Scritto da Fabio Fiduccia • nov 2024
Questo saggio, tralasciando per quanto possibile l’aspetto tecnico della questione, affronta il regime fiscale italiano delle cripto-asset dopo la Legge di Bilancio 2023 analizzandone le principali criticità; nello specifico, a partire dai contributi letterari più recenti e rilevanti. Inoltre, nella parte finale, si svolgeranno alcune riflessioni sia sulle future sfide fiscali imposte dal metaverso, inclusa la questione circa l’esistenza di un valore digitale imponibile, sia sulla non crisi nascosta del meccanismo di tassazione giurisdizionale derivante da fattori immateriali e, quindi fenomeni a-territoriali.
PAROLE CHIAVE: Regime fiscale italiano delle cripto-attività (fiscalità diretta e indiretta), metaverso, Distributed Ledger Technologies, sistema peer to peer, valore digitale.
This essay, leaving out as far as possible the technical side of the matter, deals with the Italian crypto-asset tax regime after 2023 Budget Law by analysing its main critical issues; specifically, starting from the most recent and relevant literature contributions. Furthermore, at the end, it will carry out some thoughts both on the future tax challenges imposed by the metaverse, including the question about the existence of a taxable digital value, and on no hidden crisis of the jurisdictional taxation mechanism arising from immaterial and, therefore, a-territorial phenomena. . KEYWORDS: Italian crypto-asset tax regime (direct and indirect taxation), metaverse, Distributed Ledger Technologies, peer to peer system, digital value.
1. La natura reddituale dei proventi scaturenti da cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di crypto-asset nel reddito delle persone fisiche non esercenti attività d’impresa
Per un ampio arco temporale, nonostante alcuni tentativi formali e informali, l’interesse fiscale sui crypto-asset e, in particolare, sulle criptovalute (come crypto-asset principale) non è stato ancorato ad alcuna disciplina legislativa. Siffatto trattamento, secondo il parere di chi scrive, deve essere ragionevolmente ricondotto ad un quadro causale a doppia matrice. Innanzitutto, è evidente che la materia sia avviluppata da un consistente strato tecnico che ha impedito al legislatore di annullare immediatamente il gap normativo. D’altro canto, era indispensabile comprendere, con tutte le difficoltà del caso, dove dovesse annidarsi l’interesse fiscale ma soprattutto la natura giuridica di questa nuova manifestazione di capacità contributiva. Fino a dicembre del 2022, sulla natura di tali redditi si è assistito ad un periodo di grande incertezza che venne colmato, molto limitatamente, dai pareri dell’amministrazione finanziaria. Gli interventi dell’ente impositore non riuscirono, però, a sedare le varie dispute qualificatorie della dottrina che, ad un certo punto, invocarono l’intervento del legislatore al fine di cristallizzare l’opportuno genus teorico.
Alla mancanza di una certezza giuridica ed ai dibattiti dottrinali si aggiunge la controversa conformazione dell’ordinamento italiano relativa ai redditi provenienti dall’impiego di capitale. Nonostante parecchi ordinamenti optino per una onnicomprensività reddituale l’ordinamento domestico non ha abbandonato l’atavico dualismo tra redditi da capitale e redditi diversi di natura finanziaria a causa di alcune concezioni teoriche relative alla tassazione del risparmio e dell’investimento.1 La distinzione presente nell’ordinamento italiano si deve alla differente funzione del capitale nella produzione di reddito finanziario. Infatti, nei redditi da capitale (disciplinati dagli artt. 44 e seguenti del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, di qui in avanti t.u.i.r.) l’impiego di denaro o altri beni producono reddito in modo statico. Al contrario, i proventi classificati come redditi diversi di natura finanziaria si distinguono per il loro carattere aleatorio e dinamico, quindi speculativo. Ad ogni modo, occorre precisare che si tratta di una scissione puramente teorica poiché sia con D.Lgs. n. 461 del 1997 sia con la Legge 14 settembre 2011, n. 148, e con la Legge 24 aprile 2014, n. 95, almeno dal punto di vista impositivo, si è verificata una certa omogeneizzazione. In passato si susseguirono a distanza di pochi anni diversi tentativi di riforma, si ricordano la Legge delega 7 aprile 2003, n. 80, e la proposta di riforma della Commissione Guerra istituita nel 2006 in seno al MEF nel corso del XV legislatura. Alle proposte menzionate, che a ben vedere non andarono a buon fine, si aggiunse l’encomiabile contributo dell’Associazione Italiana dei Professori e Studiosi di Diritto Tributario nel 2016 nell’ambito di un progetto di ricerca dal titolo “Il sistema tributario: prospettive di riforma”.2 Purtuttavia, la questione è adesso affrontata dal punto n. 1 dell’art. 5, comma 1, lettera d), della delega fiscale (Atto Camera 1038-B) che chiede al Governo: «l’armonizzazione della relativa disciplina, prevedendo un’unica categoria reddituale mediante l’elencazione delle fattispecie che costituiscono redditi di natura finanziaria, con riferimento alle ipotesi attualmente configurabili come redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria, e prevedendo norme di chiusura volte a garantire l’onnicomprensività della categoria».
Come detto, fino a dicembre del 2022 – soprattutto in relazione alle criptovalute – alla mancanza di un sostrato legislativo solido dovettero sopperire le interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate (d’ora in avanti AdE) in risposta agli interpelli proposti dai contribuenti.3 Tali risposte, oltre a non assurgere in alcun modo ad una disciplina generale, si limitarono, non con poche difficoltà, a delineare sommariamente il trattamento fiscale dei crypto-asset su fattispecie personali e concrete presentate dai contribuenti.
Questo lungo periodo di incertezza giuridica sembrava essere giunto al termine con la presentazione al Senato della Repubblica del Disegno di Legge 30 marzo 2022, n. 2572 (più comunemente conosciuto come D.d.L. “Botto”) della senatrice Elena Botto intitolato: “Disposizioni fiscali in materia di valute virtuali e disciplina degli obblighi antiriciclaggio”.4 La crisi del Governo Draghi e il conseguente scioglimento delle camere non hanno permesso alla Commissione Finanze e Tesoro, cui era stato affidato il testo, l’esame delle disposizioni proposte. All’indomani del crollo del Governo Draghi si presumeva che il nuovo Governo ripercorresse buona parte del sentiero già tracciato dal disegno di legge “Botto”.5 Invece, e per l’ascesa di una nuova maggioranza parlamentare e per una rivalutazione dell’approccio alla materia, così non è stato.
La Legge 31 dicembre 2022, n. 197 (Legge di bilancio per l’anno 2023) ha completamente stravolto il costrutto teorico del D.d.L. “Botto” che contemplava le plusvalenze da cessione di criptovalute alla stregua di quelle da cessione o rimborso di valute e, quindi, condividendo l’orientamento dell’AdE espresso nelle ultime risoluzioni antecedenti alla nuova regolamentazione. Tra le novità della Legge di bilancio per il 2023 si riscontra un netto mutamento di prospettiva che mira ad affrontare non più esclusivamente la materia delle criptovalute ma, in generale, quella dei crypto-asset. Il legislatore estrae dall’alveo delle plusvalenze in operazioni aventi ad oggetto le valute estere quelle originate da cessione a titolo oneroso di crypto-asset plasmando, di fatto, una nuova species di redditi diversi di natura finanziaria. Il comma 126 dell’art. 1 della Legge 197/2022 recita: «all'articolo 67, comma 1, in materia di redditi diversi, dopo la lettera c-quinquies) è inserita la seguente: «c-sexies) le plusvalenze e gli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate, non inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d'imposta».
Prima di proseguire la trattazione, mi si conceda di chiarire che gli obiettivi del presente lavoro non ci consentono di scandagliare rigorosamente le ragguardevoli distonie tra il D.d.L. “Botto” e la nuova disciplina fiscale sulle criptovalute che meriterebbero, con tutta certezza, un attento esame da svolgersi in separata sede.
Ora, si noti che la Legge di bilancio riprende interamente la definizione di crypto-asset del Regolamento UE 2023/1114 (Regolamento MiCA o “Markets in Crypto-Assets”).6 Sul piano euro-unitario il Regolamento MiCA ha segnato una tappa normativa di significativo rilievo, come sostiene il Considerando 1 del regolamento, per: «garantire che gli atti legislativi dell’Unione in materia di servizi finanziari siano adeguati all’era digitale e contribuiscano a creare un’economia pronta per le sfide del futuro e al servizio delle persone, anche consentendo l’uso di tecnologie innovative». Il Regolamento MiCA, nello specifico, dispone:
a) gli obblighi di trasparenza e informativa per l’emissione, l’offerta al pubblico e l’ammissione di cripto-attività alla negoziazione su una piattaforma di negoziazione per cripto-attività (“ammissione alla negoziazione”);
b) i requisiti per l’autorizzazione e la vigilanza dei prestatori di servizi per le cripto-attività, degli emittenti di token collegati ad attività e degli emittenti di token di moneta elettronica, nonché per il loro funzionamento, la loro organizzazione e la loro governance;
c) i requisiti per la tutela dei possessori di cripto-attività nell’emissione, nell’offerta al pubblico e nell’ammissione alla negoziazione di cripto-attività;
d) i requisiti per la tutela dei clienti di prestatori di servizi per le cripto-attività;
e) le misure volte a prevenire l’abuso di informazioni privilegiate, la comunicazione illecita di informazioni privilegiate e la manipolazione del mercato in relazione alle cripto-attività, al fine di garantire l’integrità dei mercati delle cripto-attività.
