Scritto da Franco Gallo • gen 2020
Il lavoro analizza il declino delle Istituzioni rappresentative democratiche, fondate sulla delega dei poteri da parte degli elettori. La diffusione delle tecnologie digitali e lo sviluppo della rete, aperta a tutti, ha dato vita alla “democrazia del pubblico”. Le persone si aggregano in gruppi identitari, che si dividono e scontrano sulla rete ostacolando la sintesi nelle Istituzioni. I leaders cercano il consenso omologandosi alla rete, i Partiti si trasformano in comitati elettorali del leader. La democrazia digitale può rinnovare i Partiti e le Istituzioni rappresentative, ma non può sostituirle. La dimensione planetaria della rete è il principale ostacolo allo sviluppo di strumenti di democrazia digitale, per la difficoltà di assicurare a tutti il libero accesso e i diritti, garantiti dalla Costituzione.
The paper analyzes the decline of democratic representative institutions, founded on the delegation of powers by the voters. The spread of digital technologies and the development of the network, open to all, has given rise to "public democracy". People aggregate into identity groups, which divide and clash on the network, hindering the synthesis in the institutions. The leaders seek consensus by homologating to the network, the parties are transformed into electoral committees of the leader. Digital democracy can renew representative parties and institutions, but it cannot replace them. The planetary dimension of the network is the main obstacle to the development of digital democracy tools, due to the difficulty of ensuring free access and rights for all, guaranteed by the Constitution.
1.
1.2 Parlare oggi di Democrazia significa, anche e soprattutto, della democrazia del futuro prossimo o dell’era digitale e, di conseguenza, della crisi del modello di democrazia rappresentativa e della sua possibile integrazione con elementi di democrazia diretta.
Si capisce, quindi, perché in questa situazione, specie dopo l’avvento della rivoluzione informatica, si parli sempre meno di democrazia tout court e la si aggettivi in funzione del tema che si intende trattare. La si definisce così, oltre che «rappresentativa», anche «liberale», «parlamentare» o «presidenziale», «elettorale», «sociale», «digitale», «formale» o «sostanziale», «diretta» o «indiretta», «bipolare» o «multipolare», «maggioritaria» o «proporzionale», «consensuale» o «conflittuale», «consociativa» e «competitiva», fino ad arricchire tale polisemia con ulteriori aggettivazioni di significato più strettamente politico: «plebiscitaria», «populista», addirittura «illiberale».
Tutto ciò porta inevitabilmente a domandarci se eventuali iniezioni di democrazia diretta, fondate su referendum propositivi e su comunicazioni, informazioni e interventi diffusi via Internet, possano effettivamente correggere in senso più partecipativo e in meglio l’attuale sistema.
Non è facile dare una risposta a questa domanda in un contesto, come l’attuale, in cui lo strumento telematico, di cui dovrebbe necessariamente avvalersi la democrazia diretta digitale, appare difficilmente regolabile e controllabile a causa del suo carattere planetario ed è, quindi, soggetto ad abusi e manipolazioni da parte dei gestori e degli stessi utilizzatori. Dico subito che, in tale contesto, una democrazia diretta che non sia complementare (o solo integrativa) di quella indiretta parlamentare, corre il rischio di restare fuori dai paradigmi giuridici del moderno costituzionalismo. Provo a spiegare meglio questo mio pessimismo senza entrare, però, nell’articolato dibattito teorico sulla crisi della classica definizione bobbiana di democrazia in termini di uguaglianza e di lotta alle ingiustizie e sulla distinzione che si è profilata in alternativa negli ultimi anni del Novecento tra liberalismo, istituzioni e, soprattutto, sulla non inserzione della protezione dei diritti liberali nella definizione di democrazia1.
