Scritto da Angelo Spena • gen 2025
Al di là di numerosi tentativi del legislatore di dare un assetto unitario alla regolamentazione del mercato finanziario, allo stato attuale persistono discipline differenziate dei segmenti che lo compongono, con riguardo alle disposizioni contenute essenzialmente nel Testo unico bancario e nel Testo unico della finanza.
Nel commentare i recenti sviluppi della disciplina in materia di trasparenza, scopo del presente lavoro è dimostrare come, sia per quanto concerne il settore bancario che per quel che riguarda il settore mobiliare, vi sia una tendenza a dettare regole che presentano elementi comuni.
A tal fine particolare rilevanza verrà, pertanto, riservata alle regole che sovrintendono ai comportamenti che gli operatori devono tenere nei confronti degli utenti di tali servizi finanziari.
In questo modo sarà possibile offrire un quadro compiuto della disciplina che ne evidenzi i più recenti mutamenti, originati in larga misura dalle influenze del diritto europeo.
Beyond the many attempts by the legislator to give a unified approach to financial market regulation, there are still distinct disciplines of the segments that compose it, with regard to the provisions contained essentially in the Single Banking Act and in the Single Text of Finance. In commenting on recent developments in the discipline on transparency, the aim of this paper is to demonstrate how, both in the banking sector and in the securities sector, there is a tendency to dictate rules that present common elements. To this end, particular importance will be reserved for the rules that oversee the behaviors that operators have to keep with regard to users of financial services. In this way it will be possible to offer a complete picture of the discipline that shows the most recent changes, which are largely due to the influence of the european law.
1.
A trenta anni dal varo del T.u. in materia bancaria e creditizia (D.lgs. n. 385/1993) possono farsi una seria di riflessioni sulla portata innovativa e sulla tenuta attuale di quella che all’epoca fu definita “la nuova Legge bancaria”, legge che ha avuto un ruolo fondamentale per il settore bancario e più in generale per il settore finanziario, sia per quello che concerne i soggetti (il concetto di banca) che per le attività (bancaria e finanziaria), che per le regole di condotta delle banche e degli altri intermediari, che dell’attività di vigilanza.1
Tra i principali elementi di novità, annunciati all’epoca, va certamente inclusa la riordinata disciplina della “Trasparenza delle condizioni contrattuali”, contenuta nel Titolo II, agli artt. 115 -120 del Capo I (Operazioni e servizi bancari e finanziari) che, come ha chiarito all’epoca la Relazione illustrativa al Decreto, ha inteso operare «una razionalizzazione della legislazione previgente” ossia delle norme contenute nella L. 154/92 sulla trasparenza e nella L. 142/1999 sul credito al consumo adottando un criterio soggettivo, uniforme per le banche e per gli altri Intermediari allora regolamentati dall’art. 106 del T.u.b.
A distanza di circa 30 anni il Titolo VI del T.u.b. non è rimasto invariato, anche se le norme sono oggetto di un titolo autonomo, sostanzialmente invariato nel suo impianto, a conferma di un lavoro importante posto in essere dal test unificatore del 1993. La titolazione è stata mutata in “Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti” e la disciplina ben più ampia e articolata è contenuta negli art. 115-120-novesdecies del Capo I, che conserva il titolo “Operazioni e servizi bancari e finanziari”.
Prima di affrontare in particolare l’analisi del Titolo VI alla luce dell’interpretazione della dottrina e della Giurisprudenza, pare opportuno richiamare l’attuale quadro normativo generale in cui esso si inserisce.
A) La banca come impresa
In primo luogo, va ricordato che l’art. 1 del D.lgs. n. 385 del 1993 (“Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”) definisce “banca” “l’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria”. A sua volta, l’art. 10, co. 1, del Testo Unico chiarisce cosa si debba intendere per “attività bancaria”, precisando che “la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa”. Dalla disposizione appena richiamata si comprende come lo specifico dell’attività bancaria si debba ravvisare nell’esercizio congiunto dell’attività di raccolta e di erogazione del credito, il che si realizza quando il denaro raccolto (la c.d. massa fiduciaria) viene utilizzato per realizzare operazioni di credito.2
Appare di poi opportuno richiamare alcuni aspetti importanti riferiti: a) alla banca come soggetto, e, dunque, come impresa; e b) alla attività (o alle attività) che costituiscono l’oggetto di quell’impresa.
Quanto al primo aspetto, occorre evidenziare che l’impresa bancaria è soggetta ad un penetrante controllo pubblico, che si fonda sulla circostanza che le attività svolte dalla banca coinvolgono interessi tutelati costituzionalmente (in primo luogo dall’art. 47, il cui primo comma sancisce che “la Repubblica incoraggia e tutela in risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”). È proprio per tale motivo che lo svolgimento dell’attività bancaria è soggetto ad un provvedimento di autorizzazione, che condiziona l’iscrizione al registro delle imprese (e quella, ulteriormente conseguente, all’albo delle banche). Le condizioni necessarie per il rilascio dell’autorizzazione sono elencate nell’art. 14 del Testo unico bancario e consistono in: a) l’assunzione della forma giuridica di società per azioni o di società cooperativa a responsabilità limitata; b) l’esistenza di un capitale sociale minimo (distinto a seconda che si tratti di banca s.p.a. o di banca cooperativa); c) lo stabilimento in Italia della sede legale e della direzione generale; d) un programma dell’attività iniziale; e) la sussistenza di requisiti di onorabilità, competenza e correttezza nei titolari di partecipazioni rilevanti; f) la sussistenza di requisiti di onorabilità, professionalità, indipendenza, competenza e correttezza nei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo della società bancaria; g) l’assenza di stretti legami tra la banca, i soggetti del gruppo di appartenenza e altri soggetti, che ostacolino l’effettivo esercizio delle funzioni di vigilanza; h) l’adesione ad un gruppo bancario cooperativo (per quanto riguarda le banche di credito cooperativo).
Il rilascio della autorizzazione è ora di competenza della Banca centrale europea (indistintamente per tutte le banche e non soltanto per quelle c.d. “significative”), sia pure sulla base di una proposta della Banca d’Italia (che invece in precedenza era titolata al rilascio delle autorizzazioni). A partire dal momento del rilascio della autorizzazione, l’attività deve essere avviata entro un anno: avvio che, peraltro, potrà avere luogo soltanto dopo l’adesione ad un sistema di garanzia di depositanti ed ad un sistema di risoluzione stragiudiziale delle controversie con i clienti. Quanto all’apertura di succursali, la banca autorizzata dalla autorità di vigilanza in un paese membro potrà aprire succursali in altri paesi membri senza necessità di una nuova autorizzazione da parte delle rispettive autorità di vigilanza (sarà sufficiente notificare l’intenzione di aprire una nuova succursale all’autorità di vigilanza del paese membro diverso da quello di origine, o alla BCE se si tratti di una banca “significativa”).
Trattandosi, però di banca extracomunitaria (cioè, avente la propria sede in un paese non membro dell’UE), sarà invece necessaria un’autorizzazione, da rilasciarsi dalla Banca d’Italia (anch’essa subordinata alla ricorrenza di specifici presupposti). È infine possibile che una banca di un paese membro UE intenda non aprire una dipendenza in un altro paese membro, bensì semplicemente svolgervi una prestazione di servizi: anche in questo caso non è prevista alcuna autorizzazione, ma una notifica all’autorità di vigilanza.
B) L’attività delle banche
La circostanza che la banca sia l’impresa autorizzata allo svolgimento dell’attività bancaria, e che quest’ultima consista nello svolgimento congiunto dell’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico e della erogazione del credito non significa, però, che la banca non possa svolgere altre attività, oltre a quella, per così dire, “tipica”. Quest’ultima è senz’altro riservata alle sole banche (art. 10, co. 2), ma è previsto anche che “le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali”, anche se vengono fatte salve le riserve di attività previste dalla legge. Prima della applicazione della Direttiva 89/696 (c.d. “seconda Direttiva di coordinamento”) e delle disposizioni interne che ne hanno costituito esecuzione (il D.lgs. n. 481 del 1992 e lo stesso D.lgs. n. 385 del 1993) lo svolgimento delle altre “attività finanziarie”, essendo precluso alle banche, veniva per lo più demandato a società specializzate facenti parte di un gruppo al cui vertice si poneva una banca (il modello del c.d. “gruppo polifunzionale”); sennonché, con l’introduzione delle discipline da ultimo ricordate si affermava la possibilità per la banca di svolgere quelle attività anche “direttamente” (modello della c.d. “banca universale”).
Tuttavia, non viene fornita una definizione esatta di ciò che possa o debba intendersi per “attività finanziaria”: sicuramente debbono ricomprendersi in tale nozione in servizi di pagamento ed i servizi di investimento; inoltre, un ulteriore aiuto nella ricostruzione della nozione di attività finanziaria può trovarsi nell’elenco delle attività ammesse al c.d. “mutuo riconoscimento” (art. 1, co. 2, lett. f, T.u.b.). Gli interpreti hanno compiuto notevoli sforzi ermeneutici per tentare di giungere ad una nozione generale di attività finanziaria che, astraendo dai riferimenti obiettivi di legge, pervenisse ad una definizione ampia e condivisa. Tra questi merita di essere segnalato il contributo che conclude nel senso che “le attività finanziarie esercitabili dalle banche sono quelle che sono realizzate attraverso contratti che prevedono l’assunzione di un rischio finanziario”, mentre “sono escluse, in principio quelle che prevedono l’assunzione di un rischio di tipo industriale”.
C) La vigilanza sulle banche
Si è detto che l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività bancaria spetta alla BCE, nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti. Pare opportuno, allora, sia pur sinteticamente, dare conto della organizzazione della vigilanza sulle banche, articolata sia a livello europeo che a livello domestico. Il Regolamento del Consiglio europeo n. 1093 del 2010 ha istituito l’Autorità bancaria europea: essa ha soprattutto il compito di assicurare che la disciplina emanata dalla Unione europea venga applicata uniformemente, potendo allo scopo emanare linee guida, raccomandazioni, orientamenti, nonché i c.d. “technical standards” (distinti in “regulatory” e “implementing”). Essa ha quindi poteri di natura essenzialmente normativa e regolamentare, cui anche la BCE (nello svolgimento dell’attività di vigilanza prudenziale) deve attenersi. L’attività di vigilanza prudenziale della BCE deve essere correttamente considerata all’interno del c.d. “meccanismo di vigilanza unico” (SSM: Single Supervisory Mechanism), il cui disegno complessivo è stato compiuto dal Regolamento n. 1024 del 2013.3 Nell’ambito di tale quadro, il Regolamento stabilisce che la BCE esercita la vigilanza sulle banche, che viene esercitata in modo diretto e pregnante su alcune banche, le c.d. “banche significative” (dove la “significatività” viene determinata sulla scorta di alcuni parametri, tanto dimensionali, che qualitativi), ma anche, seppur in modo indiretto, su tutte le altre banche; e tenendo conto, poi, della circostanza che vi sono alcuni temi sui quali la BCE è competente indipendentemente dalla natura della singola banca (tra i quali, come ricordato poc’anzi, il potere di rilasciare l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività bancaria; ma anche quello di autorizzare l’acquisizione di partecipazioni significative al capitale delle banche).4
A livello domestico, le autorità di vigilanza sono individuate nel Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio; nel Ministero dell’Economia e delle Finanze, e nella Banca d’Italia. Al CICR è attribuita dall’art. 2 del Testo Unico Bancario l’alta vigilanza in materia di credito e risparmio: i suoi poteri sono di natura essenzialmente normativa regolamentare, e vengono esercitati su proposta della Banca d’Italia (tali poteri, peraltro, sono stati notevolmente limitati per dal D.lgs. n. 72 del 2015, di esecuzione della Direttiva 2013/36/UE, che ha sottratto al CICR i poteri normativi in materia di vigilanza prudenziale). Il CICR, inoltre, decide in merito ai reclami contro i provvedimenti della Banca d’Italia.
Si è molto discusso in merito alla natura di tale organismo: se possa, cioè, considerarsi avere natura politica o natura amministrativa. Quest’ultima opzione pare quella più accettabile, dato che il CICR è privo della “discrezionalità dei fini” che caratterizza l’attività politica. Anche il MEF ha poteri regolamentari, specialmente in materia di requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale sociale; ha poi il potere di sostituirsi al CICR in caso di urgenza, e poteri di “gestione” delle crisi bancarie, potendo in particolare disporre l’apertura della procedura di liquidazione coatta amministrativa, oltre che di approvare l’atto con cui la Banca d’Italia dispone la risoluzione di una banca.
La Banca d’Italia è innanzi tutto banca centrale e, come tutte le banche centrali dell’UE, fa parte del Sistema europeo delle Banche centrali, e ha competenze in materia di sistema dei pagamenti (art. 146 T.u.b.). Alla Banca d’Italia compete un potere applicativo dei Regolamenti e delle decisioni europee (art. 6 T.u.b.), e può emanare istruzioni e disposizioni particolari nei casi previsti dalla legge. Alla stessa, ovviamente, fanno capo anche poteri di vigilanza, che si articolano in un’ampia gamma di tipologie, nell’ambito delle quali si riscontrano l’attività di richiesta di informazioni, quella ispettiva vera e propria, e quella sanzionatoria. Il T.u.b. contiene una disposizione (l’art. 5) nella quale sono articolate le finalità della vigilanza (riferite, queste ultime, a tutte le “autorità creditizie”, ma significative proprio per l’attività della Banca d’Italia): vi si legge che i poteri di vigilanza vanno esercitati “avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”; il riferimento a clausole generali, come quella della “sana e prudente gestione”,5 è indicativo di una forte componente di discrezionalità nell’esercizio dell’attività di vigilanza.
2.
L’attività bancaria si realizza attraverso lo svolgimento di una pluralità di operazioni che, da un punto di vista giuridico, si traducono in altrettanti contratti. La disciplina dei contratti bancari si rinviene non soltanto all’interno del Codice civile del 1942 (Capo XVII del Libro quarto), ma anche all’interno dello stesso Testo unico bancario (si pensi, per quanto riguarda alle attività di raccolta, alla disciplina delle obbligazioni contenuta nell’art. 12).
Il Testo unico bancario (e, ancor prima, la Legge n. 154 del 1992, c.d. “legge sulla trasparenza”) contiene una serie di disposizioni di portata generale che si applicano a tutti i contratti posti in essere dalle banche (oltre che dagli intermediari finanziari). Si tratta delle disposizioni in materia di “Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti” contenute nel (Titolo VI), i cui principali tratti è qui indispensabile richiamare, non senza preliminarmente precisare che la disciplina in discorso è andata incontro, con il trascorrere degli anni, ad una progressiva evoluzione ed articolazione interna: per tale motivo, oltre ad essere disciplinati gli aspetti generali delle “operazioni e servizi bancari” (Capo I), esistono disposizioni specifiche relative al “credito immobiliare ai consumatori” (Capo I-bis), al “credito ai consumatori” (Capo II), ai “servizi di pagamento” (Capo II-bis), ai “conti di pagamento” (Capo II-ter, articolato in diverse sezioni), nonché alle “regole generali e controlli” (Capo III). In questa sede, ci limiteremo ad evidenziare i tratti salienti della disciplina “generale” di trasparenza (Capo I). Pur all’interno di tale disciplina generale, è possibile, peraltro, una serie di nuclei/temi fondamentali: il contratto; la pubblicità; le comunicazioni alla clientela, che costituiscono il “pacchetto trasparenza”.
Prima di dar conto del “trasparency package”, contenuto nel T.u.b. occorre soffermarsi sulla nascita di queste norme che negli anni ‘70 del ‘900 hanno rappresentato una vera e propria rivoluzione copernicana dei rapporti banche clienti.
3.
Esiste comune consenso nel considerare le regole di “trasparenza” il core della disciplina dei contratti bancari. Le regole esistenti sono frutto di un’evoluzione piu che ventennale in cui spicca la “legge sulla trasparenza “come punto di arrivo del dibattito degli anni ‘90 dello scorso secolo e di partenza per gli sviluppi successivi.