La grande ampiezza della definizione adottata dalla Legge di bilancio 2023 permette di intercettare e tassare i “capital gain” generati da tutti gli altri crypto-asset diversi dalle criptovalute. Per quanto attiene al capitolo della struttura del prelievo fiscale sulle plusvalenze dalla cessione di crypto-asset valgono, come per tutti gli altri redditi diversi di natura finanziaria, i tre regimi canonici: regime dichiarativo, regime del risparmio amministrato e regime del risparmio gestito. Inoltre, in tema di monitoraggio fiscale, il legislatore con lo stesso atto legislativo sopracitato ha modificato l’art. 4, comma 1, del Decreto-Legge 28 giugno 1990, n. 167, imponendo ai soggetti residenti in Italia non esercenti attività d’impresa che detengano crypto-asset in Italia o all’estero, a prescindere dal loro valore, l’obbligodi indicazione nel quadro RW della dichiarazione. La Circolare 30/E/2023 specifica che: «anche le cripto-attività possano rientrare nelle previsioni di esonero dal monitoraggio fiscale di cui al comma 3 dell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990, il quale stabilisce che gli obblighi di indicazione nella dichiarazione dei redditi non sussistono per le attività finanziarie e patrimoniali affidate in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti e per i contratti comunque conclusi attraverso il loro intervento, qualora i flussi finanziari e i redditi derivanti da tali attività e contratti siano stati assoggettati a ritenuta o imposta sostitutiva dagli intermediari stessi». Ne consegue, perciò, che l’onere dichiarativo discende dal mancato esercizio dell’opzione per uno dei regimi fiscali opzionali di cui agli artt. 6 e 7 del D.Lgs. n. 461 del 1997 da parte del contribuente. La mancata compilazione del Quadro RW determina l’irrogazione di una sanzione amministrativa il cui importo varia in base alle disposizioni di cui all’articolo 5, comma 2, del Decreto-Legge n. 167 del 1990. Per le criptovalute vale l’orientamento che l’AdE ha fornito con la Risoluzione 788/E/2021 secondo la quale il valore che il contribuente è tenuto a dichiarare annualmente nel quadro RW dovrà corrispondere al prezzo di mercato indicato dal sito ove ha effettuato l’acquisto (che difficilmente non risulterà presente all’interno del portale). Per la determinazione della plusvalenza, che deve essere iscritta nella dichiarazione annuale al Quadro RT, il comma 9-bis dell’art. 68 del t.u.i.r. non sovverte in toto i principi che erano stati enucleati dalle risoluzioni dell’AdE, semmai oltre a cristallizzare tali precetti ne arricchisce il contenuto. La plusvalenza sarà data dalla differenza tra il valore normale dei crypto-asset ceduti e il prezzo di acquisto. Un differenziale negativo ossia una minusvalenza per un importo superiore a 2000 euro può essere portata in deduzione delle plusvalenze realizzate non oltre il quarto periodo d’imposta successivo. Sul fronte della determinazione del valore dei crypto-asset in casi particolari come l’acquisizione per successione o donazione la norma assume rispettivamente come prezzo di acquisto il «valore definito o, in mancanza, quello dichiarato agli effetti dell’imposta di successione» o il «costo del donante». In ogni caso, il legislatore, quasi volendo sigillare questo frammento normativo sancisce che «il costo o valore di acquisto è documentato con elementi certi e precisi a cura del contribuente; in mancanza il costo è pari a zero». Rispetto alle previsioni di cui al comma 6 dell’art. 68 del t.u.i.r., il comma 9-bis non permette di sommare al prezzo di acquisto dei crypto-asset ogni altro costo inerente (come ad esempio bolli, commissioni, imposte, con esclusione degli oneri finanziari).
Poi, come nel D.d.L. “Botto”, la permuta o “crypto-to-crypto trades” non rileva ai fini fiscali eccetto quando le criptovalute scambiate non abbiano le stesse caratteristiche.7
2. Reddito d’impresa e crypto-asset: dal dibattito sulla corretta rappresentazione in bilancio delle cripto-attività a talune gravi lacune della riforma
L’incipit di questo secondo paragrafo, a mio giudizio, attrae quasi sistematicamente un paio di premesse di non poco conto ed alle quali non è possibile sottrarsi. In prima battuta, è chiaro che anche per gli esercenti attività d’impresa l’interesse fiscale si colloca preminentemente sul maggiore valore generato dalla cessione a titolo oneroso di cripto-attività che, in osservanza delle previsioni di cui all’art. 81 del t.u.i.r., costituirà reddito d’impresa. Oltre a ciò, come per le persone fisiche che non svolgono attività d’impresa, le variazioni di valore positive e negative attribuibili all’andamento delle cripto-attività non concorrono alla formazione della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi.8 Mentre, la Circolare 30/E/2023 dell’AdE, richiamando il cap. V della relazione illustrativa della legge di bilancio per il 2023,9 evidenzia che «resta fermo che nel momento in cui le cripto-attività sono permutate con altri beni (incluse altre cripto-attività) o cedute in cambio di moneta avente corso legale, la differenza tra il corrispettivo incassato e il valore fiscalmente riconosciuto di tali cripto-attività concorre alla formazione del reddito di periodo, rappresentando tali eventi dei realizzi sul piano fiscale». Al termine di questa breve premessa iniziale si intende fare presente anche l’insussistenza di obblighi dichiarativi per i soggetti che esercitano attività d’impresa rispetto ai soggetti di cui all’art. 4 comma 1 del Decreto-Legge 28 giugno del 1990, n. 167.10
Come detto, per le persone fisiche non esercenti attività d’impresa il dibattito della dottrina si è prevalentemente assestato sulla qualificazione reddituale di tali proventi; invece, per i soggetti esercenti attività d’impresa il nodo qualificatorio è stato semplicemente “trasferito” su un altro fronte: l’appropriata rappresentazione in bilancio delle cripto-attività. Quello che, però, emerge dall’analisi del rapporto tra reddito d’impresa e cripto-attività è la duplice utilità che tali risorse possono assumere per i soggetti che esercitano attività imprenditoriali. Naturalmente, questo fattore, come anticipato, non può esimersi dal produrre alcuni effetti di natura puramente contabile. Sul tema dell’adeguata classificazione in bilancio di questi asset immateriali, la Circolare 30/E/2023 osserva che «né i principi contabili nazionali (OIC) né quelli internazionali (IAS/IFRS) contengono una definizione di cripto-attività (e, dunque, non disciplinano una specifica modalità di rilevazione delle stesse)». Ciò posto, la rilevazione di qualsivoglia crypto-asset in bilancio dovrà scontare l’estensione analogica di fattispecie già circoscritte dai principi contabili internazionali (IAS/IFRS) o nazionali (OIC) che meglio riproducono la singola cripto-attività da imputare a bilancio. A riguardo, l’IFRS-Interpretation Committee con l’Interpretation paper nel marzo del 2019- a differenza dell’Organismo Italiano di Contabilità- ha fornito alla comunità scientifica ufficiali milestone interpretative11 che scartano, in primis, l’applicabilità dello IAS 32 concernente le attività finanziarie.12 Le ipotesi prospettate dalla commissione interpretativa sono quelle attinenti alle immobilizzazioni immateriali13 (IAS 38) o alle rimanenze (IAS 2). L’inserimento nell’una o nell’altra categoria non è arbitrario ma dipende dalla destinazione economica che il detentore attribuisce alle cripto-attività. L’imputazione di quest’ultime nella sezione delle immobilizzazioni dello stato patrimoniale presuppone una netta separazione tra la ratio detentiva ed il core business cui è rivolta l’attività imprenditoriale. In senso inverso, se l’oggetto dell’attività d’impresa avesse una inequivocabile connessione con la detenzione di cripto-attività si dovrà optare per la loro catalogazione all’interno delle rimanenze.14 Lo stesso ragionamento va riportato per i principi contabili nazionali; rispettivamente, gli equivalenti nazionali dello IAS 38 e dello IAS 2 sono OIC 24 e OIC 13. In via del tutto residuale, nella misura in cui non vi fossero stati gli opportuni equivalenti OIC degli IAS sopramenzionati, nel rispetto dell’OIC 11, si sarebbero potuti applicare i principi contenuti nei corrispettivi IAS.15 Allo schema risolutivo proposto dall’IFRS-IC, preso atto del dettato normativo di cui all’art. 83 del t.u.i.r.,16 ne consegue che qualora la destinazione economica delle cripto-attività imponesse la loro iscrizione nelle rimanenze tale imputazione dovrebbe avvenire al minore tra il costo sostenuto17 e valore netto di realizzo.18 In ultima analisi, allorché l’attività d’impresa non intrattenga alcun rapporto con la detenzione di questi asset digitali l’imputazione tra le immobilizzazioni immateriali dovrà essere effettuata con il criterio del costo sostenuto.19 Comunque, in entrambi i casi, il costo di acquisto di cripto-attività dovrà figurare tra i costi nel conto economico valutato secondo le disposizioni dell’art. 110 del t.u.i.r.
Giunti a tal punto, si ritiene opportuno ravvisare che i chiarimenti/indicazioni esposti dall’IFRS-IC hanno suscitato non poche perplessità in dottrina a partire dal 2020. Tali questioni, a ben vedere, erano già di agevole prevedibilità sia per l’incremento del tasso di strutturazione di questi strumenti che divengono sempre più complessi sia per il loro essenziale tratto distintivo: l’immaterialità. Infatti, tra le prime significative contestazioni rivolte all’interpretazione diffusa dall’IFRS-IC v’è la qualificazione delle cripto-attività tra le rimanenze; l’appartenenza di questi asset al metaverso, secondo l’Association of International Certified Professional Accountants,20 scredita la tesi avallata dall’IFRS-IC. Nel 2022, sul piano della classificazione tra le immobilizzazioni, una volta verificata la destinazione economica assunta da tali asset, si è espresso l’International Accounting Standard Board21 che ha lamentato l’inadeguatezza della suddetta qualificazione riscontrando l’inequivocabile natura finanziaria di parecchi crypto-asset; tra l’altro, secondo quanto esaminato a inizio paragrafo, proprio la natura finanziaria o di disponibilità liquida era stata negata dall’IFRS-IC. Dall’analisi delle critiche affiora certamente un dato piuttosto eloquente; le tesi suggerite dall’IFRS-IC sembrano voler ricondurre, utilizzando il principio della destinazione economica, a schemi concettuali dell’ordinamento calibrati per entità ontologicamente diverse, pur condividendo qualche marginale affinità, dalle cripto-attività.22
In ragione di ciò, è auspicabile, quanto prima, una presa di posizione da parte del legislatore che possa unitamente dirimere anche la mancanza di disciplina per le operazioni crypto to crypto. Il rischio per gli esercenti attività d’impresa, in questo ultimo caso, sarebbe quello di far concorrere alla determinazione della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi operazioni di permuta dalle quali le parti di una transazione non traggono alcun tipo di vantaggio che possa definirsi “economico” o indice di una nuova utilità.23
3.
