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Riflessioni a margine del testo definitivo della Legge delega relativa alla revisione del catasto: modifica solo formale o effettivo cambio di rotta?

Scritto da Giuseppe Melis • lug 2022

Sintesi

Il presente lavoro esamina il nuovo testo della delega di riforma del catasto confrontandolo con quello precedente. Si rileva la portata assai rilevante delle modifiche apportate al testo, idonee a neutralizzarne, anche per il futuro, ogni impatto sui tributi fondati sul valore patrimoniale degli immobili anche indipendentemente dalla clausola di irrilevanza fiscale delle nuove rendite.

Abstract

This paper examines the new text of the delegation law on cadastral reform by comparing it with the previous one. It notes the very significant scope of the changes made to the text, which are capable of neutralising, also for the future, any impact on taxes based on the asset value of real estate, even independently of the clause of tax irrelevance of the new rents.

Contenuto

1. Introduzione: le ipotesi di riforma degli anni 2000

Come noto, con la sola parentesi della Legge delega n. 662 del 1996 su cui ci si soffermerà tra breve, è soprattutto dalla metà degli anni 2000 in poi che il legislatore ha intensificato la riflessione su come riformare il sistema di valutazione del catasto dei fabbricati.1

Ci riferiamo, in particolare, al Disegno di Legge n. 1762 presentato il 4 ottobre 2006, che prevedeva una segmentazione territoriale e funzionale del mercato immobiliare, l’utilizzo di metodi di valutazione matematico-statistici e del metro quadrato di superficie, la «determinazione degli estimi catastali su base patrimoniale», con successiva derivazione dalla medesima base patrimoniale di una “base reddituale” attraverso l’applicazione di “saggi di redditività”.

Quanto ai due profili da ultimo evidenziati, si trattava dunque di una situazione sostanzialmente analoga a quella attualmente esistente, che vede un sistema fondato su una ipotesi di fruttuosità del valore capitale di un immobile determinato con criteri di tipo patrimoniale riferiti al biennio 1988/1989, in cui la rendita così derivante viene utilizzata ai fini reddituali, mentre la rendita “ri-capitalizzata”, vale a dire il valore patrimoniale “di partenza”, viene utilizzata ai fini delle imposte sul patrimonio e sui trasferimenti di ricchezza (sia pure ormai con l’applicazione di moltiplicatori “maggiorati”).

Tale sistema, va ricordato, era stato originariamente fissato da due decreti ministeriali “salvati” dal legislatore – e il legislatore, a sua volta, salvato dalla Corte costituzionale con sent. n. 263/1994 – a seguito delle pronunzie di annullamento dei giudici amministrativi che avevano rimarcato la chiara differenza concettuale tra l’interesse del capitale assunto dai menzionati d.m. da un lato, e il “canone di fitto ordinariamente ritraibile dall’unità immobiliare” di cui al D.P.R. n. 1142/1949 dall’altro.

Fatto sta che, proprio in quell’occasione, la Consulta diede rilevanza, ai fini decisori, alla (allora) scarsa rappresentatività del mercato delle locazioni, anche in funzione del regime vincolistico degli alloggi, nonché alla transitorietà del sistema previsto. Ma soprattutto evidenziò il rischio che, dal sistema così adottato, potessero derivare «rendite catastali tali da superare per la loro misura il reddito effettivo, sicché imposte ordinarie, che a tali rendite si rifacessero, porterebbero ad una sostanziale progressiva erosione del bene». In altri termini, la Corte censurava la circostanza di derivare sistematicamente un “reddito” da un “valore”, ammettendolo soltanto in ragione della transitorietà del sistema e della scarsa rappresentatività del mercato delle locazioni.

Ebbene, questo Disegno di Legge naufragò con il cambio di legislatura, ma miglior sorte non è toccata alle successive ipotesi riformatrici.

Si tratta, in particolare, dell’art. 2 del D.D.L. n. 5291 del 15 dicembre 2012, il cui iter di approvazione si è arenato, e, successivamente, dell’art. 2 della Legge delega n. 23/2014, che rappresenta sostanzialmente una riproposizione del D.D.L. del 2012, rimasto tuttavia inattuato – con l’unica eccezione delle commissioni censuarie tramite il Decreto legislativo n. 198 del 2014 – e ciò nonostante l’avvenuta attuazione di buona parte della indicata delega.

Entrambi questi interventi segnano un notevole distacco concettuale da quelli precedenti, poiché entrambi espressamente finalizzati ad attribuire «a ciascuna unità immobiliare il relativo valore patrimoniale e la rendita», vale a dire a stabilire un vero e proprio “doppio binario” reddituale/patrimoniale.

Quanto alle modalità tecniche, i paradigmi dell’intervento riformatore consistevano nella miglior segmentazione del territorio, nell’utilizzo di funzioni statistiche, nel riferimento ai valori di mercato per determinare il valore “patrimoniale”, nell’utilizzo del metro quadrato anziché dei vani; con la differenza, tuttavia, del riferimento al “consolidato mercato delle locazioni” per determinare il valore “reddituale” con conseguente limitazione del “saggio di redditività”, da applicare ai valori patrimoniali, alle ipotesi di constatata assenza di un siffatto mercato, in linea, appunto, con la scelta del “doppio binario”.