A partire dal secondo dopo guerra del secolo scorso l’attività delle banche era disciplinata dalla legge bancaria, mentre per i contratti esistevano poche norme contenute nel Codice civile, che si mostrarono inadeguate di fronte alle nuove esigenze dell’evoluzione tecnica e portarono alla redazione di norme generali di contratto elaborate dall’ABI, norme che furono più volte riviste, a man mano che la dottrina e la giurisprudenza evidenziavano i limiti che il Codice civile e le stesse NUB davano alle esigenze di tutela delle stesse banche.6
Le Nub erano la vera legge regolatrice dei rapporti bancari e indussero una parte della dottrina che ne aveva colto l’incidenza, a porre un’attenzione maggiore alle regole Abi che alle norme codicistiche, esaminando sulla scia della Giurisprudenza singole clausole che presentavano dubbi di legittimità e di efficacia; fioriscono in tale clima allora numerosi studi volti a definire e delimitare il potere contrattuale delle banche e a colpirne gli abusi.
In particolare le norme vigenti si rivelarono insoddisfacenti e inique nel disciplinare il rapporto banche clienti, suscitando tra gli anni ‘80 e ‘90 dello scorso secolo un ampio dibattito di riforma in nome dell’attuazione di parità di trattamento nei rapporti banche clienti, in cui si confrontarono i fautori di un controllo giudiziario (ex post) sui contratti e gli assertori di un controllo di tipo amministrativo affidato alle Autorità di Vigilanza.
Cogliendo la necessità di un intervento legislativo, Gustavo Minervini, all’epoca parlamentare per la sinistra indipendente, si fece promotore di un ampio progetto di riforma presentato alla Camera dei deputati7 alla metà del 1986, mirante tra l’altro a realizzare il principio di parità di trattamento, progetto che si pone temporalmente prima della definitiva approvazione della direttiva comunitaria sul credito al consumo,8 i cui contenuti erano però noti già da tempo, costituendo quindi un punto di riferimento per alcune proposte in esso contenute.
Il progetto era volto a regolare incisivamente diversi aspetti dei contratti bancari, prevedendo una serie di norme inderogabili, salvo che a favore della clientela, le quali tendevano a realizzare non solo la trasparenza, ma anche un certo riequilibrio delle posizioni delle parti ed a sanzionare duramente i comportamenti in violazione alla legge.
I punti qualificanti della proposta erano numerosi.
Anzitutto, uniformandosi a quanto già previsto dal Progetto di Direttiva comunitaria sul credito al consumo, la proposta imponeva di indicare il costo complessivo del credito, con un’unica aliquota percentuale su base annua (art. 1.1) e di specificarne al contempo le componenti (art. 1.1 e 2). In omaggio al principio di trasparenza, l’adozione di tale criterio mirava a facilitare al massimo il calcolo del costo dell’operazione, sia per valutarne a priori la convenienza, sia per verificarne con facilità l’esatta applicazione.
Naturalmente la proposta escludeva la possibilità del rinvio alle condizioni d’uso o usualmente praticate sulla piazza (art. 3.1), perché tale criterio, oltre ad essere in contrasto con il principio di parità di trattamento – che era ribadito dal progetto (art. 13.2) – non era e non è affatto trasparente.
Il progetto, peraltro, sanciva anche la nullità delle clausole in cui il costo complessivo del credito non fosse direttamente indicato (art. 3.1) ed escludeva quindi la possibilità di ogni rinvio ad elementi extratestuali, ancorché individuabili con sicurezza (si pensi al tasso ufficiale di sconto), verosimilmente a causa delle difficoltà per la stragrande maggioranza della clientela di seguire le variazioni di tali elementi.
Di notevole rilievo erano pure le disposizioni volte a realizzare un sostanziale riequilibrio del rapporto banca/cliente. La proposta Minervini ammetteva la facoltà di modifica unilaterale da parte della banca dei profili economici dell’operazione esclusivamente per i contratti a tempo indeterminato e “solo nel caso e nei limiti in cui la mutata situazione del mercato finanziario lo richieda”. Ma anche in tal caso non vincolava senz’altro il cliente, il quale, per evitarne le conseguenze, poteva recedere dal contratto entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione dell’esercizio dello jus variandi da parte della banca.
Fuori di detta ipotesi, “il costo complessivo del credito” e gli interessi sui depositi potevano variare in senso sfavorevole al cliente “solo per mutuo consenso”, non quindi unilateralmente. Il contratto e la sua eventuale modifica pattizia dovevano essere in forma scritta, a pena di nullità (art. 4.1 e art. 9).
Alla stessa logica di protezione della clientela più debole rispondevano le disposizioni: dell’art. 8 che, per le operazioni passive, fissava un tasso minimo inderogabile corrispondente al tasso minimo legale e stabiliva, in deroga all’art. 1284 Cod. civ., che, in mancanza di determinazione scritta dello stesso, si dovesse applicare il tasso ufficiale di sconto; dell’art. 10 che prescriveva che gli interessi sui depositi dovevano essere conteggiati dal giorno in cui i depositi stessi venivano effettuati (senza alcuna possibilità di postergazione) sino a quello del prelevamento (senza alcuna possibilità di anticipazione), per porre fine alla prassi dello scarto delle valute; dell’art. 6 per quanto attiene all’anatocismo, escludendosi radicalmente la possibilità di ogni uso contrario al disposto dell’art. 1283 Cod. civ.
Il progetto si concludeva con due disposizioni di grande rilievo. La prima (art. 13.1), per assicurare la più ampia trasparenza, sanciva l’obbligo della banca di esporre al pubblico le condizioni e i tassi che intendeva praticare alla clientela (superando così i problemi cui aveva dato luogo la formulazione dell’art. 8 della Legge n. 64/1986) e, per evitare discriminazioni soggettive e territoriali, ribadiva il principio di parità di trattamento (art. 13.2). La seconda – analogamente a quanto stabilito dall’art. 1932 cod. civ. in materia di assicurazione – prevedeva la possibilità di derogare pattiziamente alle disposizioni di legge solo in senso più favorevole alla clientela (art. 15).
In sintesi il progetto Minervini proponeva una disciplina molto dettagliata e rigida delle operazioni e dei servizi bancari che ovviamente scontava i deludenti esiti del controllo giudiziario (di cui si è detto dianzi) e rifletteva una scarsa fiducia per i controlli amministrativi, ampiamente giustificata, sia dall’atteggiamento delle Autorità creditizie, che, dalla scarsa efficienza palesata nel nostro sistema dei controlli amministrativi sui comportamenti dell’autonomia privata non improntati al rispetto del principio di legalità.
Uno dei primi commentatori ha considerato il progetto più come “un’utile provocazione”, che come una probabile base di discussione e ne ha censurato anche la portata, rilevando che l’esigenza di chiarezza e di riequilibrio dei rapporti bancari avrebbe dovuto essere contemperata con la necessità di assicurare l’efficienza delle aziende ed istituti di credito.9
Il rilievo coglieva nel segno soprattutto perché riferito alla preclusione dell’adeguamento automatico dei tassi al variare di elementi esterni, ancorché individuabili con sicurezza e precisione.
La difficoltà per larghe fette della clientela di seguire le variazioni di tali elementi, nella quale con ogni probabilità risiedevano le ragioni del divieto, avrebbe potuto essere eliminata o ridotta con taluni accorgimenti, consistenti in buona sostanza nelle comunicazioni alla clientela, nelle forme più idonee, delle variazioni dei dati di riferimento. In tal modo si sarebbe conciliata l’istanza di mantenimento dell’equilibrio dinamico dei rapporti – anche mediante meccanismi di adeguamento automatico dei tassi – con l’esigenza di assicurare la massima trasparenza non solo del regolamento, ma anche dell’andamento del rapporto.
Per il resto, invece, la proposta Minervini mirava proprio a contemperare le esigenze delle banche con quelle della clientela e ad assicurare allo stesso tempo che la protezione a quest’ultima accordata non rimanesse lettera morta tant’è che decaduta con il termine della IX legislatura, veniva ripresentata nella X legislatura da due gruppi di deputati: il 2 luglio 1987 (n. 520) da Visco e altri ed il 7 luglio 1987 (n. 627) da Fiandrotti ed altri. Ad essa si aggiungeva un’altra proposta presentata alla Camera dall’On. Piro il 9 luglio (n. 467), anche questa rifacentesi in larga misura alla proposta Minervini.10
All’iniziale consenso, tuttavia, fecero ben presto seguito le iniziative del Governo e successivamente dell’Abi, chiaramente volte a neutralizzarle.
A livello governativo il Ministro del Tesoro – On. Fracanzani – predisponeva uno schema di Disegno di legge e lo presentava nel gennaio del 198711 come un “emendamento sostitutivo” della Proposta di Legge Minervini (ed altri). Il testo dello schema di disegno di legge era poi riprodotto nel progetto di legge presentato alla Camera dall’On. Bodrato ed altri.12
In luogo dei sedici articoli del progetto Minervini, il progetto Fracanzani/Bodrato ne prevedeva solo sette, in quanto accoglieva solo in parte l’istanza di una adeguata disciplina legislativa delle operazioni e servizi bancari13 il contenuto del progetto si discostava fortemente in quanto l’obiettivo era unicamente quello di assicurare una qual certa trasparenza, mentre veniva ignorato l’equilibrio delle posizioni delle parti.14
Alla banca si faceva obbligo di rendere noti i tassi minimi e massimi praticati in sede nazionale e quelli eventualmente diversi applicati in sede locale. Si traeva dunque spunto dall’avvio di un principio di trasparenza per rilegittimare le discriminazioni personali del tutto arbitrarie e territoriali, vietate invece dall’art. 8 della L. 64/1986.15
Il secondo aspetto riguarda lo jus variandi della banca. Alla rigorosa disciplina del progetto Minervini, si contrapponeva il riconoscimento del diritto della banca di variare i tassi e le condizioni contrattuali tanto per i contratti a tempo determinato, che per quelli a tempo indeterminato e non solo “nel caso e nei limiti in cui la mutata situazione del mercato lo chieda”. Inoltre, la disciplina delle modalità di comunicazione della variazione e quella della facoltà di recesso da parte del cliente era rimessa all’autonomia privata e quindi concretamente alla banca.
In definitiva alla linea autenticamente riformatrice perseguita dal progetto Minervini si contrapponeva una linea decisamente filo-bancaria, improntata alla semitrasparenza senza equilibrio.16
Incoraggiata dalle prese di posizione di cui si è fatto cenno e verosimilmente anche dalle Autorità creditizie, l’Abi, dal canto suo, rispolverava l’invito rivoltole anni prima dal Ministro del Tesoro a promuovere l’autoregolamentazione del settore, ed in breve tempo elaborava e faceva approvare due accordi interbancari sulla trasparenza e pubblicità delle operazioni.
In effetti già nel 1984 (27 luglio) il Ministro del Tesoro – sollecitato da alcune interrogazioni – aveva indirizzato al Presidente dell’Abi una nota17 in cui lamentava la scarsa trasparenza ed il grave squilibrio a danno degli utenti del regolamento dei rapporti bancari e manifestava l’esigenza di porre fine agli “abusi” delle banche nelle operazioni quotidiane con la clientela “più minuta e sovente debole”. Dichiarava però al contempo, la sua contrarietà ad introdurre nuovi vincoli, a condizione però che il sistema bancario sapesse esercitare un adeguato autocontrollo. Tale invito, tuttavia, non era stato raccolto dall’Abi.
La soluzione dell’autocontrollo, scartata nel 1984, veniva quindi riscoperta e rapidamente attuata sul finire degli anni Ottanta, quale male minore tra quelli che si erano nel frattempo delineati sulla scena politica e si concretava nella conclusione di due distinti ma analoghi accordi interbancari.18
Il primo e più importante accordo, dell’autunno del 1988, atteneva alle condizioni praticate dalle aziende di credito.19
Il secondo accordo interbancario, varato nella primavera del 1989, riguardava le condizioni praticate dagli istituti e sezioni di credito fondiario ed edilizio, mobiliare ed agrario.
L’iniziativa, a prima vista meritoria, prestava il fianco a molteplici rilievi.
I promotori degli accordi non avevano avuto assolutamente di mira la realizzazione di un ragionevole equilibrio delle posizioni delle parti, ma ciò non significa che non se ne fossero preoccupati. Al contrario, il loro obiettivo era proprio quello di impedire tale riequilibrio, con una sorta di codificazione dello status quo, che sanciva lo squilibrio, salvo a correggere talune prassi così spiccatamente vessatorie per la clientela, da suscitare un autentico sentimento di reazione e, di riflesso, una certa preoccupazione negli ambienti politici.
Anche il primo e più importante accordo, com’è stato esattamente osservato,20 conteneva, infatti, una regolamentazione assai scarna, che riproponeva, per certi versi, la logica riduttiva dello schema Fracanzani, a suo tempo presentato come emendamento al progetto Minervini. La contrattazione bancaria restava soggetta al modulario elaborato dall’Abi e recepito dalle aziende di credito, con l’unica differenza che taluni dati relativi alle operazioni dovevano esser resi noti, ferma restando la piena libertà delle aziende di credito non solo di fissare tali dati, ma anche di variarli. Le banche conservavano quindi tutto intero il potere di imprimere ai rapporti con la clientela l’assetto fortemente sperequato di cui si è detto.
In realtà la funzione degli accordi interbancari era essenzialmente preventiva e dissuasiva – prima ancora che dei comportamenti illegittimi delle aziende di credito – delle iniziative politiche che potessero incidere a fondo sul diritto delle banche, imponendo una maggiore trasparenza e un ragionevole equilibrio delle posizioni delle parti nelle operazioni bancarie.
Siffatta funzione preventiva dell’autoregolamentazione, del resto, era palesata nella nota di accompagnamento del testo del primo accordo (indirizzata dall’Abi alle aziende di credito il 25 ottobre 1988), là dove si ribadiva “la convinzione che soltanto attraverso autonome regole di comportamento” si potesse “evitare un pericoloso decadimento verso il dirigismo e la burocratizzazione” del settore bancario.21
L’enfatica esaltazione della trasparenza e pubblicità delle condizioni contrattuali, nei modi e termini proposti dall’Abi, tendeva ad accreditare il convincimento che l’istanza garantistica della clientela bancaria fosse stata pienamente recepita.
Ma a parte la considerazione che trasparenza e pubblicità non valgono di per sé ad assicurare un adeguato contemperamento degli interessi in gioco,22 va sottolineato che anche l’esigenza di un’adeguata informazione del cliente era soddisfatta solo in parte, giacché in nessun caso si prescriveva l’indicazione del costo globale dell’operazione e dell’incidenza delle singole componenti. L’Accordo ignorava sia la legislazione francese all’epoca vigente sul TEG,23 sia la Direttiva comunitaria sul credito al consumo e impegnava le banche a rendere noti solo alcuni dati. Per gli interessi passivi era prevista l’indicazione del tasso minimo e per quelli attivi l’indicazione del tasso massimo. Alla trasparenza si preferiva quindi una situazione di semitrasparenza.
L’unico aspetto positivo dell’Accordo nella materia in oggetto era costituito dall’unificazione del metodo di calcolo degli interessi.
In effetti la prescrizione secondo cui sia il calcolo degli interessi attivi che quello degli interessi passivi doveva essere effettuato adottando “l’unico metodo di calcolo secondo l’anno civile” andava al di là delle regole di trasparenza,24 in quanto sanciva “l’abbandono della prassi diffusa e consolidata ad utilizzare il divisore differenziato nel calcolo degli interessi” e comportava “indubbiamente un trattamento più equo per la clientela”.25
Quanto alle valute, l’accordo prevedeva che l’avviso alla clientela ne dovesse indicare la decorrenza, ma non escludeva ed anzi lasciava intendere che le decorrenze potessero essere differenziate e comunque non raccordate con l’effettivo versamento o con l’effettivo utilizzo delle somme.
Veniva così ad essere disattesa una delle maggiori aspirazioni della clientela bancaria, che invece era stata recepita dalla linea Minervini. L’accordo interbancario assicurava, infatti, la predeterminazione e la conoscibilità della decorrenza delle valute, ma non anche l’equità del loro regolamento, che era integralmente rimesso alle determinazioni unilaterali della banca.