Al primo posto, per importanza, tra le altre forme impositive che insistono sui crypto-asset v’è l’imposta sul valore aggiunto. Secondo l’ormai nota Circolare 30/E/2023 dell’amministrazione finanziaria, la stessa Agenzia delle Entrate, nelle sue delucidazioni, dichiara che al momento «le cripto-attività non sono oggetto di specifiche disposizioni in ambito IVA» ragion per cui diviene «inevitabile far riferimento alla best practice internazionale, rappresentata in primis dal Rapporto OCSE sulle cripto-valute del 12 ottobre 2020 e dalle Linee Guida del Comitato Iva della UE, cui si aggiungono la giurisprudenza unionale e il comportamento seguito dagli altri Stati così da delineare dei principi generali condivisi al fine di limitare le disparità di trattamento tra Stati membri e l’erosione di base imponibile IVA». Tuttavia, ciò non significa che l’imposta sul valore aggiunto non si applichi ai crypto-asset. La disorganicità che regna sull’imposta indiretta per antonomasia induce ad una verifica dei presupposti del prelievo attraverso un approccio caso per caso che predilige la sostanza sulla forma.24 Ora, come si vedrà, la disciplina IVA delle cripto-attività differisce tanto in base alla tipologia della cripto-attività quanto al fine perseguito dal detentore delle stesse. Infatti, quando i crypto-asset ricoprono il ruolo di moneta virtuale criptata è fondamentale comprenderne la sua funzione all’interno di una operazione: rappresentano un mezzo di pagamento o sono oggetto di una conversione in valuta fiat?
Nella prima ipotesi i crypto-asset vengono impiegati come corrispettivo o mezzo di pagamento contrattuale accettato volontariamente dalle parti di una transazione.25 L’art. 13, comma 4, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (a seguire, “Decreto IVA”) prescrive che in questa circostanza il valore in euro dei crypto-asset deve essere determinato «al cambio del giorno in cui l’operazione è effettuata o, in mancanza di tale indicazione nella fattura, del giorno di emissione della fattura. In mancanza, il computo è effettuato sulla base della quotazione del giorno antecedente più prossimo». Nel secondo caso la CGUE26 equipara il cambio di valuta a corso legale (fiat) ad una moneta virtuale alla fattispecie di cui all’art. 135, lettera e) della Direttiva IVA 2006/112/CE che esenta da IVA le prestazioni di servizi aventi ad oggetto «le operazioni relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio». Nell’ordinamento italiano, viceversa, l’esenzione relativa alle prestazioni di servizi è stata trasfusa in modo decisamente più restrittivo. L’art. 10, comma 1, n. 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dispone l’esenzione dall’IVA per «le operazioni relative a valute estere aventi corso legale e a crediti in valute estere, eccettuati i biglietti e le monete da collezione e comprese le operazioni di copertura dei rischi di cambi». Sulla scorta dell’estesa prospettiva della Direttiva IVA, l’AdE con la risoluzione del 2016 assimila il cambio tra valute fiat e criptovalute alle prestazioni di servizi esenti di cui all’art. 10, comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 633/1972; facendo così sorgere una considerevole antinomia tra la norma estesa, riferita a “valute estere aventi corso legale”, e lo status giuridico delle criptovalute. La transazione avente ad oggetto lo scambio tra criptovalute e valuta a corso legale sono, a detta della già menzionata sentenza della CGUE (cfr. parr. da 36 a 39), «operazioni finanziarie, benché non debbano essere necessariamente effettuate tramite banche o istituti finanziari27».
Oltre a ciò, si rammenta che il Comitato IVA dell’Unione europea o “Vat committee” ha condiviso codeste conclusioni ai parr.3 e 4 delle “Guidelines resulting from the 120th meeting of 28 March 2022 - 1045”. All’esenzione sulle operazioni di cambio tra valuta tradizionale e valuta virtuale criptata sono annessi i proventi legati all’attività di mining o staking (ossia il compenso per la validazione della transazione e l’inserimento della stessa all’interno del circuito blockchain) nonché le commissioni per i servizi di digital wallet. In ogni caso, qualora le operazioni non fossero realizzate a titolo oneroso o si dissolvesse il carattere sinallagmatico28 verranno catalogate come “operazioni fuori campo IVA”.
Veniamo poi, brevemente, alla disciplina IVA dei “token” ossia crypto-asset nati per assolvere anche funzioni diverse da quelle di pagamento. I token o “gettoni”, una sequenza di dati registrati su un sistema DLT (Distributed Ledger Technologies), naturalmente la a cui più diffusa applicazione è la blockchain, incorporano un diritto o un valore.29 Tali gettoni sono tradizionalmente divisi in “Fungible Token“ (FT) o “gettoni fungibili” e “Non Fungible Token“ (NFT) o “gettoni non fungibili”. Sulla differenza tra criptovalute e token rappresentativi di moneta virtuale criptata è sufficiente, ai nostri propositi, tenere a mente che le criptovalute sono iscritte su una blockchain dedicata mentre i token sfruttano una blockchain esistente. Per questa ragione, quest’ultimi non possono essere minati o estratti in quanto frazioni di bitcoin già registrati.
La platea di token offerti dal mercato si è vertiginosamente allargata nell’ultimo quinquennio, dai security token agli utility token fino agli hybrid token. Quando vengono adoperati come uno strumento di pagamento oppure siano oggetto di una operazione di scambio con valute a corso legale si applicherà la disciplina riportata nei periodi precedenti. Dell’esenzione IVA di cui all’art. 10, primo comma, n. 4, godono anche i security token se fungono da strumenti di investimento al pari delle azioni, obbligazioni e titoli ivi indicati.30 Altra categoria, senza dubbio molto intrigante, è quella degli utility token. Quest’ultimi vengono impiegati per reperire finanziamenti in moneta a corso legale o in criptovalute che saranno destinati all’esecuzione di progetti imprenditoriali, esempio tipico è quello degli ICO o “Initial Coin Offering”. Alle elargizioni effettuate dai finanziatori corrispondono o l’accesso agli outcomes del progetto (anche sottoforma di NFT) oppure criptovalute o token. Il fascino di questa species di token non si ripercuote anche sul successo che ha riscosso nel settore imprenditoriale, si tratta di una categoria di token quantomai marginale o residuale e che soffre la nascita degli hybrid token. La natura giuridica di questi “gettoni di utilità” sembrerebbe essere quella di un coupon o voucher. In effetti, queste prime impressioni sono state convalidate dalle risposte agli interpelli prodotte dall’ente impositore. La risposta 14/2018 assimila i gettoni di utilità, in tema di imposta sul valore aggiunto, ai voucher ed estende, conseguentemente, la regolamentazione contenuta nella Direttiva UE 2016/1065 (nota come Direttiva Voucher) recepita con il Decreto Legislativo 29 novembre 2018, n. 141. In merito ai token che si discostano dai lineamenti dei voucher non sarà possibile applicare la medesima disciplina e, anche in questa occasione, si dovrà ricorrere ad una analisi case by case. Si pensi che alcuni gettoni di utilità all’atto della loro emissione sono inopinabilmente configurabili come buoni corrispettivi ma in itinere possono mutare il loro status per volere del possessore o per il verificarsi di alcune condizioni.31 I gettoni ibridi, di conclamata versatilità, tentano di soddisfare le svariate esigenze dei propri destinatari. La natura degli hybrid token, stando alla Circolare 30/E/2023 dell’Agenzia delle Entrate, è cangiante. Essi possono assumere, nello stesso tempo, le tipologie di gettoni sinora discusse nonché la natura di “titoli di legittimazione” di cui all’art. 2002 del codice civile (la cui cessione non comporta una cessione di beni o prestazione di servizi).32 Ad ogni buon conto, la difficoltà nell’individuazione del corretto trattamento IVA da applicare a questi token non è affatto di lieve entità. L’OCSE33 e il Comitato IVA34 dell’UE raccomandano un approccio basato sulla singola transazione, laddove possibile.
La seconda galassia che occupa l’universo dei token è quella dei c.d. “Non Fungible Token” o “gettoni non fungibili/copiabili”. Si può agevolmente intuire che l’asset incorporato dal token sia qualcosa di unico e non interscambiabile. Difatti, il bene che il gettone rappresenta è un diritto (contenuto in uno smart contract legato all’NFT) su un asset fisico (c.d. “asset off chain”) o digitale (c.d. “asset on chain”) iscritto su una catena a blocchi. Sotto la lente fiscale, quando le parti di una transazione sono interessate al solo NFT (per finalità speculative) si applica la disciplina riservata ai servizi resi tramite mezzi elettronici di cui all’articolo 7 del Regolamento 282/2011/UE, lettera a) ossia la fornitura di prodotti digitali in generale. Il momento impositivo si realizza all’atto del pagamento come per qualsiasi prestazione di servizi. Qualora le parti fossero interessate anche al sottostante (quest’ultimo può o meno circolare parallelamente all’NFT in base allo smart contract che a livello giuridico, nella dimensione reale, non produce alcun effetto per alcune categorie di beni che non possono circolare fisicamente attraverso regole diverse da quelle sancite dall’ordinamento)35 la disciplina IVA applicata sarà quella prevista in base alla natura del sottostante (bene o servizio fisico o digitale);36 non si stigmatizza, comunque, l’estensione della disciplina dei voucher per la cessione di un NFT. 37In definitiva, le transazioni aventi ad oggetto crypto-asset possono essere transazioni che rientrano nel campo IVA a vario titolo (operazioni imponibili, non imponibili ed esenti) o che non afferiscono al campo IVA.