1.2. Nell’era contemporanea per democrazia rappresentativa si intende di solito un sistema in cui il popolo ha il potere di assumere, tramite rappresentanti, le decisioni pubbliche, ossia un sistema di delega che seleziona i rappresentanti dei cittadini attraverso le elezioni. Insomma, si tende a far coincidere la democrazia rappresentativa con quella elettorale parlamentare.
In Italia, almeno nel periodo che va dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, quest’ultima forma di democrazia ha retto soprattutto sul fronte della partecipazione sociale. Il passaggio, in quel periodo, dal parlamentarismo del primo Novecento – che era espressione di un governo oligarchico di notabili eletti a loro volta da notabili – alla democrazia dei partiti ha, infatti, consentito di recuperare importanti elementi partecipativi. In effetti, con l’avvento del suffragio universale, la rappresentanza è stata espressa dai partiti in quanto organizzazioni di massa, dotate di entità strutturate, comunicanti in modo permanente con la società civile e, quindi, con gli elettori. Non può negarsi che nella democrazia dei partiti e delle ideologie del secondo Novecento si votava per un partito prima che per la persona e per la persona in quanto candidata di un partito.
Il fatto è che, come tutti sappiamo, il sistema dei partiti è entrato in crisi a partire dagli anni Ottanta/Novanta per ragioni ben note comuni alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e meridionale. Siamo ora in una situazione in cui i partiti di massa, lungi dallo svolgere la loro funzione di mediazione, si sono trasformati in oligarchie all’interno dello Stato e, molto spesso, in centri di potere autoreferenziali. Travolti da un’ondata di sfiducia, provocata anche da estesi fenomeni corruttivi (penso alla Tangentopoli degli anni Novanta), essi sono andati in crisi insieme alla prima Repubblica. È subentrata allora quella che gli storici e i politologi chiamano la «democrazia del pubblico» (audience democracy), in cui i partiti lasciano ampio spazio alla personalizzazione e la comunicazione, in qualunque modo realizzata, prende sempre più il posto dell’organizzazione: da una parte, le identità collettive, garanti della partecipazione, si sono indebolite e sono state compensate dalla fiducia personale diretta; dall’altra, il rapporto con la società civile e con gli elettori è passato sempre più attraverso i media e il marketing politico.
Insomma, i partiti si sono allontanati dalla società e, nel contempo, si sono per lo più convertiti in comitati elettorali al servizio di un capo, il quale sviluppa il rapporto con i cittadini e la società servendosi di sofisticate tecniche comunicative, che negli ultimi anni si sono fondate soprattutto sulla Rete.
L’avvento di questo tipo di democrazia non significa, però, che i partiti siano scomparsi. Significa solo che essi tendono a riorganizzarsi intorno al leader e, seppur indeboliti, operano ancora nei luoghi in cui si realizza formalmente la democrazia rappresentativa, e cioè nelle competizioni elettorali e in Parlamento.
La differenza principale rispetto al passato è che essi sono, anzitutto, al servizio di un leader o di un candidato e che il Parlamento sta perdendo la sua centralità. Con riguardo al recente passato, basta pensare, in Italia, ai partiti di Di Pietro e di Berlusconi e, ora, alla Lega di Salvini e al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.
È facile percepire che dietro questa svolta si nasconde il virus plebiscitario della scelta immediata e senza mediazioni tipica della rappresentanza populista, forse anche la tentazione di affidare i nostri destini ad un capo che fa promesse di salvezza.
Ciò non vuol dire che la partecipazione politica sia inevitabilmente andata in crisi insieme ai partiti di massa. Vuol dire, più semplicemente, che la partecipazione elettorale si è ridotta ed è stata sostituita da altre forme di partecipazione. Prova ne sono in Italia le recenti esperienze di governance co un me i “governi negoziati” e condivisi; governi, tutti, formati – come quello attuale – tra movimenti e partiti disomogenei e frutto di un’instabilità politica strutturale, cui – va sottolineato – si sono contrapposti, seppur tiepidamente, movimenti di protesta e rivendicativi, segno di “orizzontalità democratica”, come il “popolo viola”, i girotondi spontanei, le manifestazioni all’insegna dello slogan “Se non ora quando?” e le “Sardine”, figlie della Rete e del tutto sganciate dalla realtà dei partiti.