2. Il testo originario della delega e le sue criticità

Tanto premesso, il testo originario del Disegno di Legge delega qui in commento intendeva «attribuire a ciascuna unità immobiliare, oltre alla rendita catastale determinata secondo la normativa attualmente vigente, anche il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato”.

Nessun riferimento, dunque, alla miglior segmentazione del territorio, all’utilizzo di funzioni statistiche, all’utilizzo del metro quadrato anziché dei vani, ma solo un riferimento ai valori di mercato sia per il valore patrimoniale (sempre esistente), sia (ove possibile, dunque nell’ipotesi di assenza di “valori normali espressi dal mercato”) per il valore reddituale. Elementi, questi ultimi, che di per sé sarebbero potuti anche essere sufficienti per il rispetto del minimum costituzionale della delega, sol che si pensi che le attuali banche dati OMI dei valori (patrimoniali e reddituali) sono già adesso costruite sui metri quadrati dei beni e prevedono una ampia “segmentazione” del territorio secondo zone omogenee.

Oltre alla scelta, di fatto corrispondente a quella di cui al D.D.L. del 2012 e alla Legge delega del 2014, di avere due “sistemi di valore” tra loro nettamente separati – ciò che di per sé non è privo di senso, posto che è ben difficile immaginare un saggio di redditività uniforme per tutto il territorio nazionale come attualmente avviene, trattandosi di due mercati da considerare “a sé”, come spesso ha dimostrato l’andamento del mercato immobiliare degli ultimi anni, in cui, a fronte di prezzi crescenti nelle compravendite, non ha visto un corrispondente incremento nei valori delle locazioni – quel che più saltava agli occhi era l’istituzione di un binario “parallelo” alla “rendita catastale determinata secondo la normativa attualmente vigente”, determinando così due diversi sistemi: l’uno, quello attuale, relativo ai valori patrimoniali del biennio 1988/1989, con applicazione di saggi di redditività “per categoria” uniformi su tutto il territorio nazionale; l’altro, quello da introdurre con la riforma, secondo l’attuale valore di mercato (patrimoniale e reddituale), nei termini appena indicati.

Ciò, evidentemente, nell’ottica di quanto allora previsto dalla precedente lettera a), ove si disponeva, al precipuo fine di tentare di superare i forti contrasti politici all’intervento sul catasto, che «(…) le informazioni rilevate secondo i princìpi di cui al presente comma non siano utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali né, comunque, per finalità fiscali».

Che poi queste linee parallele potessero un domani (neanche tanto lontano) finire per convergere e, soprattutto, determinare una sostituzione dei precedenti valori e rendite con quelli nuovi, costituiva la preoccupazione dei principali detrattori dell’intervento sul catasto, che non vedevano altra utilità per una siffatta operazione se non quella di creare le basi per una loro futura utilizzazione fiscale anche grazie al potenziale conflitto tra chi avrebbe visto un miglioramento e chi un peggioramento della propria situazione, con conseguente pressione “politica” dei primi in direzione del definitivo superamento della situazione di doppio binario.

Quanto appena illustrato spiega, da un lato, il motivo che aveva indotto le Commissioni finanze del Senato e della Camera ad omettere il catasto tra i temi da includere nella riforma nell’ambito del documento conclusivo approvato al termine di una lunga serie di audizioni sulla riforma fiscale cui chi scrive ha avuto l’onore di partecipare; e, dall’altro, il senso della relazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze di accompagnamento al testo del Disegno di Legge delega presentato in Parlamento, laddove veniva rilevato che la disposizione è coerente con la raccomandazione della Commissione europea con la quale si invita l’Italia a ridurre la pressione fiscale sul lavoro attraverso una riforma dei valori catastali – da cui si evince, a contrario, la sostanziale finalità di ulteriore inasprimento della fiscalità immobiliare – oltre che dallo stesso PNRR, che indica tra le raccomandazioni quella di «spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati».2

Sicché, la situazione di ambiguità era nelle cose, soprattutto tenendo conto che se è innegabile che attualmente i rapporti tra valori di mercato e valori catastali soffrono una notevole variabilità all’interno del territorio nazionale cui è necessario porre rimedio,3 è anche vero che essendo attualmente i valori catastali rivalutati ai fini IMU circa la metà di quelli di mercato, l’allineamento dei valori imponibili a quello di mercato comporterebbe, in prospettiva, il raddoppio delle potenziali basi imponibili IMU e la triplicazione delle potenziali basi imponibili di riferimento del tributo di registro, di donazione e successorio.4

Non si tratta, dunque, di una mera “redistribuzione” a parità di potenziale base imponibile complessiva, ma di una redistribuzione proporzionale accompagnata da un significativo aumento della potenziale base imponibile per tutti quei contribuenti che non abbiano già adesso un valore catastale superiore al valore di mercato.