La Legge 197/2022 (Legge di bilancio per il 2023) ha modificato l’art. 13, comma 2-ter (e la nota 3-ter), parte prima della Tariffa allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972 estendendo l’imposta di bollo alle comunicazioni periodiche relative alle cripto-attività verso i clienti. La base imponibile è costituita dal valore delle cripto-attività (desunto dal rendiconto annuale) o dal valore al 31/12 o, in via residuale, dal costo di acquisto. La nota 3-ter fissa un tetto massimo dell’imposta per tutti i soggetti detentori di crypto-asset diversi dalle persone fisiche a 14.000 euro. Da segnalare è che anche nella misura in cui non ricorra alcun obbligo di comunicazione annuale ai clienti, per l’intermediario finanziario l’imposta dovrà essere comunque assolta. E, comunque, ad ogni apertura o chiusura di rapporti con l’intermediario finanziario in proporzione al periodo rendicontato. Il pagamento può avvenire attraverso contrassegno telematico rilasciato al cliente oppure in modo virtuale ai sensi dell’art. 4, comma 1, del D.M. 24 maggio 2012.38 L’art. 13, comma 2-ter, del D.P.R. 642/1972 dispone che l’imposta dovrà essere applicata da tutti i soggetti che «a qualsiasi titolo esercitano sul territorio della Repubblica l’attività bancaria, finanziaria o assicurativa39».
Al ventaglio dei prelievi del fisco che cingono la sfera dei crypto-asset si aggiunge l’imposta sul valore delle cripto-attività (IVCA). Sempre la Legge di bilancio per il 2023 ha operato alcune modifiche al comma 18 dell’art. 19 del Decreto-Legge 6 dicembre 2011, n. 201 denominato “Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici” e convertito con la Legge 22 dicembre 2011, n. 214. Il rinnovato comma dell’art. 19 stabilisce che: «A decorrere dal 2023, in luogo dell’imposta di bollo di cui all’articolo 13 della parte prima della tariffa allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642, si applica un’imposta sul valore delle cripto-attività detenute da soggetti residenti nel territorio dello Stato senza tenere conto di quanto previsto dal comma 18-bis del presente articolo». Immediatamente, da una prima lettura del dettato normativo potrebbe levarsi qualche interrogativo circa il coordinamento tra l’imposta di bollo, dianzi esaminata, e quest’altra forma di prelievo. Invero, l’imposta di cui trattasi si riferisce ai soli soggetti residenti nel territorio dello Stato non gravati dall’imposta di bollo ossia quando i crypto-asset siano depositati presso intermediari non residenti o archiviate su chiavi USB, personal computer e smartphone. La base imponibile è data dal valore dei crypto-asset al termine di ciascun anno solare che risulti dalla piattaforma di acquisto o, in via residuale, il prezzo indicato in marketplace specializzati o quello originario all’atto dell’acquisto. Si rinvengono, peraltro, parecchie similitudini tra la disciplina dell’imposta di bollo e quella sulla detenzione delle cripto-attività: dalla proporzionalità dell’imposta al periodo di detenzione,40 la misura massima per i soggetti passivi diversi dalle persone fisiche41 ma anche i criteri da osservare per l’individuazione della corretta base imponibile. La disciplina attribuisce, altresì, al contribuente residente nel territorio dello Stato un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero fino a concorrenza dell’imposta domestica. Poi, nonostante la norma nulla prescriva circa la nozione di residenza fiscale da impiegare ai fini dell’applicazione dell’IVCA, l’opinione più diffusa in dottrina propende per quella utilizzata per le imposte sui redditi. Infine, il silenzio della norma interessa senz’altro la deducibilità dell’imposta dal reddito d’impresa; tuttavia, dovrebbe estendersi il divieto di cui al comma 1 dell’art. 99 del t.u.i.r.42
La sequela delle imposte incombenti a vario titolo sulle cripto-attività termina con l’imposta sulle successioni e donazioni. L’art. 1 del Decreto Legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) configura come presupposto del prelievo i «trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi». Le cripto-attività, anche quelle detenute presso prestatori di servizi residenti nel territorio dello Stato di cui all’articolo 3, comma 5, lettere i) e i-bis), del D.Lgs. n. 231 del 2007 o archiviate su qualsivoglia supporto di archiviazione sono comprese tra i beni e diritti “particolari” dell’attivo ereditario poiché diversi da quelli contemplati dall’art. 9, comma 2 e dall’art. 14 fino all’art. 18 del Testo Unico. Talché la loro base imponibile collima con il valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione43 o alla data della donazione44 che sia indicato dalla piattaforma di acquisto o qualsiasi altro marketplace abilitato alla negoziazione di crypto-asset. L’imposta si applica anche se il de cuius oppure il donante siano residenti all’estero limitatamente ai beni situati nel territorio dello Stato. Per converso, si considera il principio della residenza assoggettando a tassazione i beni ancorché “esistenti” all’estero.
4.
Nei paragrafi precedenti non sono stati volutamente affrontati, eccetto in qualche caso, i significativi e non occulti vulnus che affliggono la recente novella del legislatore; ciò in favore di una analisi organica che possa mettere a sistema queste lacune normative e accendere ulteriori spunti di riflessione.
In primo luogo, si ritiene opportuno esplicitare che la riforma si contraddistingue per la presenza di fragilità eterogenee nelle quali non si registra una particolare e continua interconnessione. Invero, le criticità più rilevanti di questo intervento normativo sembrano essere alcune contraddizioni di fondo che, tra l’altro, reggono la tassazione diretta sui crypto-asset. Il legislatore, seguendo una logica del tutto enigmatica, ora scinde la dimensione economica reale con la dimensione economica digitale ed ora le ricompone. Queste scelte si riflettono all’istante sul posizionamento dell’imposizione fiscale su quei fatti espressivi di “ricchezza nuova”. In altre parole, come si osserva nella maggior parte dei casi, per il legislatore si configura un “nuovo valore tassabile” quando un valore esistente sul mero piano digitale supera i confini della sfera immateriale producendo ricchezza nuova. A livello pratico è quello che accade con la cessione a titolo oneroso di crypto-asset in cambio di valuta a corso legale (fiat). Come anticipato, però, la disciplina inverte questa tendenza quando si tratta di tassare i rewards per l’attività di mining o staking che si concretizza solo a livello digitale.45 Poi, il legislatore torna rapidamente sui suoi passi attribuendo neutralità fiscale alla permuta tra crypto-asset aventi stesse caratteristiche e funzioni. Non si può di certo negare che si è innanzi ad una regolamentazione contraddittoria sia per la portata delle sue statuizioni sia per talune incongruenze rispetto ai fenomeni oggetto della disciplina. In più, la riforma è totalmente sprovvista di parametri indispensabili per valutare quando, in una operazione di permuta, i crypto-asset abbiano le stesse funzioni e caratteristiche. Questa incertezza è stata anche denunciata dalla dottrina più accorta46 la quale ha paventato il rischio di una «inapplicabilità della previsione normativa». Quel che è certo è che lo scambio tra crypto-currencies ed NFT (Non Fungible Token), come afferma la Relazione illustrativa al D.d.L. di Bilancio 2023 (Atto Camera 643) del 29 novembre del 2022, genera nuovo valore.47
Il mosaico raffigurante l’agglomerato dei vulnus della recente disciplina fiscale si compone almeno di altri tre tasselli: l’esclusione dei costi relativi alla transazione dalla quale proviene la plusvalenza nella determinazione della base imponibile, il problema dell’onere documentale di cui al comma 9-bis dell’art. 68 del t.u.i.r. in capo al contribuente e l’annosa controversia sulla qualificazione giuridica dei crypto-asset.
Procedendo secondo l’ordine dell’ultimo periodo, il legislatore al comma 9-bis dell’art. 68 del t.u.i.r. lascia intendere che non è ammesso lo scomputo dei costi della transazione dalla quale deriva la plusvalenza. Invece, il comma 6 del medesimo articolo ne consente la deduzione dal corrispettivo percepito dalla cessione di titoli, valute e partecipazioni. In forza di ciò, non sono facilmente comprensibili le reali volontà del legislatore; sul punto la dottrina ha osservato che «ragioni di natura sistematica inducono a ritenere che gli oneri inerenti alla produzione di plusvalenze e minusvalenze debbano essere scomputati anche per le cripto-attività48». Difatti, se il legislatore avesse voluto precludere siffatta possibilità al contribuente, seguendo un percorso logico, lo avrebbe fatto esplicitamente; come per i compensi scaturenti dalla detenzione di cripto-attività, ad esempio quelli riconosciuti dai marketplace per l’attività di staking. Per quanto concerne la questione dell’onere documentale di cui al medesimo comma 9-bis dell’art. 68 del t.u.i.r. il legislatore sembra non essere a conoscenza oppure trascurare scientemente il fatto che la conclusione di una operazione avente ad oggetto cripto-attività non comporta il rilascio di alcuna documentazione che attesti il costo o valore di acquisto di tali asset.49 L’impossibilità del contribuente di produrre una valida documentazione che certifichi il costo di acquisto comporterà, in osservanza del succitato articolo, l’azzeramento del costo di acquisto; la base imponibile coinciderà, dunque, con il corrispettivo percepito o con il valore normale della cripto-attività permutata.