Ambigua era infine la previsione dell’accordo secondo cui le indicazioni contenute negli avvisi si consideravano valide fino al nuovo avviso.
Non era chiaro invero, se il nuovo avviso operasse solo per i rapporti a venire o anche per i rapporti in corso: in tal caso l’accordo sarebbe andato ben oltre l’affermazione dello jus variandi, quale corollario naturale della concezione dinamica del rapporto, con funzione meramente adeguatrice dei mutamenti sopravvenuti e sarebbe giunto a sancire l’inoperatività del principio pacta sunt servanda, espresso dalla regola contenuta nell’art. 1372 Cod. civ., secondo cui il contratto ha la forza di legge tra le parti.26
Tutte le già indicate considerazioni valevano anche per l’analogo accordo previsto per gli istituti di credito, sicché in definitiva possiamo dire che l’uno e l’altro degli accordi interbancari promossi dall’ABI risultavano oltre che carenti, riduttivi e fuorvianti.
4.
Nell’autunno del 1990 il movimento riformatore registrava una svolta, evidentemente dovuta ad un’intesa tra i partiti di governo. La Commissione Finanze della Camera decideva l’unificazione dei vari progetti e l’esame in sede deliberante del Testo unificato.27
Il testo veniva quindi esaminato ed approvato in breve tempo (nella seduta del 4 dicembre 1990) ed era subito trasmesso alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato (il 12 dicembre 1990 - atto n. 2565), dove giaceva più di un anno.28 Il 23 gennaio 1992, nella convulsa fase terminale della X legislatura, veniva approvato in sede deliberante.
Anche prima facie risultava evidente che la Legge n. 154/1992 costituiva una sorta di compromesso tra la linea conservatrice e quella riformista di cui si è detto in precedenza, ma era molto più vicino alla prima che alla seconda e risultava, quindi, insoddisfacente.
Il nucleo centrale della disciplina (che continua a trovare applicazione) era costituito da norme che imponevano: obblighi di pubblicità delle condizioni contrattuali e sanzioni per la loro inosservanza; prescrizioni di forma dei contratti; obblighi di informazione sullo svolgimento dei rapporti e di documentazione.
La trasparenza tuttavia non veniva realizzata appieno. Anzitutto, perché non era sancito l’obbligo delle banche e degli operatori finanziari in genere di fissare il costo delle operazioni creditizie in modo da facilitarne la conoscenza e la verifica della corretta applicazione da parte della clientela (in conformità alla soluzione accolta, in applicazione delle direttive comunitarie, nello stesso periodo dalla Legge n. 142/1992 limitatamente alle operazioni di credito al consumo). In secondo luogo, perché le banche e gli intermediari finanziari erano obbligate ad indicare i tassi attivi massimi e i tassi passivi minimi, ma non anche i criteri che dovevano presiedere alla determinazione dei tassi dei singoli casi, la cui non conoscibilità da parte del cliente, impediva allo stesso di valutare la congruenza del trattamento riservatogli.
Pochissime erano, d’altro canto, le disposizioni relative al regolamento dei rapporti. Favorevoli alla clientela erano le disposizioni che stabilivano il contenuto obbligatorio del contratto, quelle che regolavano le valute, peraltro non in via generale, ma limitatamente al dies a quo per alcuni tipi di accreditamenti e al dies ad quem per i prelevamenti, quelle che precludevano l’applicazione di condizioni più sfavorevoli rispetto a quelle rese note ed infine quelle che modificavano due punti della disciplina codistica della fideiussione per togliere ogni copertura agli aspetti più intollerabili della fideiussione omnibus (art. 10, norma non abrogata dal Testo unico bancario).29
La risposta delle Camere alle istanze di rinnovamento della materia era dunque una risposta sostanzialmente conservatrice dello status quo.
Si era così finito col presidiare legislativamente un vuoto normativo colmato dalle condizioni generali di contratto estremamente gravose per la clientela; ma lo si era presidiato con un intervento parziale e morbido, che per certi aspetti mirava a conservare il potere contrattuale delle banche.
Esemplare, in proposito, la disciplina del jus variandi contenuta nell’art. 6 che, come è stato rilevato con espressione felice della dottrina, attribuiva alla banca “facoltà di incidere sul regolamento contrattuale che non sono consentito ai comuni mortali”.30
Mentre, d’altra parte venivano sacrificate alcune delle pratiche più inique che la giurisprudenza non era più disposta ad avallare. Tra queste la “clausola interessi uso piazza” alla quale fa riferimento il comma 3 dell’art. 4 (“le clausole di rinvio agli usi sono nulle e si considerano non apposte”), la cui sorte “sotto il profilo dello jus quo ultimur” sembrava ormai da tempo segnata.31
La Legge n. 154/92 non realizzava dunque un autentico e compiuto rinnovamento del diritto bancario, all’insegna della trasparenza e del riequilibrio delle posizioni delle parti e seguiva piuttosto la linea marcatamente filo-bancaria della semitrasparenza senza sostanziale riequilibro.
Già in sede di primo commento si era, perciò, sostenuto32 che la predetta normativa non avrebbe potuto essere considerata “il punto di arrivo del movimento riformatore, avviato nel corso della IX legislatura” e sarebbe stato necessario modificarla ed integrarla con un provvedimento di più “ampio respiro”.
Tale occasione poteva senz’altro essere costituita dall’emanazione del Testo unico. Sta di fatto che, allorquando il legislatore ha inserito nel Titolo VI le regole di trasparenza contenute nella Legge n. 154, non solo non ha soddisfatto siffatta esigenza, ma per un aspetto certamente non secondario, quello della soppressione del principio della parità di trattamento, ha ripristinato la supremazia contrattuale delle banche.
5.
Per chiarire la portata del suesposto rilievo giova puntualizzare che qualche autore33 aveva ricondotto, già alla disciplina della pubblicità introdotta dalla Legge n. 154, l’abrogazione sia pure implicita, del principio della parità di trattamento, di cui l’art. 8 della Legge n. 64/1986.
Se è vero, infatti, che le banche sono obbligate ad indicare i tassi minimi per le operazioni passive ed i tassi massimi per quelle passive, è altresì vero — si faceva notare — che entro tali limiti quest’ultime sono liberi di praticare trattamenti differenziati tra i singoli clienti.
In definitiva nella Legge n. 154 le banche erano (e lo sono ancora nel T.u.b.) obbligate “a rendere noti” solo “i tassi massimi ed i tassi minimi, ma i tassi così determinati” potevano “variare da luogo a luogo e nello stesso luogo” e consentivano “un’ampia libertà di manovra — oltre il limite minimo per la raccolta ed entro il limite massimo per gli impieghi " libertà di manovra che ovviamente” poteva “dar luogo a discriminazioni soggettive del tutto ingiustificate”.
Tale conclusione, tuttavia, non era condivisibile. La stessa anzitutto presupponeva un’interpretazione del principio della parità di trattamento in termini assolutamente rigidi, nel senso cioè che l’art. 8 della Legge n. 64/1986 imponesse “un’indiscriminata uniformità di trattamento” e non risulta che nei predetti termini la disposizione abbia mai avuto applicazione, anche perché ciò sarebbe stato in contrasto con le diverse situazioni di mercato nelle quali operano le dipendenze della banca.34
Se quindi si ammetteva l’interpretazione più flessibile proposta dalla dottrina largamente consolidata35 — vale a dire che il principio di parità non escludeva la possibilità delle banche di praticare trattamenti differenziati, giacché il riferimento alle “condizioni soggettive dei clienti” postulava ex se il ricorso ad una fascia di tassi da applicare — è evidente che la previsione di differenziazioni tra clienti, implicita nell’obbligo delle banche di indicare i soli tassi minimi per la raccolta ed i soli tassi massimi per l’erogazione del credito, non era in contrasto con la richiamata norma.
Ciò a maggior ragione se si considera che, a differenza dei progetti Fracanzani e Bodrato nei quali — come abbiamo visto — il superamento del principio di parità territoriale era evidente, in quanto era previsto che gli avvisi dovessero indicare sia i tassi praticati in campo nazionale, che quelli localmente applicati, nel comma 5 dell’articolo 2 della Legge n. 154 era espressamente disposto che “le informazioni rese pubbliche devono avere identico contenuto in tutto il territorio nazionale”.
Quindi sia pure solo a livello dell’informazione la parità di trattamento veniva espressamente riaffermata.36
Non solo, ma il richiamo contenuto nell’art. 2 se per un verso dava luogo all’estensione della sfera di applicazione soggettiva della parità di trattamento a tutti gli intermediari non solo bancari non potendosi dubitare che anche ai primi si riferisse la predetta norma, per altro verso non significava di certo che l’operatività del principio dovesse essere limitato al solo piano dell’informazione esigibile dell’intermediario.
Attraverso il collegamento tra pubblicità delle condizioni e contenuto dei contratti già presente nella Legge n. 154/1992, l’omogeneità dell’informazione si riverberava sul regolamento negoziale intermediario-cliente in almeno tre diversi momenti. Il primo della costituzione, attraverso l’adeguamento di tutti i contratti di un dato tipo alle condizione che l’intermediario era tenuto a pubblicizzare e che dovevano rivestire identico contenuto (art. 5, comma 4, in relazione dell’art. 2); il secondo durante l’esecuzione del rapporto, attraverso il diritto del cliente di recedere dal contratto di fronte a modificazione da parte dell’intermediario dell’originario regolamento negoziale e di “ottenere di liquidazione l’applicazione delle condizioni (uniformi) precedentemente in essere” (art. 6);37 il terzo nella fase patologica del rapporto, in quanto non era dubitabile, che mediante la pubblicità si “facilita (va) la prova a chi volesse far valere in giudizio la violazione della regola giuridica” diretta ad assicurare l’uniformità dei rapporti.38
Tale legame tra trasparenza delle condizioni contrattuali e principio della parità di trattamento, destinato ad agevolare l’applicazione della regola di cui l’articolo 8 che era stata resa difficile proprio per la mancanza di un obbligo di pubblicità a carico delle banche, è, invece, venuto meno per effetto delle successive modifiche intervenute nel sistema normativo.
L’art. 8 è stato soppresso, a partire dal 31 maggio del 1993, dall’art. 4 della Legge 19 dicembre 1992, n. 488.
Le banche (e gli altri intermediari) hanno quindi riacquistato la facoltà di praticare trattamenti differenziati da cliente a cliente “anche a parità di condizioni soggettive” e ciò non soltanto nella fase costitutiva del rapporto, ma anche durante tutto il corso del suo svolgimento, attraverso il jus variandi personalizzato riconosciuto all’intermediario, non più soggetto a quel limite, derivante dal coordinamento dell’art. 6 della Legge n. 154 con l’articolo 8 della Legge n. 64, costituito dal rispetto, anche in sede di modifica del regolamento negoziale, del principio della parità.
Non è tutto. Il superamento del predetto principio incide sulla stessa trasparenza delle condizioni contrattuali.
Come conseguenza dell’abrogazione del principio della parità di trattamento, la previsione dell’uniformità dell’informazione su tutto il territorio nazionale non è stata riprodotta nell’art. 116 del Testo Unico, che sancisce gli obblighi di informazione a carico dell’intermediario.
Per effetto di tale modifica gli intermediari sono quindi tenuti a rendere noti “i tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti”, ma questi possono variare da luogo a luogo e nella stessa “località di insediamento” da sportello a sportello, ritornandosi quindi alla logica espressa dai progetti Francanzani e Bodrato.
L’uniformità dell’informazione vale a dire la pubblicazione nelle diverse filiali di un intermediario dello stesso tasso minimo per le operazioni passive e di uno stesso tasso massimo per quelle attive deve invece, a nostro avviso, ritenersi alla base di una disciplina piena della trasparenza, intesa non solo come mera visibilità delle condizioni praticate nel singolo sportello, ma anche come possibilità per il cliente di selezionare tra le diverse offerte quella più conveniente.
Trattasi, infatti, di elemento indispensabile a consentire al cliente la possibilità di valutare la vantaggiosità dell’offerta ad un duplice livello. A livello della singola impresa, attraverso la comparazione dei tassi e delle condizioni rese disponibili in uno sportello con i tassi e le condizioni che per lo stesso tipo di operazione il medesimo intermediario applica in un altro sportello. A livello intersoggettivo attraverso il confronto dell’offerta contrattuale di quell’intermediario con l’offerta del medesimo tipo di tutti gli altri intermediari.
Orbene, fino a quando nel settore bancario le imprese operavano in regime di oligopolio territoriale, con limitazioni anche per quanto riguarda il numero e la localizzazione degli sportelli, si può comprendere come il sistema non si preoccupasse di assicurare la libertà di scelta dei terzi contraenti ed in particolare se costoro attuassero o meno le loro scelte in base all’esame delle diverse proposte contrattuali per preferire quella eventualmente più favorevole.
Ma quando ad un mercato oligopolistico viene a sostituirsi un mercato concorrenziale in cui sono destinate ad operare le imprese più efficienti (la c.d. competitività del sistema) il problema della comparazione tra le diverse offerte contrattuali diventa determinante per la scelta tra l’una e l’altra impresa bancaria.
Se è quindi vero da un lato che l’imposizione alle imprese di regole di trasparenza mira a soddisfare (anche) siffatte esigenza, ponendo il cliente in condizione di optare per l’impresa che offra il trattamento migliore, è evidente però dall’altro, che la soppressione del principio della “uniformità di trattamento” non agevola appieno il conseguimento di tale risultato.
6.
L’ambito di applicazione. La sistemazione dei rapporti con la disciplina sulla prestazione dei servizi di investimento nel mercato mobiliare e con le norme relative alla prestazione dei servizi di pagamento e le operazioni di credito al consumo.
Occorre ora dar conto di altri due adattamenti apportati dal Testo Unico alla previgente normativa della trasparenza. L’uno relativo all’individuazione dei destinatari della disciplina, l’altro al coordinamento delle regole di trasparenza con le disposizioni analoghe previste per gli altri settori del mercato creditizio, le operazioni di credito al consumo e successivamente i servizi di pagamento, nonché per il mercato mobiliare.
Nel Titolo VI del T.u.b., intitolato “Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti”39 sono infatti confluite non solo le disposizioni in tema di trasparenza delle operazioni bancarie e finanziarie (Capo I), in origine contenute nella Legge n. 154 del 1992, ma anche quelle in tema di “credito al consumo” (Capo II), inizialmente contenute negli art. 18-24 della Legge n. 142 sempre del 1992.
A seguito, poi, dell’attuazione40 nel mercato nazionale delle Direttiva 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento, è stato inserito nel Titolo VI del T.u.b.41 un nuovo Capo, il II-bis, dedicato, come indica la sua rubrica, alla regolamentazione dei predetti servizi.
Anche la disciplina delle operazioni e servizi concluse nel mercato mobiliare è stata oggetto di un’evoluzione simile. Le disposizioni contenute nella legge n. 1/1991 sono state travasate nel Capo II, intitolato “svolgimento dei servizi e delle attività” del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, con il quale è stato introdotto, in forza della delega contenuta negli art. 8 e 21 della Legge 6 febbraio 1996, n. 52, il “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”, d’ora innanzi in acronimo T.u.f.
Peraltro anche tale testo è stato sottoposto a una profonda rivisitazione,42 determinata dalla necessità di dare attuazione ad un’altra Direttiva Cee, la n. 2004/39/CE, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, meglio nota come Direttiva Mifid e più di recente dalla MIFID2.
Ciò precisato il campo di applicazione del Capo I del Titolo VI del T.u.b. che disciplina le “operazioni e servizi bancari e finanziari” diversi dalle operazioni di credito al consumo (Capo II del T.u.b.) e dai servizi di pagamento (Capo II-bis) è definito dall’art. 115.