Sicché è chiaramente una “premessa” – l’aumento delle potenziali basi imponibili per quasi tutti – che non tutte le parti politiche evidentemente intendevano “intestarsi”, non fidandosi della disposizione circa l’irrilevanza fiscale di siffatta operazione.


3. Il nuovo testo della delega e il rilevante "cambio di rotta"

Le gravi tensioni nella Commissione Finanze5 e le negoziazioni politiche che ne sono seguite, anche sotto la “pressione” del PNRR, hanno condotto ad un nuovo testo della Legge delega, di cui occorre essenzialmente determinare se esso si sostanzi in una modifica solo formale o invece sostanziale, opinione su cui si registrano contrastanti prese di posizione delle forze politiche.

L’art. 6, co. 2, lett. b), delega adesso il Governo a prevedere l’integrazione delle informazioni presenti nel catasto dei fabbricati in tutto il territorio nazionale, secondo una serie di principi e criteri direttivi tra cui quello di «prevedere che sia indicata per ciascuna unità immobiliare, oltre alla rendita catastale risultante a normativa vigente e sulla base dei dati nella disponibilità dell’Agenzia delle entrate, anche un’ulteriore rendita, suscettibile di periodico aggiornamento, determinata utilizzando i criteri previsti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 marzo 1998, n. 138, ove necessario, tenendo anche conto: 1) dell’articolazione del territorio comunale in ambiti territoriali omogenei di riferimento; 2) della rideterminazione delle destinazioni d’uso catastali, distinguendole in ordinarie e speciali; 3) dell’adozione di unità di consistenza per gli immobili di tipo ordinario».

Viene inoltre ampliata la clausola di “sterilizzazione”, prevedendosi alla nuova lett. a) «che le informazioni rilevate secondo i principi di cui al presente comma non possono essere utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali e, conseguentemente, per la determinazione delle agevolazioni e dei benefici sociali».

Il legislatore provvede dunque adesso a fare espresso riferimento al D.P.R. n. 138/1998 che costituisce, come noto, il «Regolamento recante norme per la revisione generale delle zone censuarie, delle tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane e dei relativi criteri nonché delle commissioni censuarie in esecuzione dell'articolo 3, commi 154 e 155, della legge 23 dicembre 1996, n. 662».

Ebbene, il comma 154 della L. n. 662/1996, di cui appunto il D.P.R. n. 138/1998 costituisce attuazione, prevedeva che «Con uno o più regolamenti, da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine dell'aggiornamento del catasto e della sua gestione unitaria con province e comuni, anche per favorire il recupero dell'evasione, è disposta la revisione generale delle zone censuarie, delle tariffe d'estimo, della qualificazione, classificazione e classamento delle unità immobiliari e dei relativi criteri nonché delle commissioni censuarie, secondo i seguenti principi:

a) attribuzione ai comuni di competenze in ordine alla articolazione del territorio comunale in microzone omogenee, secondo criteri generali uniformi. L'articolazione suddetta, in sede di prima applicazione, è deliberata entro il 31 dicembre 1997 e può essere periodicamente modificata;

b) individuazione delle tariffe d'estimo di reddito facendo riferimento, al fine di determinare la redditività media ordinariamente ritraibile dalla unità immobiliare, ai valori e ai redditi medi espressi dal mercato immobiliare con esclusione di regimi legali di determinazione dei canoni;

c) intervento dei comuni nel procedimento di determinazione delle tariffe d'estimo. A tal fine sono indette conferenze di servizi in applicazione dell'articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Nel caso di dissenso, la determinazione delle stesse è devoluta agli organi di cui alla lettera d);

d) revisione della disciplina in materia di commissioni censuarie. La composizione delle commissioni e i procedimenti di nomina dei componenti sono ispirati a criteri di semplificazione e di rappresentatività tecnica anche delle regioni, delle province e dei comuni;

e) attribuzione della rendita catastale alle unità appartenenti alle varie categorie ordinarie con criteri che tengono conto dei caratteri specifici dell'unità immobiliare, del fabbricato e della microzona ove l'unità è sita».

La nuova delega costituisce pertanto l’ennesimo tentativo di rideterminazione su scala nazionale delle tariffe d’estimo, la quale torna tuttavia ad essere quella esclusivamente “reddituale” di cui alla delega del 1996, quale rideterminazione cioè delle sole “tariffe d’estimo”, di cui il D.P.R. n. 138/1998 costituisce appunto attuazione, le quali dovranno a loro volta basarsi su di una rideterminazione delle destinazioni d’uso catastali, distinte in “ordinarie” e “speciali” – così riprendendo un concetto già presente nel D.D.L. del 2012 e nella delega del 2014 e prima ancora nella Tabella B allegata al D.P.R. n. 138/1998 – e con ogni verosimiglianza, facendo riferimento ai metri quadrati per i fabbricati a destinazione ordinaria, nonostante il legislatore non ne faccia espressa menzione bensì ricorra alla formula generica di “adozione di unità di consistenza per gli immobili di tipo ordinario” anche poiché indistintamente riferita sia ai fabbricati a destinazione ordinaria, sia a quelli a destinazione speciale (diversamente dalle disposizioni del 2012 e 2014, che invece li disciplinavano separatamente).