Il terzo e ultimo punto, come accennato, verte sulla natura giuridica dei crypto-asset che è stata da sempre protagonista dei grandi dibattiti dottrinali. In estrema sintesi e senza alcuna pretesa di esaustività, considerando le finalità del presente lavoro, reputo anzitutto che le conclusioni della dottrina prevalente condivisibili o non condivisibili prendano le mosse dalla considerazione delle cripto-attività quali entità immateriali. Esse vengono impiegate tradizionalmente, com’è noto, come mezzo di scambio, per finalità speculative o per costituire diritti (reali o relativi) su beni virtuali o reali. In tutti gli ordinamenti continentali e non solo si registra una qualificazione giuridica largamente disomogenea, tra gli inquadramenti più diffusi vi sono: beni giuridici, commodities property, strumenti finanziari e no financial assets. La dottrina domestica ha convenuto, in linea di massima, per l’inserimento delle cripto-attività tra i beni giuridici.50 Certo, il dibattito che ha condotto ad un simile risultato si è dovuto confrontare con un ormai antiquato impianto civilistico che, forse, si è rivelato – nonostante la sua età – più elastico di quanto ci si potesse attendere. La predetta dinamicità viene dissipata allorquando la lettura del codice sia suggestionata da vetusti retaggi interpretativi impiegati dagli operatori del diritto. L’incorporalità dei crypto-asset, come anche degli intangibile-asset, ha rappresentato un ostico banco di prova per l’ordinamento civilistico da sempre ancorato alla logica e alla prospettiva dei codici ottocenteschi. Quest’ultima, soprattutto per via della collocazione della disposizione all’interno del codice, si fondava sull’idea che sono beni giuridici soltanto le cose materiali che possono formare oggetto di diritti. Tale interpretazione, che addirittura per “diritti” riteneva si dovessero intendere i soli diritti reali, veniva smentita dallo stesso codice civile che garantisce protezione giuridica a beni notoriamente privi di consistenza materiale come il diritto di credito e l’azienda. La dottrina, in assenza di una specifica previsione normativa, dovette arrendersi anche nel far rientrare nel termine “diritti” i soli diritti reali. Ancora, la stigmatizzazione dei diritti relativi avrebbe prodotto pesanti ripercussioni quali l’esclusione dalla categoria di beni giuridici di tutte le entità materiali oggetto, ad esempio, di diritti di credito; qualcosa di irreale. In via del tutto collaterale si discusse parimenti sull’equiparazione dei diritti (considerati come asset immateriali) ai beni giuridici nel caso in cui i diritti stessi fossero oggetto di ulteriori diritti. Seppure il dibattito sulla questione non si sia concluso del tutto51 l’art. 813 del codice civile assimila i diritti, equiparando le discipline, ai beni giuridici sciogliendo teoricamente ogni dubbio a riguardo.
In conclusione, a far da involucro a questo weaknesses cluster riscontrato nell’attuale disciplina fiscale in materia di cripto-attività, v’è l’indagine sull’esistenza del c.d. “digital value” o nuovo valore digitale (nonché sul suo ipotetico rilievo fiscale) e di come esso possa raccordarsi con l’universo dei crypto-asset. Siffatto nuovo valore digitale, dal lato delle attività d’impresa (è bene chiarirlo), è di esclusiva pertinenza delle sole attività economiche volte alla produzione di beni o servizi immateriali. Sicché, tale connotato, si erge spontaneamente a fattore discretivo rispetto a tutte quelle attività economiche che si servono, al contrario, di piattaforme e strumenti digitali per la commercializzazione di beni e servizi materiali. Ebbene, il luogo in cui il valore viene creato, elaborato e trasferito è la vera linea di demarcazione tra le due fattispecie sopracitate.52 Andando per gradi, l’accertamento sulla sussistenza di questo nuovo valore digitale richiede, naturalmente, il richiamo sugli sviluppi inerenti al rapporto tra processo di creazione del valore e tassazione. L’OCSE, prima dell’Interim Report53 del 2018, impiegava il concetto di “creazione del valore” nel progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) del 2013 (compresi i suoi relativi updates) come meccanismo per ostacolare la dislocazione dei profitti conseguiti da gruppi di imprese verso giurisdizioni con un regime fiscale di vantaggio.54 Successivamente, il citato Interim Report (dedicato ai nuovi orizzonti della fiscalità alla luce delle nuove sfide imposte dalla digitalizzazione delle attività economiche) ha iniziato a trattare la value creation anche per le attività digitalizzate aprendo difatti le porte alla congettura di un valore digitale.55 In realtà, non si può nascondere che il progetto BEPS persegua anche l’obiettivo, seppure in modo tacito ed embrionale, di identificare – qualora ciò sia possibile – una nuova manifestazione di ricchezza tassabile da imputare alle attività digitali. Né è prova l’action 1 del Final Report riservato unicamente alle conseguenze economiche di questi evoluti modelli di business. Nella dottrina domestica non si rinvengono posizioni di ferma condanna della tesi negazionista ma si segnala che sia nell’Interim Report sia negli atti successivi non sia stato enucleato alcun significato di value creation.56 In ogni caso, la value creation come mezzo allocativo della tassazione ha perso vigore nelle recenti politiche OCSE e, in particolare, nello Statement on a Two-Pillar Solution to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy del 2021. Quest’ultimo sostituisce il c.d. “production-based paradigm” del Pillar One con il “destination-based paradigm” mediante il quale il c.d. “residual profit” delle attività digitalizzate57 dovrebbe essere tassato in base alla sua destinazione o giurisdizione di emersione. Secondo un’autorevole e attenta dottrina58 le cause degli avvenimenti esposti nel periodo precedente dovrebbero essere attribuite alla c.d. “trappola della giuridicità”. Notoriamente, i sistemi impositivi internazionali si fondano su una architettura giurisdizionale o territoriale che richiede un qualche espediente che giustifichi il legame tra profitti e territorio; una localizzazione giurisdizionale, per l’appunto. Orbene, si può giustamente percepire come la value creation, oltre a ricalcare a tutta evidenza la ratio equitativa59 del suddetto precetto, «ammanta di giuridicità la questione allocativa del valore60». Le ragioni che hanno indotto l’OCSE a virare ex abrupto su un altro paradigma impositivo sarebbero, pertanto, scevre da motivazioni basate, ad esempio, sull’eticità del sistema giurisdizionale. Semmai, si dovrebbe ammettere che il vero problema ha radici giuridiche. In generale, gli ordinamenti fiscali seguono schemi difficilmente conciliabili con queste nuove forme di business che, come se non bastasse, sono ontologicamente inette ad essere cristallizzate in definiti confini giuridici. Orbene, la celere diffusione delle cripto-attività e le definizioni ad esse attribuite61 hanno, giocoforza, nuovamente riacceso i riflettori sulla plausibile esistenza di un digital value di cui, comunque, dev’essere individuato un apposito iter generativo. Su questo ultimo versante, preso atto che la questione sia puramente riservata alla teoria economica e degli obiettivi del contributo, il presente scritto si limiterà a fornire qualche indicazione in merito.62
Sicuramente, vi sono alcuni interrogativi dai quali questa riflessione finale deve iniziare a prendere forma; su molti dei quali, va detto, non sarà semplice, per diverse ragioni, prospettare idonee soluzioni. Per prima cosa, come asse centrale di questa disamina, bisogna chiedersi se questo valore digitale (attestata la sua ontologia) possa essere considerato una nuova forma di ricchezza. In altri termini, se la detenzione o lo scambio di beni digitali possano ingenerare utilità intesa come idoneità alla soddisfazione di bisogni o interessi conferendo al titolare posizioni di vantaggio sociale. In merito, non si discute sul fatto che i beni digitali dimostrino, nella sostanza, la stessa fisionomia funzionale dei beni materiali espressa nell’ultimo periodo; piuttosto, quello che manca, è la loro ascrizione formale (rectius giuridica) tra gli indici di capacità contributiva. In questa circostanza, nuovamente, si ritorna alla questione della c.d. “trappola della giuridicità”. È notorio che l’ordinamento tributario contempli come indici tipici di disponibilità alla contribuzione: il reddito, i consumi, il patrimonio (ed i suoi incrementi) e gli affari; tra l’altro, come riscontrato in precedenza, adottando una dimensione squisitamente territoriale e materialistica. Supporre la sussistenza di una nuova espressione di capacità contributiva del tutto diversa da quelle sopracitate significherebbe tassare le cripto-attività prima che, eventualmente, esse si trasformino in una delle espressioni di ricchezza tradizionale; e, quindi, valichino i confini del digitale per approdare alla dimensione reale.63 La Legge 197/2022 si è limitata, come si è visto non con poche ombre, a sugellare l’interesse del fisco sulle cripto-attività senza occuparsi, però, in modo diretto della rilevanza fiscale di questo nuovo digital value. Pertanto, la posizione del legislatore tributario su questo tema è ritraibile solamente dall’assetto impositivo statuito dalla legge di bilancio. E, da questo punto di vista, la disciplina in vigore a partire dal 2023, mostrandosi molto altalenante, non consente di decifrare pienamente l’approccio del legislatore sull’argomento che ne occupa. Ciononostante, parrebbero deporre per la tesi del valore digitale le imposte sulla detenzione delle cripto-attività e le operazioni di crypto to crypto trade aventi diverse caratteristiche e funzioni (supra, § 1). A far da contraltare a siffatti segnali che propendono in senso affermativo del tema che ne occupa v’è l’irrilevanza fiscale della permuta tra crypto-asset aventi medesime proprietà. Quest’ultima disposizione appare intrisa di una certa illogicità allorquando le cripto-attività oggetto della transazione, pur avendo identiche caratteristiche e funzioni, non siano inidonee a generare nuovo valore per una delle due parti. In buona sostanza, tralasciando per un attimo l’opaco framework fin qui discusso, il concreto riconoscimento giuridico del digital value rappresenta, oggi, una delle prospettive o sfide della fiscalità futura. Quel che è certo è che, per definizione, l’approccio a questa materia non può avere una dimensione domestica motivo per il quale, segnatamente per quella ricchezza digitale che non trasmodi in ricchezza reale, è «metodologicamente non corretta la scelta di disciplinare una tassazione “italiana” delle cripto-attività64». Un futuro accreditamento ufficiale del valore digitale in sé quale manifestazione di idoneità contributiva o ability to pay,65 sia chiaro, comporterà la risoluzione preventiva di alcune implicazioni di fondo. Da un lato, aspetto di prim’ordine, il meccanismo mediante il quale si legittimi uno Stato a tassare giustificandone il concorso alle spese pubbliche; atteso che sarà molto difficile applicare il principio del luogo nel quale siffatto valore si generi (rectius dove siano allocati asset, rischi e funzioni secondo la logica del production-based paradigm).66 È per questo che, a mio avviso, questo consueto criterio dovrà essere ricalibrato in funzione della ricchezza del metaverso. Lungo questa traiettoria si è mosso qualche esponente della dottrina sulla scia della teoria di matrice anglosassone del “benefit principle”. In particolare, la dottrina che ha avanzato tale proposta intende costruire un meccanismo di assoggettabilità fiscale del valore digitale basato sulla proprietà dell’infrastruttura all’interno della quale questo valore nasce;67 sempre ammesso che sia possibile tracciare il momento generativo. Ad ogni buon conto, anche in questo caso, non ci troviamo di fronte una soluzione immune da fragilità sistemiche; Si pensi, a titolo di esempio, che oltre a porsi l’esigenza di progettare adeguati software capaci di localizzare le transazioni che si perfezionino all’interno dei confini infrastrutturali nazionali68 rimarrebbe sempre il problema dello spettro transnazionale della maggior parte delle operazioni aventi ad oggetto cripto-attività. Cosicché, ai fini impositivi, sarebbe indispensabile che questi, al momento fantomatici, sistemi di localizzazione digitale della transazione riuscissero ad accertare in quale network il valore sia stato effettivamente creato e, soprattutto, da chi. Dall’altro lato, infine, sarà requisito essenziale la definizione dell’oggetto e delle modalità del prelievo. Tra i topics che occupano il periodo precedente quello della base imponibile suscita particolare interesse. Quasi paradossalmente, se fin qui è stata asserita l’esistenza e la rilevanza fiscale di una nuova espressione di ricchezza (quella del metaverso) il valore di quest’ultima (sul quale verrà calcolata l’imposta) sarà tradotto in moneta e, dunque, in ricchezza tradizionale.69 In tal modo, riferendoci alle criptovalute quale unità di conto in cui sono espressi la stragrande maggioranza degli asset virtuali, il valore digitale non assurgerebbe -sotto questo profilo- nella sua interezza a ricchezza istituzionalmente riconosciuta quanto qualunque altra moneta fiat. Ciò che hic et nunc è stato constatato, in fin dei conti, non ha affatto una sfumatura ossimorica; anzi, è dato dal fatto che le crypto-currencies, sorte proprio per fungere da antitesi al sistema di pagamento tradizionale, non avrebbero nemmeno i requisiti essenziali per svolgere le funzioni di moneta a corso legale ossia: riserva di valore, unità di conto e mezzo di scambio.70 La loro estrema volatilità71 congiuntamente, se vogliamo, alla logica che soggiace alla loro ragion d’essere inibisce ipoteticamente, ab origine, l’assolvimento della funzione di moneta a corso legale.