E non solo integrare.
2.
2.1. È inevitabile, a questo punto, constatare che è in tale contesto che la Rete si è imposta come il mezzo più rapido e continuativo di consultazione, informazione e contatto tra cittadini e quindi, almeno in astratto, come strumento apparente di maggiore partecipazione alla vita democratica.
Potenzialmente e teoricamente, i social network come Facebook, Twitter, Instagram e i blog canals potrebbero, dunque, aprire la via a forme di democrazia diretta deliberativa: quella che, nel gergo degli internauti, dovrebbe costituire la Democrazia 4.0.
Ciò mi sembra di difficile, se non impossibile, realizzazione. Il ricorso al canale telematico pone, infatti, numerose e complesse questioni che, se non risolte all’interno e nel contesto di una rinnovata democrazia rappresentativa, potrebbero pregiudicare il conseguimento dei vantaggi partecipativi.
La prima questione è di ordine politico e deriva dal fatto che l’uso assiduo ed esteso di Internet a fini di propaganda politica da parte di singoli movimenti organizzati indebolisce le identità collettive e, di conseguenza, moltiplica la personalizzazione anziché scoraggiarla, dando eccessiva visibilità a figure dotate di particolari capacità di attrazione e comunicazione personale.
La seconda questione è di ordine sociale e consegue al fatto che la Rete non sempre favorisce la discussione pubblica e la mediazione che dovrebbero svolgersi nella società civile o in Parlamento. Infatti, la creazione sul web di gruppi in base a legami di affinità tra “amici” e di ostilità contro “comuni nemici” avviene fuori dal tradizionale circuito politico, riduce la possibilità di incontro tra opposti schieramenti e quindi allarga, non sana, la frattura tra le comunità. Viene cosí favorita la tendenza a “schierarsi” sulla base di slogan. Internet spesso distrae e disperde. Basti pensare ai tanti portali che nascono ogni giorno. Dice bene Jürgen Habermas che “nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità sono come arcipelaghi dispersi: ciò che manca loro è il collante inclusivo, la forza di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono importanti”.
La terza questione è di ordine strettamente costituzionale ed è la più grave e la più difficile a risolversi: in primo luogo, perché la democrazia elettronica, intesa quale strumento di democrazia diretta, per sua natura non favorisce, anzi tende ad ostacolare, quei processi deliberativi ponderati e quella efficace interazione tra le parti politiche che sono l’essenza e, insieme, la ragione di ogni moderna democrazia parlamentare2; in secondo luogo, perché essa tende a contrapporre al modello della democrazia liberale, pluralista e comunitaria, adottato dalla nostra Costituzione, un modello giacobino di democrazia immediata e plebiscitaria, basato – come ho detto – sulla delegittimazione delle istituzioni rappresentative., sul rifiuto, appunto, dei limiti costituzionali al potere della maggioranza. Un modello che nega il valore della sussidiarietà, e cioè dell’apporto attivo al bene comune da parte delle persone e delle formazioni sociali.
2.2. Per quanto finora detto è, dunque, chiaro che nell’attuale contesto storico la democrazia rappresentativa non può essere sostituita, tout court, dalla democrazia diretta piena, ma può essere solo rigenerata dal fattore tecnologico. La sua sopravvivenza è, infatti, la necessaria conseguenza dell’intangibilità della funzione parlamentare quale regolata da tutte le Costituzioni dei paesi occidentali. Presuppone il recupero della mediazione, garantita sia da partiti rinnovati che da entità sociali differenti, quali i sindacati, i gruppi di interesse organizzati, le associazioni professionali e gli altri corpi intermedi.