La differenza rispetto alla precedente formulazione è dunque tutt’altro che formale.

Nella versione originaria della delega, era infatti prevista, come detto, la doppia rilevazione del valore di mercato patrimoniale e del valore di mercato reddituale; qui, invece, è prevista una sola rilevazione, quella della rendita.

A tal fine, l’art. 5 del D.P.R. n. 138/1998, specificamente riguardante tale determinazione, prevede che:

«1. Al fine di determinare la redditività media ordinariamente ritraibile dalle unità immobiliari urbane, al netto delle spese e perdite eventuali, si procede alla revisione delle tariffe d'estimo attualmente vigenti, facendo riferimento ai valori e ai redditi medi espressi dal mercato immobiliare, con esclusione dei regimi locativi disciplinati per legge. Non sono da assumere, come termini di riferimento, valori e redditi occasionali ovvero singolari.

2. La revisione delle tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane a destinazione ordinaria consiste nella determinazione, per ogni zona censuaria, categoria e classe, della rendita catastale per unità di superficie, di cui all'articolo 3, da effettuarsi sulla base:

a) dei canoni annui ordinariamente ritraibili, con riferimento ai dati di mercato delle locazioni. Si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 a 26 del regolamento per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 1° dicembre 1949, n. 1142;

b) dei valori di mercato degli immobili, determinandone la redditività attraverso l'applicazione di saggi di rendimento ordinariamente rilevabili nel mercato edilizio locale per unità immobiliari analoghe, e con l'osservanza degli articoli da 27 a 29 del regolamento richiamato nella lettera a).

3. Le tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane a destinazione ordinaria sono determinate come media dei valori reddituali unitari individuati con i criteri stabiliti nel presente articolo e con riferimento all'epoca censuaria 1996-1997».

Le nuove rendite catastali potranno pertanto basarsi, alternativamente, sui “canoni annui ordinariamente ritraibili, con riferimento ai dati di mercato delle locazioni”, i quali vengono oggi rilevati dall’OMI, sia pure con oscillazioni tra minimi e massimi; oppure, sui “valori di mercato degli immobili”, ma in tal caso avendosi sempre “di mira” la rendita, da ottenere applicando a detti valori di mercato “saggi di rendimento ordinariamente rilevabili nel mercato edilizio per unità immobiliari analoghe”. A tale ultimo riguardo, peraltro, ai sensi dell’art. 29 del regolamento n. 1142/1949, «Il saggio di interesse da attribuire al capitale fondiario per determinarne la rendita è il saggio di capitalizzazione che risulta attribuito dal mercato ad investimenti edilizi aventi per oggetto unità immobiliari analoghe. Qualora si tratti di unità immobiliari che, a causa delle loro caratteristiche o destinazione, siano per sé stesse non suscettibili di dare un reddito in forma esplicita, si devono, invece, tener presenti i saggi di capitalizzazione che risultano attribuiti dal mercato ad investimenti concorrenti con quello edilizio».

Insomma, con la nuova formulazione viene meno la netta distinzione tra “rendite” e “valori patrimoniali”, con le seguenti conseguenze:

  • per le rendite che saranno determinate sulla base dei dati di mercato delle locazioni, diventerà poi estremamente difficile “correlare” tali rendite ad un futuro “valore patrimoniale”, non essendoci alcuna correlazione generalizzabile tra le due entità;

  • per le rendite che saranno determinate sulla base dei valori di mercato dei beni immobili, diventerà estremamente difficile determinare i “saggi di redditività” da applicare per determinare la rendita, anche perché non si tratta più, come attualmente accade, di saggi di redditività (1, 2 o 3%) uniformi per tutto il territorio nazionale, bensì di saggi «ordinariamente rilevabili nel mercato edilizio locale per unità immobiliari analoghe» e, pertanto, per loro natura, di assai difficile determinazione.

Sicuramente, il contenzioso che ne deriverebbe sarebbe estremamente rilevante, paralizzando ogni tentativo di stabilire una correlazione che, come visto, sarebbe inevitabilmente dotata di assai significativi margini di opinabilità.

Da ciò deriva una ulteriore conseguenza. Nel momento in cui, come visto, si “sganciano” significativamente le nuove “rendite” dai “valori”, e dunque in sostanza da tutti quei tributi fondati sul “valore” medesimo, che costituiscono per gettito parte notevolissima dei tributi immobiliari, aumentano significativamente le possibilità di una reale “tenuta” della menzionata nuova lett. a), che esclude l’utilizzo di tali informazioni per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali.

Una volta rideterminate le nuove rendite è infatti evidente che non sarà affatto agevole, in futuro, risalire a dei valori patrimoniali attendibili da assumere a nuova “base imponibile” dei tributi che su di essi si fondano.