Complessivamente, le questioni e le rispettive perplessità esposte dipendono ora dal fatto che la novella del 2023 pecca (non di rado) di esaustività/linearità72 ed ora dal nostro ordinamento, oltremodo risalente per regolare fenomeni a-territoriali e materialmente inconsistenti.73 Allora, per concludere, merita assoluta condivisione l’auspicio, già diffuso in letteratura, di una definitiva presa in carico di siffatti problemi da parte dei regolatori internazionali di guisa che si possa ottenere un piano di intervento comune.
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1 Si consulti diffusamente in merito MARINELLO A., Redditi da capitale e diversi di natura finanziaria, Giappichelli Editore, Torino, 2018.
2 Studi dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario a cura di CASTALDI L., CORASANITI G., “Per un’ipotesi di definizione dei ‘redditi finanziari’ quale distinta categoria di reddito originatasi dall’unificazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria” (progetto di ricerca “Il sistema tributario: prospettive di riforma”), Aracne, 2016, p. 38.
3 Cfr. MASTELLONE P., Redditi derivanti da operazioni in criptovalute: profili di fiscalità sostanziale e adempimenti dichiarativi a carico dei contribuenti, in Riv. tel. dir. trib., 2021. L’amministrazione finanziaria nella Risoluzione 72/E/2016 asseriva addirittura che al di fuori dell’attività d’impresa le operazioni “a pronti” di criptovalute “non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”. Successivamente, con la Risoluzione n. 956-39/2018 l’AdE manifesta un parere parzialmente discordante sulle questioni affrontate nei precedenti interventi. Da un lato conferma le opinioni della risoluzione del 2016 mentre dall’altro, per i soggetti non in regime di attività d’impresa, rimanda alla categoria dei redditi diversi di natura finanziaria con riguardo alle operazioni in valuta estera (per le quali sono previsti limiti quantitativi e soglie temporali affinché si realizzi la plusvalenza). La Risoluzione n. 788/2021 non scardina l’orientamento precedente bensì lo arricchisce sostenendo che per «la determinazione della plusvalenza dovrà essere utilizzato il prezzo di acquisto delle valute acquistate in data più recente». Il prezzo di vendita di riferimento per stabilire il valore corrente delle criptovalute dovrà essere quello applicato dal sito nel quale il contribuente ha effettuato l’acquisto o, in mancanza, il prezzo del sito utilizzato maggiormente dal contribuente. Codesto criterio, come sottolinea l’amministrazione finanziaria, si applicherà sia alle operazioni a termine sia in quelle “a pronti”.
4 Per approfondimenti si consulti MARINELLO A., Un “cripto-condono” e molti nodi irrisolti nel disegno di legge sulla disciplina fiscale delle valute virtuali, in Riv. tel. dir. trib., 2022, pp. 765 e ss.
5 Il D.d.L. era composto da una coppia di articoli, il primo riportava la definizione di criptovalute e le previsioni in materia antiriciclaggio mentre il secondo articolo regolava il trattamento fiscale per le sole persone fisiche. Dalla lettura del secondo articolo affiora un inquadramento reddituale composito delle plusvalenze scaturenti dalle criptovalute. Infatti, l’art. 2, comma 1, lettera a) del disegno di legge inserisce tra i redditi da capitale l’acquisto gratuito a qualsiasi titolo di criptovalute mentre la lettera b) dispone tra i redditi diversi di natura finanziaria le plusvalenze da cessione a titolo oneroso di valute virtuali. Nel preambolo ai due articoli il D.d.L. stabilisce che non rileverà in alcun modo ai fini fiscali il c.d. “crypto-to-crypto trades” ossia la permuta tra criptovalute che non testimonia, almeno perora, alcuna nuova manifestazione di “capital gain”.
6 Il Considerando 3 del Regolamento MiCA definisce i crypto-asset come «una rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente, utilizzando la tecnologia di registro distribuito o una tecnologia analoga».
7 Art. 1, comma 126, lettera a), ultimo periodo, Legge 197/2022. La Circolare 30/E/2023 enfatizza che “costituisce, invece, una fattispecie fiscalmente rilevante come permuta ad esempio l’acquisto di un NFT con una cripto-valuta”.
8 Così com’è stato modificato dal comma 131 dell’art. 1 della Legge di bilancio per il 2023 attraverso l’inserimento del comma 3-bis all’art. 110 del t.u.i.r. La medesima disciplina è prevista dal comma 132 della Legge 197/2022 per quanto attiene ai valori positivi o negativi dei crypto-asset ancorché transitati dal conto economico ai fini della corretta determinazione della base imponibile IRAP di cui al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. Per una ampia trattazione dei contenuti della novella si segnala TOMASSINI A., La recente regolamentazione fiscale delle cripto-attività nella legge di bilancio, in CARDELLA P.L. - DELLA VALLE E. - PAPARELLA F. (a cura di), Tributi, economia e diritto nel metaverso, Pisa, 2023, pp. 219 e ss.
9 Link URL: https://documenti.camera.it/leg19/pdl/pdf/leg.19.pdl.camera.643.19PDL0013120.pdf
10 Nello specifico: le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici ed equiparate ai sensi dell'articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi.
11 Sebbene l’Interpretation paper si riferisca alle sole crypto-currencies il suo contenuto è stato ritenuto estensibile ai crypto-asset in generale. In tal senso PIERRO M., Contributo all'individuazione della nozione di crypto asset e suoi riflessi nell'ordinamento tributario nazionale, in Rass. trib., 2022, 3, p. 596.
12 Così facendo, l’IFRS-Interpretation Committee esclude categoricamente una collocazione tra le disponibilità liquide o tra gli strumenti finanziari delle cripto-attività e adduce la penuria di precipui requisiti: l’impossibilità di configurarle come risorse aventi una natura liquida, strumenti rappresentativi di capitale di un’altra entità nonché come diritti a ricevere disponibilità liquide o scambiare attività/passività finanziarie. Sul punto si veda GIORGI S., Cripto-attività, tra polimorfismo e dubbi qualificatori in materia fiscale, in Riv. dir. trib., 2019, par. 6.
13 I paragrafi 8 e 12 dello IAS 38 circoscrivono il concetto di immaterialità affermando nell’ordine che una risorsa immateriale è «an identifiable non-monetary asset without physical substance» e «an asset is identifiable if it is separable or arises from contractual or other legal rights». L’inconsistenza fisica e, quindi, l’impossibilità di scindere la risorsa unitamente all’origine contrattuale o legale di un diritto appaiono come le fondamenta teoriche che sorreggono il concetto di immaterialità condiviso dallo IASB (International Accounting Standards Board). Quest’ultimo, a conferma di quanto è stato appena enfatizzato, non esita a locupletare le argomentazioni inserite nella parte iniziale dello IAS 38 spiegando che un asset è scindibile sole se «is capable of being separated or divided from the entity and sold, transferred, licensed, rented or exchanged, either individually or together with a related contract, identifiable asset or liability».
14 Va da sé che tale esegesi interessa tutti gli intermediari di crypto-asset, coloro che svolgono abitualmente attività mining o staking (o, in ogni caso, tutti i soggetti che ricevono rewards per l’espletamento di operazioni di validazione di transazioni su blockchain) e wallet providers. Cfr. PIERRO M., Le cripto-attività e l’imposizione diretta dopo la legge di bilancio 2023, in RAGUCCI G., a cura di, Fisco digitale. Cripto-attività, protezione dei dati, controlli algoritmici, Torino, 2023, pp. 11 e ss.
15 Per un maggiore approfondimento sul punto si consulti FUNARI A., Osservazioni [de iure condendo] in tema di tassazione diretta delle criptovalute, in Giur. imp., 2022, 4, pp. 74 e ss.