La norma, anche a seguito delle numerose rivisitazioni alle quali è stata sottoposta,43 realizza una qualche semplificazione rispetto alla Legge n. 154 del 1992.44
Infatti l’art. 1 della richiamata legge, per la individuazione dei destinatari della disciplina, adoperava un criterio misto, soggettivo per le banche, oggettivo per gli altri intermediari. Le banche (gli enti creditizi secondo la termino terminologia adoperata dalla legge) erano sottoposte alla disciplina della trasparenza in quanto tali, indipendentemente dall’attività in concreto svolta. Per gli altri intermediari, invece, il criterio di individuazione era costituito esclusivamente dall’esercizio professionale di una o più delle attività indicate nell’elenco allegato alla Seconda Direttiva del 15 dicembre 1989, la n. 89/646/CE, e ammesse al mutuo riconoscimento.45
Per quest’ultimi, pertanto, momento centrale della disciplina era quello dell’attività in concreto esercitata; indipendentemente dai requisiti soggettivi, l’intermediario doveva rispettare nei rapporti con i clienti le regole imposte dal legislatore (e quali fonti normative secondarie dal Ministro del Tesoro e dalla Banca d’Italia), quando l’impresa svolta rientrasse nell’elenco di cui alla Seconda Direttiva.
Si prescindeva, perciò, dalla sottoposizione dei predetti soggetti a controlli e discipline di settore, analoghi a quelli previsti per le banche.
La formulazione della norma, quindi, era tale da poter abbracciare un novero di soggetti più ampio delle banche e degli intermediari finanziari disciplinati dalle singole leggi, potendosi in astratto la normativa riferirsi ad ogni altro soggetto, diverso da quest’ultimi che esercitasse “professionalmente una o più delle attività indicate” nell’elenco allegato alla Direttiva.
Speculari alle norme ora esaminata erano le regole contenute nell’art. 2, perché alla “dilatabilità” fra il punto di vista soggettivo della normativa corrispondeva nel richiamato articolo una pari “dilatabilità” sul piano delle operazioni cui si applicavano le regole in esame.
L’articolo 2, infatti, individuava una serie di atti e di operazioni, ai quali si applicava la disciplina speciale, mediante il richiamo all’elenco allegato alla legge. Va, però, subito detto che al predetto elenco non poteva collegarsi l’intento né di cristallizzare l’attività specifica degli intermediari finanziari e creditizi soltanto a livello di quelle determinate operazioni appositamente previste, né di circoscrivere a queste l’applicazione delle regole di trasparenza.
Non il primo effetto, giacché essendo tal elenco modellato sull’accordo interbancario,46 le operazioni in esso menzionate erano sostanzialmente tutte quelle che potevano porre in essere le banche.47 Pertanto, rispetto all’attività tipica degli intermediari previsti dall’articolo 1, veniva coperto un campo più limitato, nel senso che si erano esclusi dall’elenco, quegli atti che pure qualificando l’impresa (l’attività) di uno degli intermediari indicati nell’art. 1, non rientravano tra le operazioni normalmente svolte dalla banca (e ancor più ne sarebbero restati fuori in avvenire con l’elaborazione di nuovi modelli contrattuali).
In conseguenza di tanto doveva escludersi anche il secondo effetto, vale a dire la tassatività dell’elencazione contenuta nell’allegato, come peraltro si desumeva dal comma 7 dell’art. 2. Proprio per la possibilità che venissero introdotti sul mercato prodotti finanziari di nuova creazione era attribuito alla Banca d’Italia il potere di individuare altre operazioni e servizi, diversi da quelli menzionati nell’articolo 2, da assoggettare alle regole di pubblicità.
Tutto ciò comportava che, pur essendo l’ambito soggettivo di applicazione della normativa determinato dall’attività tipica degli intermediari, della stessa tuttavia si doveva prescindere quando si passava a determinare l’ambito oggettivo, essendo quest’ultimo definito dall’articolo 2.
Corollario ulteriore era che, se per un verso poteva dubitarsi del fatto che tutti i contratti che individuavano l’oggetto imprenditoriale dei singoli intermediari fossero assoggettabili alle predette regole, non dando sempre vita ad una delle ipotesi previste nell’allegato, per altro verso era certo invece, che tutte le operazioni rientranti in quest’ultimo, nonché le eventuali altre individuate dalla Banca d’Italia, per il solo fatto di essere poste in essere da uno degli imprenditori di cui all’articolo 1, rientravano nell’applicazione della disciplina speciale, pur quanto non ne caratterizzassero l’attività.48
Tale soluzione era coerente con la ratio complessiva della legge, diretta ad assicurare al cliente un’informazione completa e corretta sulle operazioni creditizie e finanziarie da chiunque posta in essere, perché la mera circostanza che il prodotto finanziario offerto non fosse collegato all’impresa in concreto svolta, comunque non avrebbe escluso l’esigenza di protezione del contraente c.d. debole.49
Si potrebbe anzi dire che attraverso il collegamento dell’articolo 1 all’articolo 2, siffatta esigenza di protezione veniva garantita e ben tre diversi livelli. A livello soggettivo, perché come abbiamo detto la formulazione dell’articolo 1 era tale da abbracciare le operazioni bancarie e finanziarie poste in essere da un novero di soggetti sicuramente più ampio delle banche e degli intermediari finanziari; a livello oggettivo, in quanto l’articolo 2 consentiva di estendere la disciplina della trasparenza a tutta la serie di contratti indicati nella legge o successivamente individuati dall’Autorità creditizia, indipendentemente dalla loro riferibilità all’attività specifica del singolo intermediario; simultaneamente su entrambi i suddetti livelli, perché le predette regole si applicavano non soltanto a tutti gli atti che venissero posti in essere dalle banche e dagli intermediari finanziari, ma anche a tutti gli atti dello stesso tipo che fossero posti in essere da soggetti extra-bancari ed extra-finanziari, pur quando non erano “tipici” della loro attività.
Tale eccessiva dilatazione del novero dei soggetti ai quali si applicavano le regole di trasparenza per gli atti e operazioni da essi posti in essere, poneva dei problemi di sovrapposizione di discipline simili.
Essendo, infatti, incluse tra le attività richiamate nell’elenco allegato alla Seconda Direttiva anche quelle tipiche del mercato mobiliare e del credito al consumo, per tal via la Legge n. 154 del 1992 si applicava agli operatori dei predetti mercati, benché già destinatari di regole di comportamento similari e per molti aspetti più incisive.
Scaturivano da ciò non solo evidenti problemi di sovrapposizione di discipline, ma con riferimento all’intermediazione mobiliare anche di controlli, affidati simultaneamente alla Consob e alla Banca d’Italia.50
Diversa è la scelta operata dal legislatore del T.u.b. Il campo di applicazione della disciplina è individuato direttamente dal riferimento alle banche, nonché agli intermediari finanziari regolati dal Titolo V della Legge.51 Viene quindi riproposto anche per quest’ultimi il criterio soggettivo in precedenza utilizzato solo per le banche. È infatti, il riferimento ai soggetti a consentire l’individuazione dello spettro di atti ai quali si applica la disciplina, ossia l’ambito oggettivo di applicazione delle regole di trasparenza, rappresentato per le banche dagli atti posti in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, nonché di ogni altra attività finanziaria (art. 10) e per gli altri intermediari dagli atti posti in essere nell’”esercizio nei confronti del pubblico” delle attività finanziarie (art. 106).
L’individuazione delle attività finanziarie alle quali si applicassero le regole di trasparenza pone qualche difficoltà. Diversamente dall’attività bancaria, individuata nel tradizionale collegamento tra la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito, quella finanziaria non viene direttamente definita dalla legge. Già la relazione al T.u.b. (sub art. 10) chiariva, però, che nel novero della attività finanziarie erano “comprese… quelle ammesse al mutuo riconoscimento”, a loro volta individuate nell’art.1, comma 2, lett. f.52 A tale elenco tuttavia si doveva aggiungere l’assunzione di partecipazioni che gli intermediari finanziari erano autorizzati a svolgere dall’art.106, ma che non rientrava nelle attività ammesse al mutuo riconoscimento, e sottrarre la prestazione dei servizi di investimento, in quanto riservata dalla legge a soggetti diversi dalle banche e intermediari finanziari.53
La riscrittura dell’art. 106 da parte dell’art.7, comma 1, D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, che ha sostituto l’intero Titolo V, ha in parte semplificato la individuazione delle attività finanziarie alle quali si applicano le regole di trasparenza.
Il comma 1 dell’art.106, con riferimento agli intermediari iscritti nell’albo da esso previsto, limita l’attività finanziaria esclusivamente all’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione dei finanziamenti sotto qualsiasi forma,54 escludendo quindi l’assunzione di partecipazioni, e rimette al Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, l’individuazione del suo contenuto tipico. Orbene, il D.m. 2 aprile 2015, all’art.2, non solo fornisce una definizione della concessione dei finanziamenti,55 ma ne individua anche gli atti che la caratterizzano, attraverso un elenco56 più preciso di quello riportato nella lett. f. comma 2, dell’art.1. Rispetto a tale elenco sono infatti escluse le attività – ad esempio i “servizi di informazione commerciale” — che sicuramente non hanno natura finanziaria, nonché quelle che integrano la prestazione di un servizio di investimento, ad esempio le “operazioni” in “strumenti finanziari” o “valori mobiliari”, i “contratti su tassi di cambio e tassi d’interesse”.
Sulla portata e le conseguenze di tale ultima esclusione ci soffermeremo a breve. Qui vanno posti in luce due rilievi suggeriti rispettivamente dalle stesse formulazioni letterali degli art.106 e dell’art. 115. Il primo è che la delimitazione della categoria di intermediari è attuata, similmente a quanto previsto per l’intermediazione mobiliare dall’art. 18 del T.u.f., avendo riguardo all’esercizio dell’attività nei confronti del “pubblico”,57 a differenza della Legge n. 154 che richiedeva invece soltanto l’esercizio “professionale”. Il secondo rilievo è che il riferimento testuale “alle attività svolte nel territorio della Repubblica”, fa sì che l’individuazione dei destinatari della disciplina, non dipenda dalla loro nazionalità, ma dalla dislocazione della operatività. Ne consegue che alla disciplina della trasparenza sono sottoposti anche le banche e gli intermediari esteri, sia quando svolgono la loro attività in Italia attraverso l’impianto di una succursale, sia quando (per le banche e intermediari comunitari) operano in regime di libera prestazione dei servizi.58
Questo, quindi, è il primo correttivo apportato dal Testo Unico alla previgente disciplina della trasparenza.
Ma all’art. 115 va riconosciuto anche l’ulteriore merito di aver provveduto a una nuova e più condivisibile sistemazione dei rapporti tra la disciplina della trasparenza e quelle consimili che sono state adottate dal legislatore con riferimento al mercato mobiliare e agli altri due specifici settori del mercato creditizio, le operazioni di credito al consumo e i servizi di pagamento.
Nel vigore della Legge n. 154 del 1992 l’ampliamento delle regole di trasparenza alle attività tipiche del mercato mobiliare e del credito al consumo aveva dato luogo – come si è accennato sopra — a problemi di sovrapposizione con le norme introdotte rispettivamente dalla Legge n. 1/199159 e dalla Legge n. 142/1992.60 Con riferimento poi al mercato mobiliare sorgevano anche conflitti di competenza tra la Banca d’Italia e la Consob.
La scelta di ripartizione dei controlli “per funzioni”, faticosamente consolidatasi nell’art. 9 della Legge n. 1/1991, avrebbe infatti dovuto indurre ad assegnare il controllo di “trasparenza” alla Consob. La Legge n. 154/1992, invece, aveva affidato detto controllo alla Banca d’Italia, con buona pace dell’ampio e intenso dibattito dottrinale e parlamentare che aveva preceduto e seguito l’entrata in vigore della Legge n. 1/1991.
Né a tale ultimo riguardo poteva giovare l’interpretazione, fortemente correttiva e ai margini della legittimità costituzionale, contenuta nell’art. 1, comma 2, del Decreto ministeriale del 24 aprile 1992. La norma, infatti, ricostruiva i rapporti tra la normativa prevista dalla Legge n. 154 e le altre discipline (principalmente legge sulle Sim e legge sul credito al consumo) come rapporto di genere a specie, ma lasciava del tutto irrisolto per l’intermediazione mobiliare la questione della divisione dei compiti tra la Banca d’Italia e la Consob.
Dal conto suo, la Banca d’Italia non aveva inteso portare alle estreme conseguenze l’impostazione del Ministro del Tesoro. La sottrazione delle Sim alla Legge n. 154/1992 non riguardava l’intero provvedimento. Formavano oggetto di disapplicazione integrale le norme sulla forma e sul contenuto dei contratti, le regole sulla comunicazione periodica alla clientela e quelle che si riferivano alla richiesta di documentazione da parte dei clienti, in quanto profili già ampiamente disciplinati dalla Legge n. 1/1991 e dai regolamenti di attuazione.61 Restavano per contro applicabili – sebbene con qualche aggiustamento – le norme sulla comunicazione delle condizioni alla clientela (affissione nei locali, avvisi sintetici e analitici) e quelle relative alle modifiche delle condizioni contrattuali.
Orbene, se da un lato poteva dubitarsi dell’effettiva utilità delle prime con riferimento alla ben più incisiva disciplina delle informazioni dovute ai clienti prevista dalla Legge n. 1/1991, dall’altro le norme sullo jus variandi rappresentavano addirittura un passo indietro rispetto alla linea di tendenza emersa nel mercato mobiliare. Veniva, infatti, esteso all’attività negoziale delle Sim un potere di modificazione unilaterale del contratto, che la Legge n. 1/1991 non aveva legittimato, ammettendosi altresì il ricorso a forme impersonali di comunicazione delle variazioni contrattuali, mediante avvisi da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale, del tutto inidonee rispetto alla finalità dichiarata di consentire al cliente il tempestivo esercizio (15 giorni dalla pubblicazione) dello jus poenitendi.
L’estensione delle regole della trasparenza alle operazioni finanziarie avrebbe, invece, dovuto consigliare al legislatore una più netta distinzione della disciplina dell’attività di intermediazione finanziaria da quella di intermediazione mobiliare, al fine di tenere fuori quest’ultima per la quale erano previste forme di protezione del contraente debole ben più pregnanti di quelle offerte dalla Legge n. 154.
Tale esigenza di operare una netta demarcazione tra le sfere di applicazione delle due discipline è stata avvertita e soddisfatta dal legislatore del T.u.b.
La possibilità di estendere l’applicazione delle regole di trasparenza contenute nel Capo I, a operazioni e servizi finanziari diversi da quelli disciplinati nel medesimo Capo, è prevista dal comma 3 dell’art. 115, soltanto per le operazioni del credito al consumo e i servizi di pagamento e sempre che tali regole “siano espressamente richiamate”. Risultano invece escluse dall’ambito di applicazione del T.u.b. e perciò stesso dalle regole di trasparenza previste nell’intero Titolo VI, tutte le attività riservate a soggetti diversi dalle banche (arg. dall’art.10, comma 3) e dagli intermediari finanziari (arg. dall’art.2, del D.m. 2 aprile 2015. n. 53) e quindi in definitiva le attività di intermediazione mobiliare individuate nell’art. 1, comma 5, del T.u.f. le riservate in linea di principio dall’art. 18 della stessa legge alle imprese di investimento. È noto, tuttavia, che tale riserva di attività soffre di importanti deroghe, la più rilevante è quella prevista dal medesimo art. 18 del T.u.f. a favore delle banche. Quest’ultime, previa autorizzazione della Banca d’Italia, possono svolgere tutte le attività indicate dall’art. 1, comma 5, per cui vedono ragguagliata la loro operatività nel mercato mobiliare a quella delle Sim.
L’altra deroga è prevista a favore degli intermediari finanziari, anche se in termini più ristretti rispetto alle banche. Sotto il profilo soggettivo, in quanto tale possibilità non è consentita a tutti gli intermediari ma solo a quelli iscritti nell’albo di cui all’art. 106. Sono quindi escluse le società finanziarie di cui all’art. 18 del T.u.b. Sotto quello oggettivo, perché i predetti intermediari possono svolgere le sole attività di negoziazione (sia per conto proprio che per conto terzi) di strumenti finanziari derivati, nonché di collocamento di strumenti finanziari per conto degli emittenti.
L’accesso quindi dei soggetti disciplinati dal T.u.b. all’esercizio delle attività previste dal T.u.f. sembrerebbe porre nuovamente un problema di sovrapposizione di discipline in concreto applicabili e di conflitto di competenze tra la Consob e la Banca d’Italia.
