lett. g), t.u.i.r., ma è stata esclusa altresì la fruibilità, per il superbonus, in relazione agli immobili censiti nelle categorie A/1, A/2 e – per quanto qui di interesse – A/9, salvo poi solo successivamente prevedere per questi ultimi l’estensione ancorché limitatamente a quelli aperti al pubblico.

Ma la stessa detrazione di cui all’art. 15, lett. g), t.u.i.r., ha subìto una pesante amputazione a seguito dell’art. 1, co. 629, L. n. 160 del 2019, dal momento che ai sensi del nuovo comma 3-bis dell’art. 15, la detrazione spetta: a) per l’intero importo qualora il reddito complessivo non ecceda 120.000 Euro; b) per la parte corrispondente al rapporto tra l’importo di 240.000 Euro, diminuito del reddito complessivo, e 120.000 Euro, qualora il reddito complessivo sia superiore a 120.000 Euro.

Ciò significa che se si supera un determinato reddito la detrazione inizia a decrescere proporzionalmente sino ad azzerarsi, facendo così svanire completamente il vantaggio dell’assenza di limiti quantitativi alla detrazione che caratterizza l’art. 15. Poiché una detrazione “elevata” ha un senso solo in presenza di redditi elevati, ma questi ultimi ne precludono alla radice la fruizione, siamo dunque in presenza di un sostanziale impedimento al sostenimento di tali spese.


6. Considerazioni di sintesi

La questione di fondo riguarda, come noto, la speciale natura di questi beni, sì di proprietà privata, ma di rilevanza o evidenza pubblica, poiché oggetto di un complesso normativo di limitazioni e vincoli che li pongono su di un piano completamente diverso da quello degli immobili che a tali limitazioni e vincoli non sono sottoposti. Viene così meno quella pienezza di facoltà propria del diritto di proprietà – perché il proprietario non può alienare il bene se non dopo aver consentito l’esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato, è tenuto a conformarsi alle prescrizioni impostegli dall’Ente pubblico, deve sottoporre ogni intervento edilizio al più penetrante giudizio di conformità della Sopraintendenza (art. 21, D.Lgs. n. 42/2004), è tenuto a garantire la conservazione dei beni storici (art. 30, D.Lgs. n. 42/2004), non può adibirli ad usi non compatibili con il loro carattere storico-artistico in mancanza di autorizzazione ad hoc – facendo così emergere una vera e propria funzione sociale della proprietà di questi beni.

E, come visto, si tratta di una particolarità costantemente riconosciuta sia dalla Corte costituzionale, sia dalla Corte di cassazione tutte le volte in cui esse sono state chiamate a pronunziarsi sui regimi agevolativi riguardanti i beni vincolati, costantemente collegati all’esigenza di compensare (parzialmente) gli oneri conseguenti al vincolo di conservazione, dovendo ad una proprietà “diversa” corrispondere un regime fiscale “diverso”.

Ebbene, il quadro normativo sopra ricostruito mostra, all’evidenza, una forte “regressione” rispetto ai trattamenti agevolativi originariamente concessi e una progressiva “equiparazione” dei beni vincolati ai beni non vincolati – se non addirittura un trattamento deteriore, con riguardo al classamento in categoria A/9 – che confligge radicalmente con il regime vincolistico sopra ricordato, sicché, anziché prendere atto del pesante onere di custodire un determinato bene e tramandarlo alle generazioni future, il legislatore lo ritiene piuttosto un privilegio.

In questo senso, è indubbio che le attuali misure non consentono ai proprietari di ottenere un adeguato ristoro per i maggiori oneri di manutenzione da essi sopportati, tanto più che, come visto, la stessa detrazione del 19% dei costi sostenuti, il cui unico pregio stava nell’assenza di limiti quantitativi – ma che in ogni caso presupponeva una adeguata imposta dalla quale scomputare la detrazione – è ormai di fatto impedita dai limiti reddituali imposti alla relativa fruizione.

Sicuramente, le misure “migliorative” di più facile giustificazione che potrebbero essere attuate, attengono:

  1. all’estensione dell’Art bonus anche agli edifici di proprietà privata, non giustificandosi una discriminazione rispetto al coinvolgimento di altri soggetti privati interessati alla tutela di un bene culturale in ragione della loro intestazione;

  2. all’eliminazione dei limiti reddituali alla fruizione della detrazione del 19% ex art. 15 t.u.i.r.;

  3. alla cumulabilità di siffatta detrazione del 19% con le altre agevolazioni edilizie, sulla scia di quanto già fatto con l’art. 16-bis, t.u.i.r., se non addirittura la previsione di una detrazione specifica “rafforzata” sia quantitativamente, in considerazione degli oneri considerevolmente superiori che gli interventi sul patrimonio vincolato comportano, sia qualitativamente, in considerazione del fatto che gli standard previsti per i bonus edilizi non sono sempre compatibili con le caratteristiche costruttive degli edifici vincolati;

  4. alla revisione dell’imposizione di registro sui trasferimenti di immobili vincolati, ripristinandola nella misura del 3% a fronte della dimostrazione della corretta conservazione del bene.

Il rafforzamento sul fronte della detrazione per le spese sostenute farebbe peraltro venire meno, come si anticipava, l’ipotesi di un intervento di rafforzamento sul fronte della detrazione forfetaria per i canoni di locazione, mentre resterebbe ferma la questione dell’imposizione patrimoniale, su cui, dunque, pure si rende necessario un intervento, non giustificandosi, neanche costituzionalmente, il mantenimento dell’imposizione per le abitazioni principali in edifici di categoria A/9.


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