16 I fenomeni valutativi o di quantificazione, stando al tenore letterale dell’art. 83 del t.u.i.r., rimangono estranei al principio di derivazione rafforzata rimandando alle regole del t.u.i.r. Invero, la sterilizzazione della rilevanza fiscale delle variazioni positive e negative delle cripto-attività in bilancio (comma 3-bis dell’art. 110 del t.u.i.r.) operata dalla Legge 197/2022 attenua i limiti che il legislatore ha corrisposto al principio di derivazione rafforzata dal lato dei criteri valutativi delle poste in bilancio.
17 Il costo sostenuto dovrà essere inserito a conto economico; si rammenta, a mo’di doverosa integrazione, che nell’esercizio corrente i crypto-asset saranno rilevati nello stato patrimoniale tra le rimanenze finali. Di contro, nell’esercizio successivo tra le rimanenze iniziali.
18 Per i commodity brokers traders si ritiene che la rilevazione in bilancio possa essere effettuata al “fair value” ossia al valore corrente di tali attività al netto dei costi di vendita.
19 In argomento PIERRO M., La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute, in Riv. dir. trib., 2020, pp. 103 e ss.
20 AICPA, Accounting for and auditing of digital assets, 2020.
21 IASB, Third Agenda Consultation, 2022.
22 Si segnala sulla questione SALVINI O., Redditi generati nel Metaverso: ricondurre all’imposizione reale la ricchezza di origine “virtuale”, in il fisco, 2022, 13, pp. 1207 e ss.
23 Si badi che già la disciplina prevista per le persone fisiche non imprenditori presenta una importante lacuna semantica in quei parametri che dovrebbero consentire il riconoscimento proprio delle c.d. “permute non alla pari”. Motivo per il quale lo sperato intervento del legislatore non dovrebbe limitarsi alla mera estensione della disciplina, bensì anche ad una revisione della stessa volta ad esplicitare il significato dei principi ivi contenuti.
24 È il c.d. “look through approach” (impiegato anche dalla DAC 8 ed è più comunemente adoperato nel campo dell’imposizione diretta) raccomandato altresì nel 2022 dall’OCSE in “Crypto-Asset Reporting Framework (CARF)”. Tale rapporto, su mandato del G20, si occupa dei crypto-asset con l’intento di incrementare la trasparenza del relativo mercato (anticipando, tra l’altro, il Regolamento MiCA del 2023) e contrastare l’erosione di base imponibile attraverso apposite misure come gli obblighi di segnalazione e di scambio di informazioni tra prestatori di servizi legati alle cripto-attività e autorità fiscali.
25 Cfr. CGUE, sez. V, 22 ottobre 2015, causa C-264/14 Skattevertket/Hedqvist, parr. 49, 52.
26 Ibidem.
27 L’art. 135 della Direttiva IVA 2006/112/CE classifica le operazioni di cui alle lettere da d) a f), come operazioni finanziarie esenti dall’imposta sul valore aggiunto.
28 La carenza di sinallagmaticità o corrispettività contrattualizzata è sovente nei sistemi DLT come la blockchain con riferimento al compenso erogato al nodo validatore delle transazioni dal nodo che richiede l’operazione ma sempre per il tramite del network. Tra i due nodi, dunque, non v’è alcun rapporto contrattuale né la possibilità di controllare, per il validatore, il requisito della territorialità ai fini IVA (art. 7-ter del Decreto IVA). Vedasi, per esempio, la fattispecie oggetto di parere dell’AdE 110/2020 la cui attività di autorizzazione della transazione, non nel merito della risposta dell’amministrazione finanziaria, rientra comunque nel campo IVA e sia, nel caso di specie, imponibile.
29 SUNYAEV A., KANNENGIEßER N., BECK R. et al.,Token Economy, Bus Inf Syst Eng 63, 2021, pp. 457-478.
30 Non sono esclusi dall’esenzione i servizi di custodia e amministrazione dei titoli nonché la gestione individuale di portafogli. Cfr. CGUE, 19 luglio 2012, C-44/11, Deutsche Bank.
31 Si esamini sulla questione la risposta dell’Agenzia delle Entrate 507/2022 e CARDELLA P.L., Iva ed utility token: un regime a geometria variabile, in Riv. tel. dir. trib., 2023.
32 Il Decreto IVA le classifica come “operazioni di movimentazione finanziaria” non soggette ad IVA ai sensi dell’art. 2, terzo comma, lettera a).
33 Cfr. OECD, Taxing Virtual Currencies: An Overview of Tax Treatments and Emerging Tax Policy Issues, 2020, par. 2.3.1. e nota 10.
34 Cfr. Comitato IVA, Linee guida su Working Paper, 983, 2019 e Linee guida su Working Paper, p. 993, 2020.
35 Per esempio, i diritti sugli immobili, beni mobili registrati e le opere dell’ingegno non possono circolare, sul mero piano materiale, osservando protocolli diversi da quelli previsti dall’ordinamento. Vale a dire, nei casi di specie, che la transazione conclusa mediante la cessione di un diritto, bene o servizio tokenizzato è perfettamente valida nella sola dimensione digitale.
36 La concessione allo sfruttamento economico di un diritto immateriale è comunque, a prescindere dalla sua natura intrinseca digitale o materiale, un asset off chain regolato, nell’ordinamento italiano, da leggi specifiche. La concessione allo sfruttamento economico di un diritto immateriale è, infatti, inquadrata come prestazione di servizi.
37 A mio giudizio, qualche dubbio si pone sull’illustrazione dell’amministrazione finanziaria nella Circolare 30/E/2023 relativa ai casi in cui un NFT possa essere a tutti gli effetti considerato un voucher o buono corrispettivo. L’AdE si è esclusivamente limitata a sostenere «la possibilità di applicare a un NFT, al ricorrere dei relativi presupposti, la disciplina propria dei voucher piuttosto di quella propria dei titoli di legittimazione, fattispecie ad esempio riscontrabili quando l’NFT incorpora dei servizi (non digitali) che l’acquirente ha diritto di fruire oppure quando conferisce all’acquirente il diritto a partecipare a una c.d. community». Si noti la mancanza di qualsiasi riferimento a voucher sotto forma di NFT aventi ad oggetto servizi digitali oppure beni fisici. Non è chiaro l’intento, visto anche il contenuto della disciplina IVA dei voucher, dell’amministrazione finanziaria. Ad oggi non è stata pubblicata alcuna circolare di chiarimento né si sono registrate risposte ad interpelli sul suddetto orientamento dell’AdE e la vicenda rimane, per certi versi, in sospeso.
38 Particolari disposizioni sono previste all’art. 15-bis del D.P.R. 642/1972 per alcuni soggetti in relazione all’assolvimento dell’imposta di bollo in modo virtuale.
39 In questa categoria confluiscono anche i prestatori di servizi di cui all’articolo 3, comma 5, lettere i) e i-bis) del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231. Tali soggetti sono ritenuti “altri operatori non finanziari” ai fini della disciplina antiriciclaggio e sono tenuti agli obblighi di monitoraggio fiscale ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del Decreto-Legge 28 giugno 1990, n. 167.
40 Art. 19, comma 19, D.L. 201/2011.
41 Art. 19, comma 20, D.L. 201/2011.
42 Si veda CONTE D., Ulteriori questioni e nuove problematiche sulla fiscalità delle cripto-attività dopo la Legge di bilancio 2023, in Riv. tel. dir. trib., Pisa, 4, 2023 e MASTROIACOVO V., Art. 99 - Oneri fiscali e contributivi, in TINELLI G., a cura di, Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, pp. 841 e ss.
43 Art. 19, D.L. 201/2011.
44 Art. 56, D.L. 201/2011.
45 In entrambi i casi i proventi riconducibili alle attività di validazione dei singoli blocchi sono, per il legislatore della riforma, redditi diversi. Invece, prima della novella, i compensi per la sola attività di staking afferivano ai redditi da capitale secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria contenuta nella risposta all’interpello n. 437 del 26 agosto 2022.
46 Cfr. CONTE D., Riflessioni sul regime d’imposizione diretta introdotto dalla legge di bilancio 2023, in Riv. tel. dir. trib., 2023, pp. 5 e ss. Cfr. AIPSDT, Consultazione pubblica sulla bozza di circolare relativa al "Trattamento fiscale delle cripto-attività", Osservazioni, 2023, pp. 5 e ss.
47 È una fattispecie di creazione del valore non equivoca poiché la transazione avviene tra le due categorie per eccellenza di crypto-asset: crypto-currency e NFT.
48 CONTE D., Riflessioni, op. cit., p. 10.
49 Inoltre, il legislatore, ignorerebbe anche l’eventualità di uno smarrimento della relativa documentazione senza indicare alcun meccanismo riparativo da utilizzare in via del tutto residuale.
50 Per un più approfondito excursus in merito si esamini, in particolare, PIERRO M., Contributo all’individuazione, pp. 592-596.
51 Si veda MAROI F., (voce) “Cosa”, in Nuovo dig. It., Torino, IV, 1938, pp. 356 e ss., e ARE M., (voce) “Beni Immateriali”, in Enc. dir, V, Milano, 1959, p. 245, nota 5.
52 Su questa distinzione GIOVANNINI A., Territorio invisibile e capacità contributiva nella digital economy, in Riv. dir. trib., n. 5/2022, I, pp. 497 e ss.
53 OECD, Tax Challenges Arising from Digitalisation - Interim Report 2018: Inclusive Framework on BEPS, 2018, OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, OECD Publishing, Paris.
54 I profitti, osservando gli obiettivi del progetto, dovevano essere assoggettati al regime fiscale della giurisdizione nella quale il profitto era stato creato. Il rapporto tra luogo di creazione del valore e regime fiscale si rafforzò con le actions 8 e 10 del progetto e, nel 2017, con l’aggiornamento delle transfer pricing guiding lines (criticate perché avulse da distinte indicazioni sul significato di “creazione del valore”) divenne il principio mediante il quale distribuire e localizzare i profitti tassabili all’interno di un gruppo imprenditoriale.