Orbene, per la prima questione, il legislatore sia del T.u.b. (così l’art. 10, comma 2) sia del T.u.f. (così l’art. 23, comma 4) adottano la medesima soluzione, stabilendo che alle banche e intermediari finanziari abilitati alla prestazione dei servizi di investimento si applicano le regole proprie del tipo di attività svolta.
Donde la conseguenza che per i servizi e attività di investimento prestati, banche e intermediari sono assoggettati esclusivamente agli obblighi trasparenza e correttezza dei comportamenti stabiliti dagli artt. 21 e ss. del T.u.f.
Per la ripartizione dei controlli è abbandonato il criterio della attribuzione per soggetti. Viene infatti stabilita una divisione di competenze per funzioni, con l’attribuzione alla Consob di una potestà regolamentare esclusiva e di un correlativo potere di vigilanza sul rispetto delle norme emanate in materia di regole di comportamento nella prestazione dei servizi di investimento, anche nei confronti delle banche e degli intermediari del T.u.b.62
A parte l’agevolazione concessa alla banche, rispetto agli altri intermediari finanziari disciplinati dal T.u.b., di poter svolgere tutte le attività di intermediazione mobiliare, agevolazione che vale senz’altro a caratterizzare il nostro sistema ancora come fortemente “bancocentrico”,63 va sottolineata la definitiva presa di coscienza da parte del legislatore della necessità di scindere l’intermediazione finanziaria, in attività finanziaria in senso stretto e attività di intermediazione mobiliare, ognuna sottoposta a proprie regole.
Già con la Legge n. 1/1991 prima, e dopo con la Legge 197/1991 (disciplina dell’intermediazione finanziaria per prevenire il riciclaggio del danaro), che dava una nuova nozione di attività finanziaria (art. 4, comma 2) si era iniziato a operare tale separazione. La stessa è portata a compimento dall’art. 106 del T.u.b., che circoscrive l’ambito di applicazione delle norme ai soggetti che esercitano l’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, e quindi dà una nozione di intermediazione finanziaria che non comprende più quella del mercato mobiliare.64
Tale separazione viene poi confermata anche con riferimento ai comportamenti cui sono tenuti gli intermediari nei confronti della clientela, dall’art. 115 del T.u.b. e dall’art. 23, comma 4, del T.u.f.65 Infatti, ai relativi rapporti negoziali si applicheranno le norme del T.u.b. o quelle del T.u.f., a seconda se essi siano sorti nell’ambito delle attività autorizzate ai sensi dell’art. 106, vale a dire di intermediazione finanziaria in senso stretto, ovvero dell’art. 18 del T.u.f., ossia di intermediazione mobiliare.66
Ed è significativo il rilievo che tale impostazione è stata portata all’estreme conseguenze dal regolamento in materia di mercato emanato dalla Consob il 29 ottobre 2007 (delibera n.16190). La concessione di finanziamenti è attività riservata alle banche e agli intermediari finanziari ai sensi degli art. 10 e 106 del T.u.b. e quindi in linea di principio assoggettata alle regole di trasparenza previste da quest’ultimo. Quando però questa viene svolta in connessione alla prestazione di un servizio di investimento, e quindi di un’attività autorizzata ai sensi dell’art. 18 del T.u.f., l’art. 37 del richiamato regolamento Consob stabilisce che le si applicano le regole proprie di tale attività, a partire da quelle in ordine al contenuto del contratto.67
Il discorso, però non si chiude qui. Con il medesimo fine di evitare possibili sovrapposizioni tra la normativa della trasparenza e quelle consimili previste con riferimento a specifici settori dell’attività creditizia, il legislatore del T.u.b. nelle varie riscritture dell’art. 115, si è preoccupato, come si diceva, di definire l’ambito di applicazione della disciplina contenuta nel Capo I, rispetto alle regole previste per i contratti di credito al consumo e i servizi di pagamento, contenute rispettivamente nel Capo II (art.121 - 126) e II-bis (art. 126-bis e octies).
Il comma 3, infatti, come si è visto, nella sua formulazione attuale circoscrive ancor più la portata delle norme contenute nel Capo I, stabilendo che quest’ultime non si applicano alle operazioni di credito al consumo e ai servizi di pagamento, a meno che non siano espressamente richiamate.
In concreto, come emerge dall’esame del Capo II, alle operazioni di credito al consumo continueranno ad applicarsi, in conseguenza dell’espresso richiamo contenuto nel comma 2 dell’art. 125-bis, i commi 2, 3 e 6 dell’art. 117, che hanno riguardo rispettivamente al potere del CICR di prevedere per determinati contratti forme alternative a quella scritta, alla nullità in ipotesi di inosservanza della forma prescritta, e all’integrazione del contratto in caso di nullità parziale, l’art. 118 in tema di jus variandi, l’art. 119, comma 4, in tema di rendiconto delle operazioni, nonché il comma 2 dell’art. 120, in tema di anatocismo. Ancora più ridotta è l’applicazione delle regole del Capo I per i servizi di pagamento, che come emerge dall’esame del Capo II-bis, è circoscritta dal rinvio operato dall’art. 126-quinquies, solo alle previsioni dell’art.117, sia in tema di forma (commi 2, 3 e 6), che di contenuto minimo essenziale (comma 4) e di integrazione (comma 7) delle lacune del “contratto quadro” stipulato tra il “prestatore” e l’“utilizzatore”.
È agevole perciò il rilievo che è venuto meno il rapporto di genere a specie che nella originaria formulazione della norma sussisteva tra la disciplina della trasparenza e quella dettata per talune operazioni bancarie (a quel tempo solo di credito al consumo).68
Le operazioni di credito al consumo e i servizi di pagamento69 sono infatti assoggettati alle sole norme contenute nei Capi II e II-bis ad essi dedicati e alle regole generali e controlli di cui al Capo III.
Rebus sic stantibus si può allora con ragionevole certezza concludere che la valenza generale attribuita originariamente alla disciplina della trasparenza dalla Legge n. 154/1992, si è ormai disciolta in quella residuale, ossia di una normativa che si applica solo in assenza di specifiche discipline di settore. E residuale, rispetto alle altre, è divenuta conseguentemente anche la categoria delle operazioni e servizi bancari, a cui si applica la predetta disciplina. Questa è costituita da tutte le operazioni e i servizi, diversi dalle operazioni di credito al consumo e dai servizi di pagamento nel mercato creditizio, e dai servizi di investimento nel mercato mobiliare.
Non sminuisce la valenza di tali conclusioni il potere attribuito dal comma 2 dell’art. 115 al Ministro del Tesoro (ora Ministro dell’Economia e Finanze) di individuare altri operatori, diversi dalle banche e dagli intermediari, da sottoporre alla disciplina della trasparenza, in considerazione dell’attività svolta.
La norma ricorda la previsione dell’art. 2, comma 7, della Legge n. 154/1992. Anche in tal caso siamo in presenza di una norma di chiusura ed identica è la ratio, giacché si vuole affidare ad una normativa secondaria l’estensione della disciplina ad altre ipotesi di minor forza contrattuale del cliente, vale a dire ad operazioni di tipo bancario o finanziario poste in essere da soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari dell’art. 106.
L’esercizio di tale potere da parte dell’Autorità amministrativa non potrà, tuttavia, mai andare oltre i limiti previsti dalla norma primaria, ossia l’esclusione dell’applicazione della disciplina della trasparenza ai servizi di investimento, a quelli di pagamento e alle operazioni di credito al consumo, indipendentemente da quali siano i nuovi prestatori degli stessi che si affacciassero sul mercato.
Rafforza, poi, tale considerazione anche il raffronto con la analoga regola contenuta nella Legge n. 154/1992, rispetto alla quale la norma rileva una sensibile contrazione della capacità, attraverso l’intervento affidato a una norma secondaria, di allargare la sfera di applicazione della legge a soggetti diversi dalle banche e dagli Intermediari finanziari.
La Legge n.154/1992, infatti, consentiva di comprendere nell’alveo delle regole di trasparenza tutti gli atti bancari o finanziari, indipendentemente dalla loro riconducibilità all’attività tipica dei soggetti da cui erano compiuti, e ciò valeva tanto per gli operatori creditizi e finanziari, quanto per quelli extra-bancari e extra-finanziari.
Per contro nell’art. 115, l’applicazione della disciplina agli atti bancari e finanziari è condizionata all’individuazione di un collegamento tra le operazioni svolte e attività tipica, che per le banche e gli intermediari finanziari è nella legge, per i soggetti diversi da questi è rimesso all’apprezzamento del Ministro del Tesoro.
Da tale rilievo discende perciò l’impossibilità di ricondurre nell’alveo della disciplina l’atto di tipo bancario o finanziario, tutte le volte in cui, pur se reiterato nel tempo, non caratterizzi l’attività di quel tale soggetto come bancaria o finanziaria.
Tale considerazione si traduce anche nell’apprezzamento della scarsa utilità della norma a ricomprendere nella sfera di applicazione della trasparenza gli ipotetici nuovi operatori che si affacciassero sul mercato dei servizi bancari e finanziari, per cui la sua conservazione nel sistema deve ritenersi frutto, più che di una scelta ragionata, di una remora del legislatore ad abbandonare una sorta di clausola di salvaguardia, sia pure quasi mai utilizzata.70
Se quindi l’evoluzione legislativa conferma la tendenza a tracciare una netta linea di demarcazione tra mercato mobiliare e creditizio, nonché tra singoli comparti del medesimo mercato,71 non di meno deve registrarsi un avvicinamento in tema di disciplina degli atti posti in essere dai soggetti che operano negli stessi.
Ecco le ragioni per le quali l’analisi di tale disciplina, anche se riferita nel nostro caso alle regole di comportamento degli operatori del mercato creditizio nella prestazione dei servizi bancari e finanziari, non prescinderà e dal confronto sia con le regole previste per gli specifici settori del credito al consumo e dei servizi di pagamento, sia con quelle del mercato mobiliare. Tale comparazione, infatti, servirà a verificare se gli elementi di uniformità presenti nelle diverse discipline possano assurgere al rango di regole comuni, come tali suscettibili di un’estensione anche al di fuori dell’ambito di applicazione della norma. Ma servirà altresì a verificare se le diversità presenti tra i sistemi normativi, siano riconducibili a un difetto di adeguamento delle singole discipline, come tale emendabile attraverso il ricorso alle predette regole comuni, ovvero sia il frutto di una scelta ponderata del legislatore.
7.
Come è noto, al di là di numerosi tentativi del legislatore di dare un assetto unitario alla disciplina del mercato finanziario,72 allo stato attuale persistono discipline differenziate dei segmenti che lo compongono, con riguardo alle disposizioni contenute essenzialmente nel Testo unico bancario (T.u.b.) per quanto concerne il settore bancario, e nel Testo unico della finanza (T.u.f.) per quel che riguarda il settore mobiliare.
I recenti sviluppi della disciplina di trasparenza sia nell’ambito del T.u.b. che del T.u.f. mostrano tuttavia una tendenza a dettare regole che presentano elementi comuni: il processo non è lineare e si presenta di particolare rilevanza con riferimento alle regole che sovrintendono ai comportamenti che gli operatori devono tenere nei confronti degli utenti dei servizi finanziari, costituite da un corpus di norme piuttosto consistente.
È d’obbligo quindi prendere l’avvio dall’analisi di tali norme, in considerazione delle finalità che il legislatore ha inteso perseguire. Un tratto che ha caratterizzando l’evoluzione della disciplina di trasparenza in generale delle operazioni del mercato bancario e di quello del mercato mobiliare è un processo di omogeneizzazione tra le regole che concernono le banche e le imprese di investimento su cui pare opportuno soffermarsi, perché non va dimenticato che le imprese bancarie possono, se autorizzate dalla Banca d’Italia, svolgere anche attività nell’ambito dei servizi di investimento secondo le regole dettate dal Testo unico della Finanza (art.19 T.u.f.).73
Come è noto, al di là di numerosi tentativi del legislatore di dare un assetto unitario alla disciplina del mercato finanziario,74 allo stato attuale persistono discipline differenziate dei segmenti che lo compongono, con riguardo alle disposizioni contenute essenzialmente nel Testo unico bancario (T.u.b.) per quanto concerne il settore bancario, e nel Testo unico della Finanza (T.u.f.) per quel che riguarda il settore mobiliare. La differenziazione ha la sua origine nell’essere la prima la c.d. “nuova Legge bancaria” figlia della legge bancaria del ‘36 e successive modifiche, nonché nella disciplina del Codice civile, la seconda nella disciplina europea dei servizi di investimento a partire dalla legge n.1 del 1991 (Legge Sim) passando per le Direttive 93/22/CEE e 93/6/CEE, Mifid1 e Mifid2.75
I recenti sviluppi della disciplina di trasparenza sia nell’ambito del T.u.b. che del T.u.f. mostrano tuttavia una tendenza a dettare regole che presentano elementi comuni: il processo non è lineare e si presenta di particolare rilevanza con riferimento alle regole che sovrintendono ai comportamenti che gli operatori devono tenere nei confronti degli utenti dei servizi finanziari, costituite da un corpus di norme piuttosto consistente.
È d’obbligo quindi prendere l’avvio dall’analisi di tali norme, in considerazione delle finalità che il legislatore ha inteso perseguire.
8.
Le regole di comportamento previste per i prestatori dei servizi bancari, finanziari e di pagamento nel mercato creditizio, come già sottolineato sono essenzialmente di trasparenza,76 e secondo la prevalente interpretazione, trovano le basi nell’intento di limitare i fallimenti del mercato, in particolare, di attenuare il problema delle asimmetrie informative che caratterizza i contratti fra intermediari e risparmiatori imponendo al prestatore una serie di obblighi informativi preliminari.77 Analoga finalità perseguono le regole poste a carico dei prestatori dei servizi di investimento nel mercato mobiliare.
Per entrambi i mercati il legislatore ha delineato, infatti, una serie articolata di obblighi di informazione che contribuiscono in modo determinante alla trasparenza del mercato stesso. Sostanzialmente si vuole perseguire l’obiettivo di rendere noti al cliente, prima che divengano vincolanti, le clausole del contratto, i meccanismi matematico-economici ad esso sottostanti, il piano complessivo dei vantaggi e degli svantaggi di cui il contratto, predisposto unilateralmente dall’impresa, si fa espressione.
A dette norme si affiancano gli obblighi di informazione che sorgono nel corso dello svolgimento del rapporto, sintetizzati per il mercato creditizio nell’obbligo di comunicazione al cliente delle variazioni sfavorevoli o nelle comunicazioni periodiche, di cui rispettivamente agli art. 118 e 119 T.u. (applicabili anche alle operazioni di credito al consumo),78 nonché per lo specifico settore dei servizi di pagamento dagli art. 126-quater e sexies, e per il mercato mobiliare nell’obbligo generale a carico degli intermediari di cui all’art. 21, comma 1, lett. b, T.u.f., di tenere «sempre adeguatamente informati» gli investitori.
Infine, sia per il mercato creditizio, limitatamente al settore dei servizi di pagamento, sia per il mercato mobiliare sussistono obblighi di informazione successiva al compimento dell’operazione, che discendono dall’inevitabile necessità di rendiconto, che segue l’esecuzione dell’incarico.79
Il sistema, quindi, configura una complessa e pregnante successione di obblighi di informazione sin dalla fase precontrattuale; la stipulazione del contratto è a sua volta un altro momento nel quale l’informazione e la disclosure verso il cliente assumono rilevanza; a tali obblighi si aggiunge l’informazione che l’intermediario è tenuto a dare durante lo svolgimento del rapporto.
La preoccupazione di realizzare una completa e compiuta informazione a vantaggio del cliente-investitore appare, dunque, presente in ogni fase del rapporto, improntando non solo quella pre-contrattuale, ma anche di attuazione del rapporto stesso.
La regolamentazione degli obblighi informativi a carico dell’intermediario nei due mercati, creditizio e mobiliare, rappresenta un interessante campo di indagine, nell’ottica che si è indicata in premessa.
9.