I partiti dovrebbero, in particolare, uscire dalla crisi che stanno attraversando e assumere strutture e funzioni diverse da quelle attuali ed essere rafforzati nella loro capacità di elaborazione politica dal contributo di associazioni, centri studi e fondazioni di origine non correntizia, aventi esclusivo fine di ricerca. Dovrebbero, in particolare, tornare ad essere associazioni di base, portavoce di gruppi più o meno stabili di cittadini, rette da comuni opzioni ideali ed in grado di promuovere, grazie alla vita associativa e con l’ausilio della Rete, l’impegno collettivo, la passione politica e la ridefinizione del rapporto tra formazione della conoscenza e decisione politica. L’ideale sarebbe che essi recuperassero la loro capacità di essere istituzioni rappresentative, di stabilizzare la rappresentanza e di formare e selezionare i dirigenti politici, riaprendosi per questa via al confronto e al controllo di tutti i soggetti interessati alle decisioni pubbliche e concorrendo a formare governi che interpretino realmente le esigenze e le aspettative dei cittadini.
Non è una soluzione semplice e a portata di mano, anche perché richiederebbe, tra l’altro, il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti e, comunque, l’imposizione ad essi di precise condizioni di trasparenza e di democrazia interna che attualmente non sono garantite. Non va però dimenticato che, come vuole l’art. 49 della Costituzione, i partiti, nonostante tutto, sono ancora gli unici strumenti per definire le politiche ed eleggere i rappresentanti. Rigenerati nel senso che ho detto, utilizzeranno la Rete e concorreranno con essa alla formazione dell’opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale. L’importante è che non siano sovrastati o sostituiti dal web.
Insomma, la democrazia rappresentativa deve essere integrata e migliorata, ma non soppiantata dalla democrazia digitale.
Che quest’ultima non sia in grado di sostituire del tutto la democrazia rappresentativa deriva, del resto, anche dal fatto, assorbente e più preoccupante, che le manifestazioni di volontà veicolate nel cyberspazio, strumento della democrazia digitale, si prestano con molta, troppa facilità ad abusi e manipolazioni, senza che, almeno nella presente fase storica, a queste si possa porre sicuro rimedio con interventi legislativi, amministrativi, giudiziari, globali, mirati e tempestivamente applicabili3.
3.
3.1. Si può dire in conclusione che la Rete può essere un bene, ma anche un male.
Può essere un bene, se è vista come un essenziale strumento di maggiore partecipazione che colmi parzialmente la lacuna prodotta dalla crisi dei partiti e ne aiuti la ripresa, come un mezzo di interconnessione planetaria tra gli essere umani, come un indispensabile veicolo del fondamentale diritto di informare e di essere informati, di istruire e di essere istruiti (si pensi alla diffusione delle università telematiche); come un ulteriore mezzo di controllo degli elettori sugli eletti; come una moltiplicazione della capacità di iniziativa dei cittadini. P. Rosanvallon4 parla, al riguardo, di funzioni che danno corpo alla “controdemocrazia”, vale a dire il vigilare, l’impedire e il giudicare.
Può essere, però, anche un male e i suddetti benefici potrebbero annullarsi se essa non ha una sua disciplina soprattutto a livello di garanzie costituzionali; se resta in mano ad un’aristocrazia del web, ad una élite capace di gestirla senza controllo pubblico e, quindi, di determinare i comportamenti altrui e minare la sicurezza sui procedimenti e sul voto5; se – come denunciano P. Krugman e M. Hanson6 – erode il potere dello Stato di regolamentare il materiale calunnioso, pornografico, razzista, sessista o omofobo e le attività dei gruppi politici estremisti.
Dipendono, perciò, da noi – ossia dai governi, dai governati e dalle autorità internazionali dotate di influenza e di potere normativo – l’uso accorto che si farà della strumentazione digitale e l’individuazione delle modalità della sua integrazione nella democrazia costituzionale rappresentativa.