Quindi, tra i proclami post modifica di Letta («Molto bene ma era già così») e quelli di Berlusconi («Abbiamo trovato una soluzione per evitare l’aumento delle tasse sulla casa»), chi ha ragione è sicuramente il secondo.6


4. Considerazioni sulle ipotesi correttive alternative

Tanto premesso, come valutare la scelta finale del legislatore delegante?

Mi pare che le ulteriori possibilità di intervento correttivo sul testo originario del D.D.L. delegato fossero almeno due.

La prima possibilità di intervento consisteva nel rendere esplicita la volontà politica di rimettere mano ai valori catastali (patrimoniali e reddituali) senza alcun effetto sul gettito complessivo, regolando così sin da subito tutte le inevitabili conseguenze fiscali che ne sarebbero derivate.

Così, a fronte di una rideterminazione dei valori, si sarebbe dovuto prevedere un ri-proporzionamento di tutti gli altri elementi necessari alla determinazione del tributo dovuto, al fine di lasciare invariato il gettito. Si tratta dell’approccio adottato sia dal D.D.L. di riforma del 2012, sia dalla Legge delega del 2014, ivi prevedendosi tra i principi e criteri direttivi quello di «garantire l’invarianza del gettito delle singole imposte il cui presupposto e la cui base imponibile sono influenzati dalle stime di valori patrimoniali e rendite, a tal fine prevedendo, contestualmente all’efficacia impositiva dei nuovi valori, la modifica delle relative aliquote impositive, delle eventuali deduzioni, detrazioni o franchigie, finalizzate ad evitare un aggravio del carico fiscale».

Ma l’intervento avrebbe potuto costituire anche l’occasione per considerare adeguatamente le dimensioni particolarmente allarmanti assunte in Italia dalla sovrapposizione tra tributi reddituali e patrimoniali.

È qui sufficiente ricordare che, da un lato, in materia di federalismo, l’art. 28, co. 2, lett. b), L. n. 42/2009 – rimasto inattuato – delegava al legislatore anche il compito di individuare meccanismi idonei ad assicurare «la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale nonché del suo riparto tra i diversi livelli di governo»; e che, dall’altro, la necessaria considerazione degli effetti complessivi dell’imposizione patrimoniale e reddituale ai fini della determinazione del carico massimo sopportabile in relazione ad un cespite – nel senso che, per effetto del concorso di imposte di diversa natura, non si dovrebbe superare una “quota” del reddito complessivo del soggetto – è affermata, oltre che dalla prevalente dottrina che storicamente si è occupata della tassazione patrimoniale7 – che la intende come tassazione sul reddito che discende dal patrimonio – anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca la quale, seppure non ha inteso fissare un limite quantitativo massimo all’imposizione tributaria, ha assunto in ogni caso tale “concorso” quale parametro per la valutazione della ragionevolezza dell’imposizione, oltre ad essere stata ben tenuta presente, quale limite, nell’esperienza dell’imposta patrimoniale francese.8

Del profilo relativo alla “invarianza di gettito” non v’era traccia – per ovvii motivi connessi alla “sterilizzazione” tout court dei nuovi valori – nella formulazione originaria della delega, ma esso sarebbe dovuto essere ribadito ove si fosse ritenuto di cercare un consenso su questa prima ipotesi correttiva, intervenendo con l’occasione anche sul problema dell’imposizione complessiva massima sui cespiti immobiliari derivante dall’indicata sovrapposizione, che avrebbe costituito un risultato politico di portata storica.

La seconda possibilità di intervento consisteva nel proseguire nella logica degli adeguamenti “progressivi” già inaugurata dal legislatore del 2004.

È qui sufficiente ricordare:

  1. l’art. 1, co. 335 L. n. 311/2004, che ha affrontato la questione della sproporzione tra valori di mercato e valori catastali, e in particolare ha riconosciuto ai Comuni la possibilità di richiedere al Catasto la revisione del classamento di quelle microzone dove la differenza media tra valori catastali e valori di mercato superi di almeno il 35% quella delle altre microzone. Si tratta, peraltro, di una disposizione spesso applicata non correttamente, che ha indotto la Suprema Corte, dal 2015 in poi, ad annullare senza rinvio migliaia di accertamenti che, tramite vere e proprie “scorciatoie motivazionali”, per lo più con sviluppi matematici di scostamento mai esplicitati e formule apodittiche di presunti miglioramenti subiti dalle microzone interessate, avevano attribuito maggiori rendite – vuoi attraverso una categoria catastale superiore, vuoi attraverso una classe maggiore – a centinaia di migliaia di immobili.