Il primo rilievo che emerge dalla comparazione tra i due modelli di comportamento è che il contenuto dell’informazione nel mercato mobiliare, è più ampio rispetto a quello creditizio. Nel primo settore, infatti, l’informazione concerne sia gli aspetti contrattuali della proposta di investimento, sia le attività svolta dall’intermediario e le caratteristiche di questo e mira soprattutto a porre l’investitore nella migliore condizione per valutare e selezionare i rischi inerenti alle operazioni in oggetto nonché gli operatori in funzione delle rispettive proposte rischio/rendimento.
Nel mercato creditizio il problema dell’informazione del cliente si è posto in maniera diversa. La premessa di fondo – anche se non esplicitata – è che la contraente istituzionale, la banca, sia solvibile per definizione e quindi che non siano rilevanti gli elementi di conoscenza della condizione soggettiva di questa.
La distinzione tra risparmio consapevole e risparmio inconsapevole, che sul piano della disciplina dell’attività sembra aver perso rilevanza a seguito della tendenziale unificazione delle discipline dei diversi intermediari, cui è corrisposta l’omogeneizzazione dei relativi sistemi di controllo,80 sembra aver conservato valore sul piano della disciplina degli atti.
Sennonché a un più ampio ventaglio delle informazioni che il prestatore dei servizi di investimento è tenuto a fornire al cliente, non corrisponde una tipizzazione degli strumenti di trasmissione delle stesse. Il regolamento Consob 29 ottobre 2007, n. 16190, e successive modifiche, si è limitato a prevedere che le informazioni vadano fornite in tempo utile prima della conclusione dell’investimento, su un «supporto duraturo», normalmente di natura cartacea81 Non introduce una tipizzazione degli strumenti di trasmissione neppure la definizione di «supporto duraturo» contenuta nell’art. 2, lett. f del medesimo regolamento. Questo viene, infatti, individuato come un qualsiasi strumento «che permetta al cliente di conservare informazioni a lui personalmente dirette, in modo che possano essere agevolmente recuperate per un periodo di tempo adeguato, e che consenta la» loro «riproduzione immutata».
Schemi o tipologie di supporti attraverso cui trasmettere le informazioni non sono precisati nel regolamento.
La scelta potrebbe generare perplessità, considerata l’ampia gamma di informazioni che l’intermediario deve fornire al cliente, non sempre omogenee tra loro, il che consiglierebbe una sorta di tipizzazione degli strumenti di informazione, se non del loro contenuto, onde non lasciare campo libero all’intermediario. L’adozione di modelli standard potrebbe, infatti, permettere al cliente una più agevole selezione degli intermediari e delle proposte di investimento dagli stessi formulati.
La diversa scelta del legislatore probabilmente si spiega con la presa di coscienza dei risultati non sempre positivi in termini di tutela degli interessi dell’investitore conseguiti dall’irrigidimento dell’informazione entro binari predeterminati dalla stessa Autorità di vigilanza.
Il riferimento è al «documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari» previsto dal precedente regolamento Consob 1° luglio 1998, n. 11552, che l’intermediario era tenuto a consegnare al cliente, prima della stipula del contratto di investimento. L’all. 3 del regolamento conteneva uno schema del già menzionato documento, in cui era fissato il contenuto delle informazioni con riferimento a ogni singolo strumento finanziario potenzialmente trattabile dall’intermediario.
Nonostante l’avviso contenuto nello schema della sua inidoneità a fornire un’informazione completa su «tutti i rischi ed altri aspetti significativi riguardanti gli investimenti in strumenti finanziari» e l’azione di contrasto della giurisprudenza,82 si era infatti sviluppata la tendenza degli intermediari a reputare assolti, attraverso la consegna del documento, gli obblighi di informazione sugli stessi gravanti, i quali dovevano inerire non solo ai rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, ma anche al rischio specifico dello strumento negoziato dal cliente.
Il bilanciamento delle contrapposte esigenze, da un lato di una standardizzazione delle informazioni, onde evitare che un indiscriminato flusso delle stesse impedisse al cliente la percezione delle informazioni rilevanti e la comparazione delle diverse proposte di investimento, dall’altro di impedire che l’imbottigliamento delle stesse in schemi predeterminati si rilevasse inidoneo a fornire all’investitore un’informazione esaustiva in relazione allo specifico servizio di investimento o strumento finanziario proposto, si è risolto dunque a vantaggio della seconda.
Nondimeno è consentito all’interprete una sorta di classificazione delle informazioni che l’operatore del mercato mobiliare è tenuto a fornire, in base al loro contento, onde apprezzare se vi è una maggiore ampiezza delle stesse rispetto al settore dell’intermediazione creditizia.
Il primo tipo è costituito dalle informazioni che l’intermediario deve dare all’investitore relativamente alla natura dell’attività svolta, i metodi e la frequenza delle comunicazioni utilizzate con i clienti, gli strumenti previsti per tutelare gli strumenti finanziari e le somme di denaro detenute per i clienti, nonché le politiche adottate per prevenire le situazioni di conflitto di interesse.83
Si tratta in altri termini di una sorta di rappresentazione sintetica dell’intermediario, alla quale viene affidato il compito di una prima essenziale informativa della clientela indipendentemente dalla conclusione dell’operazione di investimento. Essa, come si diceva, consente al cliente di selezionare tra i vari operatori presenti sul mercato quello che gli offre più garanzie sul piano dell’affidabilità.
La seconda tipologia di informazioni riguarda la persona dell’investitore, ossia la sua classificazione come «cliente al dettaglio», «cliente professionale» o «controparte qualificata».84 È anche questa un’informazione rilevante, perché, come si dirà oltre, incide sulla individuazione delle regole di condotta che l’intermediario deve rispettare nella prestazione del servizio. In tal modo l’investitore è a conoscenza di quale sia la disciplina che gli si applica e degli strumenti di protezione di cui può disporre. Anche tale tipo di informazione è quindi destinata a tutti i fruitori del servizio, potenziali o effettivi.
Il terzo tipo è costituito dalle informazioni sulla natura e sui rischi degli strumenti finanziari.85 Tali informazioni riguardano innanzitutto tutti gli strumenti finanziari negoziabili dall’intermediario, indipendentemente dallo specifico strumento al quale il cliente sia interessato e dal concreto atteggiarsi della singola operazione. A questa informazione si aggiunge quella inerente allo specifico strumento al quale l’investitore è interessato, affinché abbia piena consapevolezza dei rischi connessi al medesimo in termini di perdita di capitale, di volatilità del prezzo, liquidabilità dello strumento, sopportazione di passività potenziali. Tale tipo di informazioni è quindi funzionale allo scopo di permettere al cliente di selezionare tra i vari servizi e strumenti finanziari, quello più appropriato in termini di sopportazione del rischio alle proprie esigenze e obiettivi.
La quarta e ultima serie di informazioni investe tutti i costi e gli oneri connessi alle prestazioni del servizio di investimento concluso e/o allo strumento finanziario negoziato, non solo quelli effettivi, ma anche i potenziali,86 con indicazione separata delle commissioni spettanti all’intermediario. 87La rappresentazione del contenuto economico della proposta, quindi, non è limitata solo agli elementi di costo, ma estesa anche alla retribuzione percepita dall’intermediario di cui va data apposita evidenza. Lo scopo è quindi di consentire al cliente di svolgere una selezione tra i vari servizi e strumenti finanziari, in termini questa volta di sopportazione dell’onere economico e di selezionare tra vari intermediari, quello che propone, relativamente a uno stesso servizio e/o strumento, l’offerta più conveniente in termini di prezzo.88
Come si dimostrerà nel prosieguo, sembrerebbero di diverso tenore le scelte del legislatore nel mercato creditizio. Ma ad analisi più attenta la difformità è solo apparente.
Si riscontra infatti sia una standardizzazione degli strumenti di trasmissione delle informazioni, sia una limitazione del contenuto di quest’ultime. La prima scelta, probabilmente, è dovuta al rilievo che l’innovazione che caratterizza i mercati finanziari, ossia la comparsa di nuovi strumenti o forme di investimento, si manifesta senz’altro con minore intensità nel mercato creditizio, rispetto a quello mobiliare. Il che sembrerebbe rendere più agevole una sorta di canalizzazione dell’informazioni relative agli stessi in schemi prestabiliti.
Il bilanciamento tra i contrapposti rischi di un’informazione che potrebbe rilevarsi non esaustiva se incanalata in binari rigidi e un’informazione che potrebbe offuscare la sua comprensibilità se lasciata alla libera autodeterminazione dell’intermediario, viene in questo caso risolto, accordando prevalenza al secondo obiettivo.
La seconda opzione si spiega invece con i più limitati fini dell’informazione generata della trasparenza. Essa, a differenza che nel mercato mobiliare, non mira a consentire all’investitore una selezione più efficace delle controparti bancarie, in funzione dei rischi delle attività svolte da quest’ultime e delle operazioni da esse proposte. La normativa della trasparenza in questo caso mira a rendere conoscibili da parte dell’acquirente solo le caratteristiche del prodotto offerto e le condizioni contrattuali che ne regolano l’esercizio. La comparazione tra le diverse proposte presentate dagli intermediari e la selezione di quest’ultimi avviene perciò solo in termini di convenienza economica, ma non di rischio legato al contenuto della proposta o all’attività svolta dal proponente. Ma il più limitato ambito dell’informazione si spiega anche con il rilievo che il rischio dell’impiego del risparmio raccolto nel mercato creditizio si trasferisce sulla banca.89 È quest’ultima, infatti, che sopporta il rischio dell’insolvenza del debitore, perché rimane sempre obbligata alla restituzione dei fondi raccolti dal pubblico.90
Nel mercato mobiliare, invece il rischio dell’insolvenza dell’emittente lo strumento finanziario rimane a carico dell’investitore. Ed è questa la ragione per la quale in tale mercato, a differenza di quello creditizio, l’informazione sui rischi si svolge in una duplice direzione. Deve essere fornita dall’intermediario all’investitore, ma deve anche essere chiesta dall’intermediario al cliente, sotto forma di sua propensione a sopportare il rischio di impiego del suo risparmio.91
Tale discrasia, però, come si diceva, nella recente evoluzione normativa si va attenuando.
Come si vedrà più approfonditamente, in base all’ultima versione delle Istruzioni della Banca d’Italia92 l’informazione da offrire non è più limitata al contenuto della proposta. Vi sono infatti anche le informazioni relative alla persona dell’intermediario (ragione sociale, albi o registri in cui sono iscritti) e quelle relative al contenuto dell’operazione investono anche le «caratteristiche e i rischi tipici dell’operazione o del servizio», nonché i principali diritti del cliente.93
C’è quindi una tendenza all’uniformazione degli obblighi di informazione posti a carico dell’intermediario, indipendentemente dalla natura del servizio prestato e dal mercato in cui egli opera.
10.
Un primo avvicinamento si registra sul piano delle forme con le quali le informazioni vanno trasmesse ai clienti nella fase precedente la conclusione del rapporto. Nella sua originaria formulazione l’art. 116 T.u.b.94 stabiliva che l’obbligo di informazione dovesse innanzitutto essere adempiuto con le modalità della pubblicità nei locali aperti al pubblico. Tale obbligo di pubblicità si sintetizzava originariamente nell’esposizione di un avviso sintetico e nella predisposizione di fogli informativi analitici, il tutto nelle forme e modalità prescritte dalla Banca d’Italia. Non bastava quindi la sola modalità della comunicazione ai clienti delle informazioni, come invece è stato da sempre previsto per i prestatori dei servizi di investimento.
Nella attuale formulazione dell’art. 116 non si rinviene più l’ulteriore specificazione della pubblicità delle condizioni contrattuali nei locali aperti al pubblico, come strumento obbligatorio di informazione.95 La norma si preoccupa, infatti, solo di indicare il contenuto minimale dell’informazione, che deve riguardare il regolamento economico dei diversi servizi offerti («tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche»). Affida, invece, al CICR il compito di: a) individuare «le operazioni e i servizi da sottoporre a pubblicità»; b) dettare «disposizioni relative alla forma, al contenuto, alle modalità della pubblicità e alla conservazione agli atti dei documenti comprovanti le informazioni pubblicizzate»; c) stabilire «criteri uniformi per l’indicazione dei tassi d’interesse e per il calcolo degli interessi e degli altri elementi che incidono sul contenuto economico dei rapporti»; d) individuare gli elementi essenziali, fra quelli oggetto dell’informazione «che devono essere indicati negli annunci pubblicitari e nelle offerte, con qualsiasi mezzo effettuati», con cui gli operatori «rendono nota la disponibilità delle operazioni e dei servizi».
Essendo scomparso, come rilevato, a livello di norma primaria il canale di trasmissione delle informazioni costituito dalla pubblicità da attuarsi nei «locali aperti al pubblico», previsto invece nella originaria formulazione dell’art. 116, ampia libertà è lasciata alla norma secondaria di individuare canali alternativi di loro diffusione.
L’unico canale di trasmissione, che trova la sua fonte obbligatoria direttamente nella legge, è infatti quello introdotto dall’art. 2, comma 17, del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3,96 che ha aggiunto al comma 1 dell’art. 116, il comma 1-bis, il quale a sua volta prevede l’obbligo a carico delle banche e degli intermediari di rendere noti «l’indicatore sintetico di costo e il profilo dell’utente anche attraverso gli sportelli automatici e gli strumenti di accesso tramite internet ai servizi bancari».
Per «l’indicatore sintetico di costo» agli strumenti di trasmissione delle informazioni previste dalle norme secondarie, si aggiungono quindi gli ulteriori due indicati direttamente dalla legge.
Fatta questa eccezione, è alla disciplina emanata dal CICR e soprattutto alle Istruzioni della Banca d’Italia, che occorre far riferimento, per avere conferma della scomparsa dell’obbligo di pubblicità come canale di trasmissione delle informazioni. Tuttavia il CICR ha fatto un uso assai ridotto della delega attribuita dal legislatore, preferendo affidare il compito di individuare gli strumenti idonei ad attuare un’informazione chiara delle «condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti» alla Banca d’Italia.97 La delibera del CICR 4 marzo 200398 si limita, infatti, solo a prevedere che l’obbligo di informazione preventiva si attui attraverso la «messa disposizione dei clienti di documenti informativi sui principali diritti loro riconosciuti e sugli strumenti di tutela» (così l’art. 4).
A tale strumento si aggiungono, sempre nella fase antecedente all’apertura di una vera e propria trattativa, i fogli informativi, nei quali devono essere fornite le informazioni «sull’intermediario, su tassi, spese, oneri e altre condizioni contrattuali nonché sui principali rischi dell’operazione o del servizio» (così l’art. 5).
Entrambi sono strumenti di informazione generalizzata, ossia riferiti a tutti prodotti offerti dall’intermediario e quindi rivolti a tutti i potenziali utenti, ma, nonostante ciò, non è previsto che il canale di trasmissione sia la pubblicità. E nulla specifica il CICR in ordine agli strumenti di trasmissione delle informazioni personalizzate, relative cioè alla singola operazione che il cliente è interessato a concludere. L’individuazione di quest’ultimi è perciò rimessa alle Istruzioni della Banca d’Italia. E quest’ultime assegnano la funzione di trasmettere le informazioni relative al singolo servizio oggetto di trattativa con il cliente al «documento di sintesi delle principali condizioni» e alla «copia completa dello schema del contratto», che il cliente in alternativa al primo, può chiedere gli sia consegnato prima della conclusione delle operazioni (cfr. § 6 della Sezione II).
Ma le Istruzioni intervengono anche sul piano degli strumenti di trasmissione delle informazioni generalizzate. È stato eliminato il documento generale, denominato «principali diritti del cliente», che doveva essere messo a disposizione dei clienti «nei locali aperti al pubblico», essendo previsti in sua vece i documenti, denominati Guide pratiche, concernenti «i contratti di conto corrente offerti ai consumatori e i servizi più comunemente associati, quali carte di debito (ad esempio bancomat, Postamat), assegni, carte di credito, scoperti, ecc.; i mutui ipotecari offerti ai consumatori; l’accesso ai meccanismi di soluzione stragiudiziale delle controversie» (così il § 2. della medesima Sezione). Per tali Guide, tuttavia, non vengono specificate le modalità attraverso le quali devono essere rese disponibili al cliente e, a nostro avviso, vista la soppressione dell’obbligo a livello di norma primaria, tali modalità non necessariamente devono coincidere con la esposizione nei «locali aperti al pubblico».