Non è un compito facile, dato il carattere planetario, difficilmente regolabile e controllabile, dello strumento telematico. Si dovrebbe, infatti, affrontare l’arduo compito di costruire un sistema normativo, nazionale ed internazionale, secondo un paradigma costituzionale pluralista che tuteli il diritto di accesso alla Rete e, nello stesso tempo, ponga limiti ai possibili abusi e manipolazioni di essa da parte sia dei gestori che degli utilizzatori. Bisognerebbe, cioè, avere una disciplina super partes che garantisca con pienezza, senza discriminazioni e a livello planetario, i diritti fondamentali di informazione dei cittadini e le libertà degli utenti.
Ciò – lo ripeto – non sarà facile –, ma non vedo, allo stato, altra via da seguire.
3.2. Prima di costruire un giorno a livello planetario una democrazia informatica o di armonizzarla con le singole democrazie rappresentative costituzionali, sarebbe comunque necessario passare subito attraverso una presa di coscienza collettiva, per sua natura faticosa e lenta.
Intanto, sarebbe sufficiente accompagnare questa difficile fase di attesa di un accordo globale, con la presa di distanza, sul piano politico, morale e dell’opinione pubblica, delle più evidenti distorsioni dello strumento della Rete che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi. Penso alle insofferenze e al senso di impotenza ingenerati in tutto il mondo dalla notizia che, per ragioni di sicurezza e difesa militare, gli USA sarebbero in grado di controllare, attraverso gli apparati informatici e i server “radice” (root), i comportamenti di milioni, forse miliardi di cittadini (il riferimento è al c.d. datagate). E penso ancora al fatto che il governo iraniano, con l’ausilio tecnico di Nokia, è riuscito in passato a individuare numerosi oppositori del regime di Ahmadinejad che si avvalevano della Rete e al fatto che la Cina ha tempo fa oscurato, con la complicità di Google, alcuni siti web che richiamavano i valori della democrazia occidentale e, soprattutto, ha trovato il modo di usare i social media varando un piano per assegnare ad ogni cittadino un voto di “fiducia sociale”7.
Questi episodi – associati a quello più recente che ha coinvolto Facebook nella nota vicenda di Cambridge Analytica8 – sono la migliore riprova della confusione e dei rischi che in materia si corrono in assenza di una regolamentazione globale dell’uso della Rete.
3.3. Sta di fatto che, finché non si introdurrà una soddisfacente regolamentazione del cyberspazio su base transnazionale, transgenerazionale e non ideologica, difficilmente la Rete potrà costituire un sicuro spazio di libertà e, perciò, un valido strumento della democrazia diretta, rafforzativo di quella parlamentare rappresentativa. Essa si presterà, anzi, sempre più a manipolazioni e distorsioni comunicative funzionali anche a politiche di controllo sociale. Non è, comunque, sostenibile una situazione, come l’attuale, in cui tre o quattro aziende private, nonché alcune potenze mondiali, controllano lo spazio di dialogo tra i cittadini, decidono quali voci hanno più visibilità e quali vengono nascoste.
Per ora, prevale però l’algocrazia, che mina la democrazia rappresentativa e costringe a muoversi tra fake news e giustizia privata esercitata dalle grandi piattaforme, tra trojan e processi sempre più mediatici, tra politica on-line e discriminazione degli algoritmi. Come dice Lawrence Lessig9, «il cyberspazio lasciato a sè stesso – e per il momento, purtroppo, lo è – difficilmente potrà mantenere le promesse di libertà e di maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Potrebbe anzi divenire un perfetto strumento di controllo».
1 Sul punto vedi, soprattutto, R.A. DAHL, Sulla democrazia, Bari, 2006, passim; nonché, Y. Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Milano, 2018, pp. 33-36.