  2. L’operazione “gettito” è tuttavia riuscita, perché solo quei pochi contribuenti che hanno avuto la perseveranza (e i mezzi) per giungere in Cassazione sono riusciti ad avere giustizia, essendo divenuti definitivi per mancata impugnazione (o per abbandono nei gradi di merito) centinaia di migliaia di accertamenti, con sensibile incremento delle rendite catastali in numerose microzone di importanti città italiane, tra cui Roma e Milano; fatto sta che proprio questa situazione di diffusa illegittimità aumenta il rischio che gli immobili con le rendite “errate” ma non contestate possano rappresentare, attraverso il giudizio di “comparabilità”, il “cavallo di Troia” per aumentare medio tempore la classe agli immobili invece oggetto di giudizi di annullamento della pretesa erariale;

  3. l’art. 1, co. 336, L. n. 311/2004, che ha previsto procedure di classamento con efficacia “retroattiva” – vale a dire, dal momento della variazione dello stato di fatto – in presenza di immobili non dichiarati oppure di situazioni di fatto non più coerenti con i classamenti catastali per intervenute variazioni edilizie;

  4. gli interventi normativi sui c.d. “fabbricati rurali”;

  5. gli interventi ex art. 2, co. 33 D.L. n. 262/2006 a seguito di variazioni di colture risultanti dalle dichiarazioni presentate dall’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per l’ottenimento dei contributi agricoli (PAC);

  6. il divieto ex art. 2, co. 40, D.L. n. 262/2006, di ricomprendere nelle unità immobiliari censite nelle categorie catastali da E/1 a E/6 ed E/9 immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale o ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale e reddituale;

  7. la verifica della regolarità catastale dei fabbricati prima del rogito imposta con il D.L. n. 78/2010, che ha anch’essa determinato un ulteriore aggiornamento delle rendite catastali.

Non v’è dubbio che le revisioni e gli interventi “puntuali” sopra elencati abbiano condotto nel tempo ad un progressivo allineamento delle rendite al valore di mercato, sicché – anche tenendo conto che con il D.L. n. 201 del 2011 (convertito dalla L. n. 214 del 2011), sono stati notevolmente incrementati i moltiplicatori applicabili per la determinazione del valore catastale rilevante ai fini dell’imposizione patrimoniale sugli immobili – il problema dei valori catastali certamente esiste tuttora, ma è certamente meno grave rispetto al passato.

Se a ciò si aggiunge che le revisioni generali sono estremamente complesse – ed in effetti nelle varie audizioni dinanzi alle Commissioni riunite è stato da più parti evidenziato come in molti ordinamenti avanzati le ultime revisioni generali siano assai risalenti nel tempo – la seconda possibilità indicata, consistente nel proseguire mediante interventi “puntuali”, appariva da non sottovalutare.

In questa ottica, l’attenzione del legislatore avrebbe ad esempio potuto concentrarsi sia su quei Comuni, anche piccoli, dove si registra una sproporzione abnorme tra valori di mercato e valori catastali; sia su quei Comuni (o su quelle “microzone” all’interno dei Comuni più grandi), per lo più periferiche, in cui il confronto tra valori OMI e valori catastali avesse evidenziato, al contrario, una rilevante sopravvalutazione (sempre in termini di rapporto tra valore di mercato e valore catastale) di questi ultimi.

Né la prima, né la seconda possibilità di intervento sopra prospettate sono tuttavia mai venute in considerazione.


5. Conclusioni

Numerose sono le osservazioni conclusive che è possibile formulare.

La prima è che il testo originario della delega era obiettivamente irricevibile, perché avrebbe determinato una potenziale base imponibile complessiva “patrimoniale” più elevata per tutti – mediamente il doppio per l’IMU e il triplo per gli altri tributi – a fronte dell’assenza di qualsivoglia garanzia di invarianza di gettito e della previsione di una più debole clausola di “irrilevanza fiscale”.

La seconda è che il testo definitivamente approvato, oltre ad abbandonare il “doppio binario” e tornare alla rideterminazione delle sole rendite, rende irraggiungibile un nuovo “valore patrimoniale” anche nei fatti e per tutto ciò che si è già detto in ordine alle modalità di determinazione delle nuove tariffe d’estimo di cui al D.P.R. n. 138/1998. Con la conseguenza che la nuova clausola di irrilevanza fiscale ha adesso chances molto più elevate di rimanere osservata in futuro.

La terza è che, per effetto di quanto appena osservato, l’obiettivo di perequazione del rapporto tra valori di mercato e valori patrimoniali imponibili, rimarrà solo “sulla carta”, con buona pace dei propositi di equità che la Legge delega si proponeva.