Ben potrebbero essere utilizzate «apparecchiature tecnologiche» (ad es. access point, sportelli automatici, ecc.), ovvero le medesime tecniche utilizzate per le comunicazioni a distanza (internet, ecc.).99 Conferma tale facoltà, le modalità di diffusione previste dalle Istruzioni, per l’ulteriore strumento di informazione generalizzata, i fogli informativi, destinati ad accogliere le informazioni sull’intermediario e sulle caratteristiche tipiche dei prodotti offerti.100
Essendo espressamente prevista per quest’ultimi la possibilità di ricorrere in alternativa alla messa «a disposizione nei locali aperti al pubblico», alle «apparecchiature tecnologiche» (così il § 3, della Sezione II), è evidente che tale modalità possa valere anche per le Guide. Alcunché, in contrario, infatti, è previsto nella norma di legge, e nelle Istruzioni della Banca d’Italia.
La chiara scelta quindi operata sia a livello di norma primaria, sia livello di norma secondaria di consentire agli intermediari il ricorso a canali di diffusione delle informazioni generalizzate, alternativi alla pubblicità nei locali dove si svolgono le contrattazioni, avvicina quindi sensibilmente le modalità in cui vanno rese tali informazioni nel mercato creditizio, a quelle del mercato mobiliare, per il quale non è stato mai previsto il canale della pubblicità.
Tuttavia, non può omettersi di rilevare che tale opzione suscita una qualche perplessità.
Gli obblighi di informazione a cui sono rivolti sia la Guida che i fogli informativi, benché riguardino l’informazione generalizzata operano non solo a livello di tutti i rapporti di cui sia parte quel determinato intermediario, ma, non meno delle informazioni personalizzate, anche a livello di singolo rapporto. Devono perciò intendersi rivolti non esclusivamente a tutti i potenziali fruitori di quei servizi, ma anche in una certa misura ai clienti attuali dell’intermediario. A differenza infatti di quanto accade nel mercato mobiliare, dove le informazioni della fase precontrattuale sono funzionali a consentire al cliente, potenziale o attuale, solo una scelta consapevole di investimento, ma non limitano la libertà negoziale del prestatore, né integrano il contenuto del contratto in caso di lacune o di nullità di singole clausole, nel mercato creditizio tutte le informazioni fornite dall’intermediario prima, ossia quelle generalizzate, o durante lo svolgimento delle trattative, ossia quelle individuali, hanno riflessi sia sul contenuto del contratto, sia sulla sua esecuzione nei rapporti di durata.
Precisamente consentono al cliente dell’intermediario innanzitutto di verificare la correttezza del comportamento dell’intermediario in sede di contratto e durante lo svolgimento del rapporto. Le condizioni praticate dalla banca per le diverse categorie di rapporti costituiscono, infatti, un limite non solo alla libertà negoziale dell’intermediario quando formula la proposta al cliente, ma anche al suo diritto di modificare le condizioni applicate a un rapporto in corso di esecuzione, che non potranno mai essere peggiorative rispetto a quelle previste, nel momento che esercita tale diritto, per la categoria di operazioni nella quale rientra il predetto rapporto.
Consentono altresì al cliente di verificare la convenienza delle condizioni che vengono applicate dalla sua controparte istituzionale, rispetto a quelle praticate da altri intermediari, e ciò ancora una volta non soltanto quando deve decidere di concludere l’operazione con quel determinato intermediario o un altro, ma anche durante lo svolgimento del rapporto.
Per i contratti di finanziamento conclusi con le persone fisiche e le microimprese, l’art. 120-quater prevede infatti la possibilità del debitore di surrogare al creditore, altro intermediario, senza sopportare ulteriori spese e oneri.101 Tale norma è volta chiaramente a consentire al cliente, anche quando sia già legato da un contratto, il raggiungimento del migliore risultato economico offerto dal mercato, come conferma la possibilità riconosciuta all’originario finanziatore, anche quando il debitore manifesti la volontà di esercitare la surrogazione, di rinegoziare con il medesimo le condizioni del contratto.
I canali di diffusione alternativi alla pubblicità nei locali aperti al pubblico previsti dalle nuove regole non sembrano garantire altrettanto efficacemente l’assolvimento delle predette funzioni. Non l’obbligo di rendere solo disponibili tali informazioni, perché questo non può certo considerarsi equivalente all’obbligo di pubblicizzarle attraverso l’esposizione nei locali destinati alle contrattazioni. Non, a maggior ragione, il ricorso ad attrezzature tecnologiche alternative alla messa a disposizione delle guide e dei fogli informativi in tali locali, perché non tutti i fruitori dei servizi bancari hanno la capacità o la competenza per poterle utilizzare.
Ovviamente non si pone il problema di un’idonea forma di divulgazione invece per gli strumenti di trasmissione delle informazioni relative allo specifico servizio, costituiti dalla «copia completa dello schema del contratto» e dal «documento di sintesi delle principali condizioni».
Trattandosi, infatti, di strumenti volti a garantire un’informazione personalizzata, e postulando l’esistenza di un cliente bene individuato, è idonea forma di comunicazione la loro consegna preventiva.
Il primo, la «copia completa dello schema del contratto», ha infatti per presupposto l’esistenza di una trattativa già ben avviata se non conclusa e quindi di un determinato fruitore del servizio, perché «può essere» richiesto «dal cliente» solo «prima della conclusione del contratto». Il secondo l’avvenuta conclusione dell’operazione, perché costituisce il frontespizio del contratto e «riporta in maniera personalizzata, secondo quanto previsto» da quest’ultimo «le condizioni economiche pubblicizzate nel foglio informativo relativo allo specifico tipo di operazione o servizio».
11.
Ma è soprattutto sul piano del contenuto dell’informazione obbligatoria che si registra il più sensibile avvicinamento tra le regole di comportamento degli intermediari nei due mercati, creditizio e mobiliare.
E per ricostruire l’ambito oggettivo dell’informazione occorre far riferimento innanzitutto alle disposizioni di legge. Il legislatore del mercato creditizio, infatti, a differenza della scelta operata per gli strumenti di comunicazione, una qualche indicazione la dà, preoccupandosi di stabilire il contenuto minimale dell’informazione, che coincide come si è visto col regolamento economico del rapporto. Le previsioni contenute nell’art. 116 costituiscono tuttavia la base minima delle informazioni che l’intermediario è tenuto a fornire nel predetto mercato.
Innanzitutto, già nel settore del credito al consumo l’obbligo posto a carico dell’intermediario dalla norma primaria è sensibilmente più esteso e si avvicina, quanto al suo contenuto, all’obbligo informativo esistente a carico del prestatore dei servizi di investimento. L’informazione doverosa è, infatti, allargata a tutte le «informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, al fine di prendere una decisione informata e consapevole in merito alla conclusione di un contratto di credito» (art. 124, comma 1) e ai «chiarimenti adeguati», in modo che «il consumatore possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria» (art. 124, comma 5). La informazione è quindi strumentale anche a quella valutazione dell’adeguatezza del prodotto finanziario, che è tipica del mercato mobiliare, con la differenza che in questo caso compete al cliente e non all’intermediario.
La selezione delle varie offerte presenti sul mercato da parte del consumatore deve pertanto avvenire non solo sulla base della convenienza economica, ma sulla base dei profili di rischio dell’operazione.102
L’allargamento dell’informazione precontrattuale nel mercato creditizio è poi conseguenza dell’ampia delega attribuita all’Autorità amministrativa anche in ordine alla determinazione del suo contenuto, prevista dalla lett. b del comma 3 dell’art. 116, per i servizi bancari e finanziari, dalla lett. a del comma 7, dell’art. 124 per le operazioni di credito al consumo, e dal comma 1 dell’art. 126-quater per i servizi di pagamento.
Diventa quindi ancora una volta essenziale l’esame delle regole contenute nella disciplina secondaria.
Così, quanto a servizi bancari e finanziari, le Istruzioni della Banca d’Italia prevedono che nei «fogli informativi» devono essere «almeno» fornite notizie «sull’intermediario», sulle «caratteristiche e i rischi tipici dell’operazione o del servizio offerto», sulle «condizioni economiche offerte», nonché ancora sui principali diritti del cliente, ossia quelli inerenti al recesso, ai tempi massimi per la chiusura del rapporto, e ai mezzi di tutela stragiudiziale di cui può avvalersi la clientela (così l’art. 3, della Sezione II).
Tali regole si applicano anche ai servizi di pagamento, in forza del rinvio contenuto nel § 4.1.1 della Sezione VI.
Pertanto, anche per le operazioni diverse dal credito al consumo l’informazione è allargata al rischio del prodotto finanziario e quindi, benché non esplicitato, finalizzata alla valutazione da parte del cliente della sua adeguatezza rispetto ai propri obiettivi e capacità finanziaria.
Per il credito al consumo103 a tali informazioni si aggiungono: quanto alle condizioni economiche, l’obbligo di indicare il costo effettivo globale del finanziamento (il TAEG) e le garanzie prestate; relativamente ai rischi specifici dell’operazione, l’obbligo di fornire una chiara avvertenza sulle conseguenze alle quali il consumatore può andare incontro in caso di mancato pagamento delle rate, sull’inesistenza del diritto di recesso ove non previsto dalla legge e sull’indennizzo eventualmente spettante al creditore in caso di rimborso anticipato; in ordine ai principali diritti del debitore, la sua facoltà di rimborsare anticipatamente il finanziamento e il diritto di ottenere l’immediata comunicazione del rifiuto della sua richiesta di prestito e della banca dati eventualmente consultata.104
Quindi ancora una volta un’informazione estesa al rischio del prodotto finanziario, come avviene per gli strumenti di investimento nel mercato mobiliare.105
12.
È compito più agevole la dimostrazione che per gli obblighi di informazione posti a carico dell’intermediario nella fase negoziale, l’uniformazione delle regole di comportamento degli intermediari nei due mercati è stata già da tempo raggiunta.
L’obbligo di prestare i servizi solo sulla base di un contratto scritto vale sia per il mercato mobiliare (art. 23 T.u.f.) che per quello creditizio (art. 117 T.u.b.).106
Può quindi dirsi che i servizi finanziari — quale sia il mercato di riferimento dell’operatore, mobiliare o creditizio, e il contenuto dell’offerta (in strumenti finanziari o di pagamento, ovvero operazioni bancarie o di credito al consumo) — devono essere sempre prestati sulla base di un contratto scritto.
E identici in entrambi i mercati sono la sanzione per la mancata osservanza dell’onere della forma scritta e il suo modus operandi: la nullità del contratto che può essere fatta valere solo dal cliente (c.d. nullità relativa o di protezione).
Dubbi vi sono però sulle conseguenze della violazione della forma scritta e soprattutto sui requisiti minimi necessari che deve presentare il contratto affinché la prescrizione formale possa dirsi rispettata. Vi è infatti qualche autore107 che, nonostante la sanzione di nullità prevista dalla legge, ha continuato a sostenere la natura meramente ad probationem del requisito formale. Tali dubbi non sembrano essere stati dissipati neppure da quattro pronunzie della Cassazione, Sez. civ. I, la n. 5919 del 27 marzo 2016, la n. 7068 dell’11 aprile 2016, la n. 8395 del 27 aprile 2016 e la n. 10516 del 20 maggio 2016.108 La Cassazione, sul presupposto che il requisito della forma scritta dei contratti bancari e di investimento sia ad substantiam e si atteggi allo stesso modo dell’onere formale previsto dall’art.1325, n. 4, C.c., ha affermato che la produzione in giudizio da parte della Banca del contratto firmato solo dal cliente realizzi il suo perfezionamento con effetti ex nunc, non ex tunc. Di qui la nullità delle operazioni precedentemente compiute, dovendo il contratto scritto esistere a monte, non ex post. La questione, però, come si diceva è tutt’altro che risolta. Con una successiva pronunzia, ordinanza n. 10447 del 27 aprile 2017, sempre la Prima Sezione Civile del Supremo Collegio ha sottoposto il tema alle Sezioni Unite. In particolare, nella richiamata ordinanza si evidenziano una serie di interrogativi che lasciano supporre un qualche tipo di ripensamento rispetto alla tesi del 2016. La Corte, in particolare, ha osservato che la previsione formale dell’articolo 23 del T.u.f. – ma identica è la questione con riferimento all’analoga norma dell’art.117 T.u.b.– è diretta esclusivamente a tutelare l’investitore. Si tratterebbe di una forma di protezione diretta ad evidenziare, a favore della parte debole del rapporto, l’importanza del contratto che sta per concludere e di tutte le clausole ivi previste. La ratio di tale prescrizione sarebbe dunque quella di assicurare una corretta informazione del cliente, affinché questi sia informato e pienamente consapevole del contratto che si accinge a firmare. Sarebbe per tali motivi che la nullità può essere fatta valere solo da questi, oltre che rilevata d’ufficio dal giudice. Visto che è disposto per questa finalità, il requisito della forma scritta sarebbe rispettato anche solo con la sottoscrizione del cliente del modulo contrattuale contenente il contratto-quadro, perché sarebbe garantito l’interesse alla conoscenza, alla trasparenza e lo scopo informativo del cliente/investitore, senza che occorra la sottoscrizione della banca affinché il contratto sia perfezionato. È solo quindi la volontà dell’investitore che dovrebbe essere espressa per iscritto, mentre quella dell’intermediario finanziario potrebbe essere manifestata con altre forme, idonee a rivelare, anche in via presuntiva, l’esistenza del suo consenso, come ad esempio la predisposizione del testo contrattuale, la raccolta della sottoscrizione del cliente, la consegna del contratto o l’esecuzione del medesimo ex art. 1327 C.c. In definitiva, secondo l’ultimo orientamento della Cassazione, non si tratterebbe di forma scritta ad substantiam e neppure ad probationem, ma di un terzo tipo, ossia di forma informativa, con una sua peculiare disciplina da individuarsi nella ratio della sua imposizione, ossia nell’esigenza di protezione del cliente/investitore.109
Ciò detto, è inoltre presente in entrambi i mercati la volontà di non estendere eccessivamente la portata di tale strumento di informazione, il contratto scritto, al di là di quanto impone il contenuto del servizio concretamente prestato e l’esigenza di informazione del cliente.
Tuttavia, va rilevato che, a seguito della Mifid I e della Mifid II, l’attività di consulenza da attività accessoria è diventata un “servizio di investimento” sottoposta ad analitica regolamentazione. Così nel mercato mobiliare, per il servizio di consulenza occorre che questo sia prestato sulla base di un contratto redatto per iscritto, (tranne che nella ipotesi che non preveda una valutazione periodica di adeguatezza, come prevede l’art. 37, comma 1 del regolamento intermediari). In passato, l’art. 23 T.u.f., si esprimeva apparentemente in termini di esenzione dall’onere formale, e veniva interpretata come perseguente solo una finalità di semplificazione del medesimo. La consulenza, si diceva, non è mai fine a sé stessa, ma viene prestata dall’intermediario in connessione con un altro servizio di investimento.110 Risultava improponibile l’ipotesi che l’intermediario prestasse una consulenza all’investitore non finalizzata alla conclusione dell’operazione di investimento col già menzionato cliente. In effetti un contratto scritto che regola il rapporto tra intermediario e cliente era già stato stipulato, relativo al servizio di investimento, in funzione del quale viene prestata la consulenza. La redazione di un altro contratto scritto anche per l’ulteriore servizio di consulenza sarebbe apparsa una inutile duplicazione dell’onere formale. Significativa conferma della proposta interpretazione è l’art. 37 del regolamento CONSOB n. 16190 del 2007, il quale prescrive che il contratto concluso dall’intermediario con l’investitore per la prestazione di uno o più servizi di investimento debba indicare «se e con quali modalità e contenuti in connessione con il servizio di investimento può essere prestata la consulenza in materia di investimenti» (comma 2, lett. g). Quindi è evidente la percezione anche a livello regolamentare che la consulenza viene svolta sempre in occasione di un altro servizio di investimento È quindi, si è detto è il contratto scritto che regola tale servizio, che deve contenere l’informazione che in relazione allo stesso è svolta anche l’attività di consulenza, senza che per quest’ultima sia necessario la redazione di un separato regolamento scritto.