55 Si esamini il secondo capitolo dell’Interim Report intitolato “Digitalisation, Business Models and Value Creation”.
56 CORASANITI G., La creazione di valore secondo i principi internazionali, in Dir. proc. trib., 1/2021, pp. 38-39.
57 Per attività digitalizzate s’intendono quelle riportate dall’Amount A del Pillar One ossia le ADS (Automated Digital Services) e CFB (Consumer - Facing Business).
58 Cfr. PERRONE A., Sull'esistenza di un nuovo "valore digitale" e sua rilevanza fiscale: il caso dei crypto-asset, in Rass. trib., 2/2023, pp. 276-279.
59 In tema si consiglia BURGERS I.J.J., Value Creation and Inter-Nation Equity, in HASLEHNER W.-M. LAMENSCH (EDS.), Taxation and Value Creation, pp. 171-183, in EATLP International Tax Series, 19/2021, IBFD, pp. 171-183 e MUSGRAVE R.A. - MUSGRAVE P.B., Inter nation Equity, in BIRD R. and HEAD J. (EDS.), Modern Fiscal Issues: Essays in Honor of Carl S. Shoup, University of Toronto Press, 1972, pp. 68 e ss.
60 PERRONE A., Sull’esistenza, op. cit., p. 278.
61 In modo più o meno uniforme già il MiCAR (2023), la V Direttiva antiriciclaggio del 30 maggio 2018/843/UE (per le sole criptovalute), il GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale) – per le sole criptovalute – con il FATF Report, Virtual Currencies Key Definitions and Potential AML/CFT Risks nel 2014, la European Central Bank nel suo Rapporto Virtual Currency schemes – a further analysis (per le sole criptovalute) del 2015, la Banca d’Italia nel 2022 con la “Comunicazione della Banca d’Italia in materia di tecnologie decentralizzate nella finanza e cripto-attività” e l’OCSE nella Section IV del Public Consultation Do cument Crypto-Asset Reporting Framework and Amendments to the Common Reporting Standard del 2022 convengono per l’inquadramento delle cripto-attività come una “rappresentazione di valore digitale (…)”.
62 Ivi, 279-291. L’Autore, inquadrando tecnicamente e giuridicamente l’essenza dei crypto-asset, tenta di affermare che un valore digitale effettivamente esiste. Per dimostrarlo muove le sue argomentazioni dal concetto di creazione del valore tra passato e presente; probabilmente la colonna più importante dell’intera teoria economica. Tra le fasi più significative di questo, possiamo dirlo, eterno sviluppo del senso e delle modalità creative del valore -discusse ampiamente dall’opera sopramenzionata- v’è certamente il passaggio alla nuova declinazione dei fattori che compongono il valore di un bene. La storica combinazione tra il valore soggettivo o intrinseco di un bene o servizio (dato dal suo costo di produzione) e il valore oggettivo o estrinseco (dato dall’interesse del mercato) è stata sostituita dalla più moderna mixture tra il concetto di use value ed exchange value. Il primo attiene, come ci suggerisce il termine stesso, all’utilità che il cessionario acquisirebbe da quel prodotto inglobando anche il costo dei fattori produttivi mentre il secondo incorpora l’interesse esterno che può essere misurato nella disponibilità di spesa del cessionario; quest’ultima direttamente proporzionale alla scarsità del bene o servizio immesso sul mercato e, di conseguenza, all’esclusività dello stesso. L’evoluzione successiva è stata avanzata dalla “firm theory” la quale, basandosi sulla resource-based theory, non scardina lo stato dell’arte fin qui esposto, bensì rivisita lo use value in funzione dei nuovi modelli di business digitale. Segnatamente, si è osservato che nel valore soggettivo (componente endogena del valore) degli output prodotti da questa moderna species imprenditoriale v’è un quid pluris rispetto al costo dei fattori produttivi e del valore d’uso. La “firm theory” individua tale elemento nell’attività umana o “human agency” che consta di tre componenti: la conoscenza, la capacità e l’abilità. Con l’espressione human agency si deve intendere, in questi termini, la capacità di elaborare, governare e sfruttare conoscenze complesse. Ovviamente, questa definizione deve essere calata all’interno del contesto digitale; si pensi alle innumerevoli conoscenze informatiche che fanno da background alla progettazione e all’utilizzazione economica degli strumenti digitali. La conoscenza (intesa altresì come capacità imprenditoriale o manageriale), da sola, non è sufficiente ad innescare un sistema capace di generare valore e si colloca, perciò, su un piano meramente teorico. Ad essa si dovrà aggiungere un secondo livello, questa volta, operativo nel quale risiedono gli altri driver elencati nella definizione di human agency: l’abilità di acquisire il maggior numero di informazioni (purtuttavia in una ottica qualitativa di selezione mirata del dato o della famiglia di dati funzionali agli obiettivi di business) nonché la capacità di elaborazione delle stesse. Tra le altre cose, tali skills, per la dottrina, aderiscono perfettamente con i tre presupposti dell’ISD o imposta sui servizi digitali introdotta con la Legge 30 dicembre 2018, n. 145 la quale tassa il potere – del tutto digitale – di acquisizione, gestione ed elaborazione del dato come forma di ricchezza (a riguardo CARINCI A., La fiscalità dell’economia digitale: dalla web tax alla (auspicabile) presa d’atto di nuovi valori da tassare, in il fisco, 2019, fasc. 47-48, pp. 4508 e ss). Il ragionamento di cui dianzi si è dato atto è connotato da una palese criticità ossia l’eccessiva focalizzazione sul valore d’uso o valore soggettivo senza alcun cenno al c.d. “demand-side”. A tutto concedere, i fautori della “firm-theory” non degradano la significatività dell’interesse esterno nella creazione del valore ma, anzi, ne incensano la sua funzione di “sintetizzazione”. Infatti, lo use value costituisce un valore se vogliamo “astratto” preso atto che sarà poi l’interesse del mercato ad attualizzare il valore di un bene o servizio immesso sul mercato.
63 Cfr. COSTANZO L, Profili fiscali delle cripto-attività nell’Unione europea: una problematica (anche) definitoria, in P.L. Cardella, E. Della Valle, F. Paparella (a cura di), Tributi, economia e diritto nel Metaverso, Pisa, 2023. Nel contributo proposto l’Autore disconosce la rilevanza fiscale delle c.d. “operazioni virtuali pure” ritenendo che esse non siano sintomatiche di effettiva capacità contributiva e, in ogni caso, si tratterebbe di transazioni per le quali il discernimento della giurisdizione fiscale rimarrebbe l’ostacolo più importante.
64 PERRONE A., Sull’esistenza, op. cit., p. 307.
65 Così, riferendo la terminologia anglosassone, PERRONE A., Delle crypto-currency e della generazione di un valore tassabile, in P.L. Cardella, E. Della Valle, F. Paparella (a cura di), Tributi, economia e diritto nel Metaverso, Pisa, 2023, p. 266.
66 Una delle soluzioni forse più innovative, ma che almeno perora rimane in uno stato germinale, sarebbe la considerazione degli «effetti economici e sociali che le attività determinano o possono determinare per la collettività». Cfr. GIOVANNINI A., op. cit., p. 526.
67 In tal modo PERRONE A., Sull’esistenza, 308. L’Autore, assevera più precisamente che: «il diritto di uno Stato a tassare la ricchezza “digitale” che esso mercé le sue infrastrutture ha contribuito a creare, potrebbe essere una, seppur parziale, soluzione per risolvere, nell’ottica del richiamato benefit principle, la questione allocativa in chiave giurisdizionale».
68 Sulla questione è ovvio che la potenza di calcolo dei software (i c.d. “network mapping tools”) e, prim’ancora, degli hardware odierni permette senza particolari impedimenti il raggiungimento di qualsivoglia scopo. Tuttavia, questo non è un orizzonte che i giuristi possono autonomamente esplorare senza il supporto di esperti del digitale; le proposte dottrinali, malgrado oggigiorno i digital tools consentano il perseguimento di smisurati interessi, dovranno essere sempre subordinate a valutazioni di fattibilità eseguite da tecnici del settore.
69 Sul punto PERRONE A., Delle cripto-currencies, pp. 268-269: «Certo, l’imposizione (quale che essa sia) richiede che il valore digitale sia “espresso” in moneta, non essendo, allo stato, ipotizzabile una base imponibile espressa in termini virtuali (ad esempio in crypto-currencies), ma questa è evidentemente una questione diversa da quella attinente al “ritorno” alle valute tradizionali, poiché in questo caso non si tratta di convertire una crypto in valuta fiat o di scambiarla con un bene dell’economia reale, ma solo di esprimere in moneta tradizionale il valore digitale che forma oggetto di scambio virtuale e, come si è visto, esistono dei tassi di cambio delle crypto, che potrebbero essere utilizzati come parametro».
70 Le criptovalute possono essere impiegate per regolare una transazione soltanto se la controparte accetta l’adempimento della prestazione come statuito dell’art. 1197 del codice civile e rubricato “prestazione in luogo dell’adempimento”. La prestazione in criptovalute sarà considerata, pertanto, “datio in solutum”. Altrimenti, le parti hanno facoltà di stabilire espressamente di comune accordo, mediante apposita clausola contrattuale, che la prestazione di una delle due parti sia adempiuta attraverso la corresponsione di monete non aventi corso legale; così come previsto dall’art. 1279 del codice civile. Per una ampia analisi si veda CHIERICI M., La "blockchain": una lettura giuridica per uno sguardo verso il futuro, in Ciberspazio e diritto, 3/2018, Mucchi Editore, 385-419.
71 Chiaramente, ciò qualora ignorassimo l’esistenza degli stablecoins appartenenti alla categoria degli e-money tokens nonché degli asset linked ossia tokens il cui valore replica esattamente quello di una moneta a corso legale.
72 …che lascia presagire lo spirito politico che, verosimilmente, ha mosso il legislatore della riforma.
73 Occorrerebbe, pure, chiedersi fino a quando la struttura del nostro ordinamento reggerà il confronto con le sempre maggiori attività che, frequentemente, germogliano nella dimensione digitale.
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