La quarta è che si è sicuramente persa l’occasione per un ripensamento della funzione complessiva del catasto, confermando un catasto con finalità solo fiscali e non considerando le sue potenzialità anche funzionali orientate al perseguimento di finalità extrafiscali, ad esempio collegando le politiche di incentivazione a modelli virtuosi di gestione del territorio e del paesaggio e di sviluppo delle c.d. “smart cities” e «mettendo in moto il settore immobiliare nel giusto equilibrio tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale».9 Si è infatti rilevato che «nonostante i tanti tentativi (da ultima la legge delega di riforma del sistema fiscale 11 marzo 2014, n. 23, rimasta inattuata), non abbiamo nemmeno immesso nella nuova regolamentazione del catasto quegli strumenti di funzionalizzazione che consentano di tener conto per esempio della variante della sostenibilità, della tutela del paesaggio, del consumo di suolo, guardando ad un catasto moderno, sostenibile, legato anche ai processi di sviluppo».10 È sufficiente pensare alle recenti, massicce politiche fiscali in materia edilizia che hanno posto al centro lo scopo “ambientale” degli interventi oggetto di agevolazione, ivi compreso quello “sismico”, in cui il catasto, come attualmente concepito, produce effetti fiscali boomerang a seguito della riqualificazione energetica degli edifici, poiché, aumentando la redditività degli immobili, ne aumenta anche la rendita catastale e, conseguentemente, il valore di riferimento ai fini delle imposte su di essi gravanti. In tale prospettiva, la riforma del catasto avrebbe potuto rappresentare l’occasione anche per acquisire queste ulteriori informazioni, tra cui quelle relative alla classe energetica e sismica, e ciò sia per avere una fotografia aggiornata dello stato di avanzamento del processo di adeguamento, sia, in un’ottica squisitamente extrafiscale, per “calibrare” in modo appropriato trattamenti agevolativi, incidenti sulla rendita catastale e sui conseguenti valori imponibili delle imposte che sulla rendita si fondano, per tutti quei fabbricati che contribuiscono a ridurre, se non ad azzerare, le c.d. “esternalità negative”. Non va del resto dimenticato che un riferimento in tal senso era già contenuto nella Legge delega n. 23/2014, il cui art. 2 delegava il legislatore, nell’ambito dei decreti attuativi del nuovo catasto, anche a «p) prevedere un regime fiscale agevolato che incentivi la realizzazione di opere di adeguamento degli immobili alla normativa in materia di sicurezza e di riqualificazione energetica e architettonica».

La quinta ed ultima osservazione è che ciò che alla fine rimarrà della delega è la parte riguardante l’intervento di contrasto all’evasione “catastale”. A tale riguardo, la delega definitivamente approvata conferma le due direttrici già contenute nel testo originario, entrambe collocate nell’ottica di «modificare la disciplina relativa al sistema di rilevazione catastale al fine di modernizzare gli strumenti di individuazione e di controllo delle consistenze dei terreni e dei fabbricati».

La prima è quella di prevedere strumenti, da porre a disposizione dei comuni e dell’Agenzia delle entrate, atti a facilitare e ad accelerare l’individuazione e, eventualmente, il corretto classamento delle seguenti fattispecie: 1) gli immobili attualmente non censiti o che non rispettano la reale consistenza di fatto, la relativa destinazione d’uso ovvero la categoria catastale attribuita; 2) i terreni edificabili accatastati come agricoli; 3) gli immobili abusivi, individuando a tale fine specifici incentivi e forme di valorizzazione delle attività di accertamento svolte dai comuni in questo ambito, nonché garantendo la trasparenza delle medesime attività.

La seconda è quella di prevedere strumenti e modelli organizzativi che facilitino la condivisione dei dati e dei documenti, in via telematica, tra l’Agenzia delle entrate e i competenti uffici dei comuni nonché la loro coerenza ai fini dell’accatastamento delle unità immobiliari. Si tratta di una previsione che richiama alla mente la c.d. “Anagrafe immobiliare integrata”, già prevista dal D.L. n. 78/2010 ed in questo momento nuovamente all’attenzione del Parlamento, consistente nella creazione di un unico database contenente sia i dati catastali, sia quelli sulla titolarità dei diritti reali immobiliari.

L’appuntamento è insomma già alla prossima delega di riforma catastale.

1 Sul catasto, si veda L. EINAUDI, Una grande discussione parlamentare. La legge sul catasto del 1886, in Rivista di storia economica, 1941, pp. 201 e ss.; C. COSCIANI, La riforma tributaria, collana “Orientamenti”, Firenze, 1950, pp. 139 e ss.; A. PARLATO, Il catasto dei terreni, Palermo, 1967; N. D’AMATI, Catasto. II) Diritto tributario, in Enc. giur., VI, Roma, 1988, ad vocem; F. PETRUCCI, Catasto, in Dig. Disc. Priv. Sez. comm., III, Torino, 1988, pp. 31 e ss.; S. LA ROSA, L’Amministrazione finanziaria, Torino, 1995, p. 111; S. GHINASSI, Catasto, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, pp. 241 e ss.; G. SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003; ID., Catasto (dir. trib.), in Diz. dir. pubbl., II, Milano, 2006, pp. 814 e ss.; F. PICCIAREDDA, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, pp. 3 e ss.; C. BUCCICO, Il catasto. Profili procedimentali e processuali, Napoli, 2008; G. MELIS, Questioni attuali in tema di sistema catastale e “fiscalità immobiliare”, in Rassegna tributaria, 2010, pp. 703 e ss.; S.A. PARENTE, Il catasto e gli estimi catastali, Bari, 2020; G. SELICATO, S.A. PARENTE, La “riforma del catasto fabbricati” nella recente proposta di delega per la revisione del sistema fiscale: linee di sviluppo e criticità, in Riv. tel. dir. trib., 2021.