2 Aveva ragione al riguardo Carl Schmitt (Dottrina della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 322) quando, già negli anni Ottanta, premoniva che “se un giorno, per mezzo di ingegnose invenzioni, ogni singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio potesse esprimere la sua opinione sulle questioni politiche, ciò non sarebbe affatto una democrazia particolarmente intensa”, ma una privatizzazione dello Stato, perché il giudizio così concorde di milioni di individui isolati “non dà come risultato nessuna pubblica opinione, ma solo una somma di opinioni private…il risultato della somma degli egoismi è un egoismo di più grande dimensione, non la solidarietà necessaria a dare coesione alla società”.
3 Ciò senza tener conto dell’ulteriore circostanza, peraltro temporanea, della sussistenza, allo stato, del c.d. digital divide, e cioè del divario tecnologico fra le diverse generazioni e i diversi contesti economici e sociali; divide che, almeno nel presente momento, non consente alla Rete di estendersi con la dovuta uniformità e generalità.
4 P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2017.
5 Cfr. F. PALLANTE, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino, 2020.
6 P. KLUGMAN e M. HANSON, Ingenious. The unintended consequences of human innovation, Harvard University Press, Cambridge, 2020, p. 218 ss..
7 Su questi e altri aspetti negativi v. IPPOLITA, La rete è libera e democratica (falso!), Laterza, Bari-Roma, 2014, passim, in particolare, pp. 74-77. Per quanto riguarda l’enorme influenza delle Big Tech come Facebook e Google, v. il recente libro di F. FOER, I nuovi poteri forti, Longanesi, Milano, 2018, passim. Secondo il Garante italiano per la Protezione dei Dati Personali, A. Soro, l’innesto in Cina della tecnologia non solo nella vita privata e pubblica, ma anche nella stessa esistenza individuale è testimoniato dalla creazione del Social credit system che assegna ai cittadini – ora su base volontaria, dal 2020 obbligatoria – un “punteggio” fondato sulla valutazione dei comportamenti, penalizzando quelli socialmente indesiderabili con la preclusione all’accesso anche a determinate scuole o servizi di welfare (intervento al convegno per la Giornata europea della protezione dei dati personali su “I confini del digitale. Nuovi scenari per la protezione dei dati”, Roma, Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari, 29 gennaio 2019). La “vita a punti” dei cinesi sembra, dunque, indicare la via di un pericoloso totalitarismo digitale, fondato sull’uso della tecnologia ai fini di un controllo ubiquitario sul cittadino, su una malintesa idea di sicurezza e, in definitiva, sulla sottovalutazione dell’importanza della protezione dei dati.
8 Le rivelazioni del whistleblower Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, hanno toccato uno dei temi centrali del rapporto tra tecnologia e politica. Secondo quanto affermato dall’Observer, dal Guardian e dal New York Times, dopo mesi di verifiche e trattative con la fonte, Cambridge Analytica avrebbe sfruttato i dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook al fine di targetizzare e ottimizzare al massimo la portata della propaganda politica della campagna Trump, in occasione delle elezioni USA che lo hanno visto vincitore. Secondo quanto emerso da tali indagini, questi dati sarebbero stati raccolti senza la consapevolezza degli utenti e in modo da violare le condizioni di utilizzo di Facebook. Cambridge Analytica avrebbe così utilizzato – a fini diversi da quelli di ricerca accademici da essa indicati – un’applicazione apparentemente innocua (thisisyourdigitallife), scaricata da 270.000 persone, per accedere ai dati di questi e a quelli dei loro contatti su Facebook, fino a raccogliere “a strascico” le informazioni di un enorme bacino di utenti. È evidente che a fare le spese di questo scandalo politico-tecnologico sono stati i cittadini utenti che non hanno potuto esercitare alcun controllo sull’utilizzo dei dati da loro condivisi on-line.
9 L. LESSIG, Introduction, in Free Software, Free Society. The Selected Essays of Richard M. Stallman, University Press, Boston, 2002.
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