2 Pag. 27.

3 Sulla variabilità del rapporto tra valore di mercato e valore catastale, v. G. TROVATI, Alla lotteria del Catasto gli immobili quotati un terzo del loro valore reale, in Il Sole 24 ore, 8 marzo 2022, p. 12. Va detto, peraltro, che guardando alla situazione per regioni, la tabella ivi contenuta, a fronte di un rapporto medio di 1,98, vede 16 regioni su 20 con valori compresi tra 1,74 e 2,15. Soltanto il Molise (1,49) e il Friuli (1,68) presentano uno scarto (in danno) superiore al 20%, e soltanto una regione (il Trentino Alto Adige, con 3,22) presenta uno scarto (a favore) superiore (peraltro ampiamente) al 10%. Sicché la situazione a livello regionale è tutt’altro che drammatica. Diversa è invece la situazione parametrata ai singoli immobili che emerge dall’ulteriore tabella ivi allegata, che vede una variabilità notevolmente superiore.

4 Cfr. il documento MEF-Agenzia delle Entrate «Gli immobili in Italia 2019. Ricchezza, reddito e fiscalità immobiliare», https://www1.finanze.gov.it/finanze3/immobili/contenuti/immobili_2019.pdf, secondo cui i valori di mercato mediamente superiori di due volte il valore imponibile IMU (p. 90).

5 Cfr. B. FLAMMERI, Catasto: centrodestra bocciato per un voto, Lupi salva il governo, in Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2022, p. 13.

6 Ne danno notizia, M. MOBILI, G. TROVATI, Fisco, intesa su casa e cedolari con l’ennesimo restyling al testo, in Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2022, p. 5.

7 C. COSCIANI, L’imposta ordinaria sul patrimonio nella teoria finanziaria, Urbino, 1940, p. 122; G. DALLERA, voce Patrimonio (imposta sul), in Dig. Comm., vol. X, Torino, 1994, p. 490; G. STAMMATI, voce Patrimonio (imposta ordinaria sul), in Nss. Dig., vol. XII, Torino 1965, p. 646; M.S. KNOLL, Of Fruit and Trees : The Relationship Between Income and Wealth Taxes, 53 Tax L. Rev., 2000, pp. 587 e ss.; E. MORSELLI, Le imposte in Italia, VIII ed., Padova, 1965, p. 114; L. EINAUDI, Principii di scienza delle finanze, Torino, 1932, p. 176; A. DE VITI DE MARCO, Principi di economia finanziaria, Torino, 1939, p. 184; A.D. GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1938, p. 227.

8 Ci si riferisce alla nota pronuncia del 1995 (c.d. HalbteilungsgrundsatzBVerfGE 93, 121) che aveva ritenuto inammissibile, per violazione del diritto di proprietà, un’imposizione complessiva sui redditi di un imprenditore superiore al 50%, e alla successiva sentenza (BVerfGE, 2° Senato, 18-1-2006 - 2 BvR 2194/99), che, traendo argomento dall’art. 14, 2° co. della Costituzione tedesca – secondo cui «la proprietà deve servire anche al bene comune» – ha precisato che la sentenza del 1995 non andava letta nel senso che esiste un tetto massimo alla tassazione a difesa dell’economia privata e, in particolare, dei diritti proprietari, intendendo essa solo «gettare le basi per un giudizio di ragionevolezza circa la tassazione medesima». Ricorda peraltro E. MARELLO, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, 2006, p. 64, come a seguito delle consistenti riduzioni di entrata e delle difficoltà amministrative conseguenti la sentenza, l’imposta è stata abrogata due anni dopo la pronuncia della rilevante decisione giurisprudenziale. Ricorda inoltre il CNEL nella propria audizione dinanzi alle Commissioni finanze sulla Riforma tributaria (2021), p. 22, nota 25, il caso della Impôt sur la fortune francese in cui, con alterne vicende, furono posti limiti superiori al livello complessivo del prelievo fiscale, inclusa la stessa ISF, in modo che non eccedesse una percentuale (da ultimo, la metà) del reddito imponibile.

9 A. URICCHIO, La riforma dei tributi comunali, cit., p. 57-58. L’esigenza di un utilizzo in chiave funzionale del catasto era già stata rilevata ne “Il Libro Bianco della Fiscalità Immobiliare. Per una riconversione del patrimonio edilizio che garantisca sicurezza sismica, benessere abitativo ed emissioni zero” a cura di un tavolo di lavoro istituito dall’ANCE con la partecipazione anche di chi scrive, i cui risultati erano stati presentati nell’ambito di un seminario tenutosi presso la LUISS Guido Carli in data 26.09.2018.

10 A. URICCHIO, La riforma dei tributi comunali, in AA.VV. (a cura di A. Uricchio, M. Aulenta, P. Galeone e A. Ferri), I tributi comunali dentro e oltre la crisi, t. I, Bari, 2021, p. 55.