Così interpretata la regola, la medesima opzione si presenta nel mercato creditizio. Vi sono infatti servizi (si pensi ad un’apertura di credito in conto corrente) che vengono normalmente svolti in connessione di un altro, già regolato in un contratto scritto (nell’esempio considerato il conto corrente di corrispondenza). Si potrebbe perciò porre lo stesso problema, se non fosse in qualche modo mitigato l’onere formale di una duplicazione di contratti scritti. La soluzione adottata per scongiurare tale evenienza è analoga a quella prevista per il mercato mobiliare. La Banca d’Italia, in attuazione della delega conferitagli dal CICR,111 stabilisce che non ricorre l’onere della forma scritta, tra l’altro, per le «operazioni e servizi» effettuati sulla base di contratti redatti per iscritto.
Orbene, benché le Istruzioni della Banca d’Italia si esprimano ancora una volta in termini di vera e propria esenzione dall’obbligo della forma scritta (come l’art. 23 T.u.f. per la consulenza), la concreta regolamentazione dell’ipotesi presa in considerazione dimostra che ciò non è vero. In tale caso, infatti, comunque è prevista una traccia scritta dell’operazione prestata in attuazione di un rapporto negoziale già in corso, perché le previsioni atte ad identificare la prima devono essere contenute nel contratto scritto che regola il predetto rapporto. Il risultato a cui tendeva la norma è il medesimo previsto per i servizi di investimento: evitare una duplicazione dei contratti scritti, senza sacrificare il diritto di informazione del cliente, in quanto le informazioni in merito all’ulteriore servizio prestato devono essere contenute nel contratto stipulato a monte.
Anche la finalità dell’obbligo della forma scritta del contratto, che regola a seconda dei casi il servizio bancario o quello di investimento, è identica in entrambi i mercati.
Il formalismo negoziale non è, infatti, mai fine a sé stesso, ma è rivolto a garantire sia una piena e compiuta informazione del contenuto economico del rapporto da parte del cliente, sia che di tale contenuto quest’ultimo conservi il documento.112 Il legislatore, infatti sia per il contratto di investimento, sia per quelli conclusi nel mercato creditizio, indica le clausole che devono obbligatoriamente essere inserite, che riguardano il prezzo del servizio,113 pena la sua inesigibilità114 (salvo per i servizi bancari l’applicazione degli strumenti di integrazione previsti dal T.u.b.).115 Prescrive altresì che una volta firmato il contratto un suo esemplare vada consegnato al cliente. E sempre per ambedue i tipi di contratto la previsione in merito al loro contenuto minimo obbligatorio è rafforzata dal divieto di far rinvio agli usi. È, infatti, la trasparenza del regolamento negoziale per il cliente perseguita dall’obbligo della redazione scritta del contratto, ad imporre che siano prescritti dalla legge (o dalle disposizioni dell’Autorità amministrativa nel credito al consumo), e non lasciati invece all’arbitrio delle parti, gli elementi dell’informazione doverosa da riportare nel testo dell’accordo, senza che il contenuto di quest’ultima possa essere derogato dal rinvio agli usi.
13.
Come, perciò, lascia intendere anche l’ordinanza della Corte di Cassazione prima citata,116 il contratto, in entrambi i mercati, è uno strumento di informazione, di cui il cliente deve conservare traccia, per monitorare costantemente il comportamento del prestatore in corso di esecuzione del rapporto e verificare se egli nella prestazione del servizio rispetti gli impegni assunti. La finalità perseguita da tale strumento di informazione è quindi di garantire il cliente da eventuali “sorprese negoziali” costituite dall’applicazione di condizioni peggiorative, rispetto a quelle oggetto dell’informazione contrattuale. È però evidente che tale funzione di strumento di controllo delle informazioni anche nella fase inerente allo svolgimento del rapporto, sarebbe più efficacemente assolta dal contratto, se ne fosse prevista la sua immodificabilità. In tal caso il contratto vincolerebbe automaticamente l’intermediario al rispetto delle condizioni ivi pattuite per tutti i negozi conclusi in attuazione dello stesso (si pensi alle numerose operazioni che vengono poste in essere nell’ambito in un rapporto finanziario, indipendentemente dal suo inquadramento nell’ambito dei servizi di investimento o dei servizi bancari).
Più agevole sarebbe quindi la verifica da parte del fruitore del servizio del rispetto da parte del prestatore delle condizioni pattuite. Tale è stata, infatti, la scelta del legislatore per i servizi di investimento; il contenuto dell’accordo quadro disciplinato dall’art. 23 T.u.f. non solo vincola l’intermediario a rispettarlo, quando conclude con il cliente le singole operazioni di investimento, ma neppure può essere unilateralmente modificato.117
Diversamente accade per il contratto concluso nel mercato creditizio. L’intermediario è sì tenuto ad ottemperavi, quando vengono realizzate le singole operazioni previste nel medesimo, ma il contenuto del contratto non è necessariamente immodificabile. In un’apposita clausola118 può essere attribuito all’intermediario il potere di modifica unilaterale dello stesso, e ciò indipendentemente dal fatto che la prestazione regolamentata si riferisca a un servizio bancario, o a un’operazione di credito al consumo.119 ovvero a un servizio di pagamento.120 Di talché il contratto vede attenuata la funzione di garantire il cliente da eventuali sorprese negoziali nella fase esecutiva del rapporto, che invece il legislatore ha perseguito nel suo momento costitutivo, attraverso i limiti imposti alla libertà di autodeterminazione dell’intermediario.
Ma anche tale sensibile differenza si sta progressivamente attenuando.
Un primo passo in tale direzione è rappresentato dalla limitazione dello jus variandi dell’intermediario nel settore dei servizi bancari e finanziari ai soli contratti di durata.121
Ma altri e più significativi elementi di avvicinamento tra le due discipline si possono ravvisare nella riscrittura dell’art. 118122 da parte dell’art. 4, comma 2, del D.lgs. n. 141 del 2010.
Il primo dato è costituto dalla distinzione introdotta tra i contratti di durata a tempo indeterminato e a tempo determinato, che è finalizzata a una contrazione dell’ambito oggettivo del potere di variazione del regolamento contrattuale da parte dell’intermediario. Soltanto per i contratti a tempo indeterminato, infatti, può essere «convenuta, con clausola approvata specificamente dal cliente, la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto qualora sussista un giustificato motivo». Per quelli a tempo determinato, invece, “la facoltà di modifica unilaterale può essere convenuta esclusivamente per le clausole non aventi ad oggetto i tassi di interesse, sempre che sussista un giustificato motivo».
Pertanto, per quest’ultimi il patto sugli interessi, non è modificabile, tal quale a ciò che accade per il prezzo pattuito relativamente alla prestazione del servizio di investimento. L’unica eccezione alla regola è quella contenuta nel comma 2-bis dell’art. 118, per il quale se il cliente «non è un consumatore né una microimpresa», anche nei contratti di durata a tempo determinato «possono essere inserite clausole, espressamente approvate dal cliente, che prevedano la possibilità di modificare i tassi di interesse “ma sempre «al verificarsi di specifici eventi e condizioni “che devono obbligatoriamente essere «predeterminati nel contratto».
In mancanza di ciò si torna alla regola dell’immodificabilità della componente di prezzo costituita dagli interessi.
La seconda limitazione dello jus variandi dell’intermediario è rappresentata dall’esclusione di un potere esercitabile ad nutum. Per modificare il contenuto del contratto, occorre che ci sia un giustificato motivo, e tale regola vale per tutti rapporti, a tempo sia determinato che indeterminato, e per tutte le clausole, anche se non a contenuto economico e anche se non relative ai tassi. Se manca la giustificazione, il contratto è immodificabile. Nuovamente si torna alla regola prevista per il contratto di investimento.
Solo per i servizi di pagamento lo jus variandi attribuito al prestatore è più ampio ed antitetico rispetto alla tendenza che si va manifestando anche nel mercato creditizio a limitarlo, se non in taluni casi (così per i tassi nei rapporti a tempo determinato) ad escluderlo.123 All’iniziativa del prestatore è rimessa la modifica di tutte le clausole negoziali e tale potere di variazione riguarda anche i tassi di interesse, senza alcuna distinzione tra contratti a tempo determinato e a tempo indeterminato. Inoltre, può essere esercitato anche in assenza del «giustificato motivo» (art. 126-sexies, commi 1 e 2). Le uniche cautele per il cliente sono rappresentate dalla esplicitazione di siffatto potere nel contratto quadro, senza che tuttavia sia necessaria l’espressa approvazione della clausola da parte di quest’ultimo, nonché ancora dalla possibilità di recedere dal contratto entro la scadenza del preavviso previsto per l’applicazione della modifica. Neanche tale cautela opera, però, in termini assoluti. Sono, infatti, suscettibili di applicazione immediata e a fronte delle stesse non compete al cliente il diritto di recesso, le modifiche sfavorevoli dei tassi di interesse o di cambio che siano conseguenza degli indici «di riferimento convenuti nel contratto» (così il comma 3). Anche tale deroga al diritto di preavviso deve essere espressamente prevista in contratto, e ancora una volta non occorre l’approvazione della clausola da parte del cliente.
Ad eccezione però di quanto previsto per i servizi di pagamento, non è peregrino ritenere che anche sul piano dell’immodificabilità del regolamento negoziale nel corso del rapporto, la tendenza del legislatore del mercato creditizio è quella di avvicinare il più possibile la disciplina a quella prevista per il contratto di investimento nel mercato mobiliare.
14.
Per i servizi di investimento è espressamente prevista la possibilità di graduare gli obblighi di informazione a carico dell’intermediario in funzione della «qualità» della sua controparte. L’art. 6 T.u.f. rimette, infatti, al regolamento della Consob la individuazione delle «disciplina specifica di condotta» che si applica ai rapporti posti in essere dagli intermediari con gli investitori dotati di una specifica qualità ed esperienza professionale, c.d. clienti professionali,124 nonché la possibilità di escludere l’applicazione di tale disciplina ai rapporti con soggetti che, in ragione dell’attività svolta, abbiano una specifica competenza nel settore finanziario, c.d. controparti qualificate (così la lett. d del medesimo comma).125
Nel solco di questa delega si sono inserite le disposizioni attuative della Consob contenute nel regolamento mercati, che hanno escluso o graduato la applicazione delle regole di comportamento degli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, a seconda che quest’ultimi siano rivolti a controparti qualificate, a clienti professionali,126 o a clienti al dettaglio.127
Diversa, e non regolata uniformemente, la situazione che si presenta nel mercato creditizio. Il Capo I del Titolo VI del T.u.b., che si applica ai servizi bancari e finanziari, diversi da quelli di pagamento e dalle operazioni di credito al consumo, non contiene disposizioni che consentano di ritenere graduabili gli obblighi di informazione e in genere le regole di comportamento imposte all’intermediario, in funzione del grado di preparazione, dell’esperienza, o di altri fattori, del cliente.
Le uniche eccezioni sono rappresentate dalla regola prevista dal comma 2-bis dell’art. 118 che, quando il cliente non sia un consumatore o una microimpresa, consente all’intermediario, in presenza di determinati eventi già indicati in contratto, di modificare i tassi di interesse anche nei rapporti di durata a tempo determinato, nonché dall’ulteriore regola del comma 9 dell’art. 120-quater, che limita la portabilità dei contratti di finanziamento ai soli rapporti di cui è parte una persona fisica o una microimpresa.
Non è così per le operazioni di credito al consumo e per i servizi di pagamento. Per le prime la graduazione delle regole di condotta, in funzione della qualifica del cliente, è fatta direttamente dalla norma primaria e costituisce il nucleo centrale dell’intera disciplina prevista nel Capo II, visto che quest’ultima si applica solo al consumatore.128 Per i servizi di pagamento l’esclusione in tutto o in parte dell’applicazione delle norme del Capo III, al cliente che non rivesta la qualità di consumatore o microimpresa, non è automatica, ma può essere frutto di un accordo tra quest’ultimo e l’intermediario (cosi il comma 3 dell’art. 126-bis).
Sennonché, pur in assenza nel Capo I del Titolo VI del T.u.b di una norma di contenuto analogo a quella dell’art. 6 T.u.f., nella medesima direzione sembrerebbero essersi mosse le Istruzioni applicative della Banca d’Italia. Precisa, infatti, l’art. 1, comma 2, della Sezione I, che alcune regole contenute nelle Istruzioni si «applicano esclusivamente nei rapporti con i consumatori129 o con i clienti al dettaglio».130 Il che chiaramente potrebbe indurre a nutrire dei dubbi sulla legittimità della norma secondaria sotto il profilo dell’eccesso di delega, visto che all’Autorità amministrativa, relativamente agli obblighi informativi a carico degli intermediari nella prestazione dei servizi bancari e finanziari, è affidato il potere di dettare regole in merito (a) alle operazioni e servizi da sottoporre a pubblicità, (b) alla forme, contenuto e modalità della stessa e delle comunicazioni periodiche (cosi rispettivamente il comma 3 dell’art. 116, e il comma 1 dell’art. 119), ovvero ancora (c) alla forma e contenuto di determinati contratti (così rispettivamente i commi 2 e 8 dell’art. 117). Non invece la possibilità di escludere o limitare l’applicazione di determinate regole di comportamento previste dalla norma primaria, in funzione della qualifica della controparte.131
In realtà, se si esamina il successivo contenuto delle Istruzioni della Banca d’Italia, il problema non sussiste. La qualifica della controparte, come consumatore o cliente al dettaglio, viene, infatti, in rilievo non per escludere l’applicazione degli obblighi informativi previsti dalle norme primarie, ma per attribuire a tale controparte un trattamento di maggior tutela rispetto quello accordatogli dalla legge. Nel concreto tale maggiore tutela si traduce: - nella possibilità di ottenere senza spese prima della sua conclusione la copia del contratto completa delle condizioni economiche che abbia ad oggetto un mutuo ipotecario (così l’art. 6, comma 3 della Sezione I); - nell’obbligatoria indicazione nei fogli informativi e negli estratti, relativi al conto corrente e all’apertura di credito sullo stesso, dell’indicatore sintetico di costo (così gli art. 8, comma 1, e 8, comma 2, della medesima Sezione); - nell’obbligatoria indicazione negli estratti conto di chiusura dell’anno solare del riepilogo delle spese complessivamente sostenute nel medesimo per la tenuta del conto corrente e per i servizi di gestione della liquidità e di pagamento, con separata evidenza dei costi sostenuti in relazione a eventuali affidamenti e sconfinamenti (cosi l’art. 3, comma 2, della Sezione IV).
La tendenza quindi anche nel mercato creditizio è quella di tener conto della qualità della controparte nell’imporre determinati comportamenti all’intermediario, anche se la stessa si è tradotta nella scelta di attribuire per via amministrativa una maggiore protezione, rispetto a quella prevista dalle norme primarie, alle fasce di utenti meno esperti o dotate di minor competenza.
L’altra faccia della medaglia è però costituita dalla possibilità di escludere o diminuire il livello di protezione, quando l’altra parte sia invece un cliente qualificato, come avviene nel mercato mobiliare. Si è accennato sopra che la Consob nel suo regolamento ha ritenuto opportuno differenziare nell’ambito di tale categoria tra controparti qualificate e clienti professionali, escludendo per i primi l’applicazione di una serie di regole di condotta, graduandola per i secondi. Così ai servizi di investimento posti in essere con le controparti qualificate (art. 58, comma 3) è esclusa l’applicazione delle regole di comportamento in tema di obblighi, contenuti, modalità e termini dell’informazione, prima e dopo la conclusione dell’operazione (artt. 27-36, artt. 46, 53-57); di conflitti di interesse (artt. 29, 43, 49); di forma e contenuto dei contratti (artt. 37-38); di valutazione dell’adeguatezza (artt. 40), appropriatezza (artt. 41- 42) delle operazioni ed ottenimento del miglior risultato possibile, c.d. best execution (artt. 43-52).132 Per i clienti professionali la scelta, invece, è diversa. La categoria non è in ragione dell’esclusione dell’applicazione all’intermediario delle regole di comportamento previste dalla legge, ma costituisce a ben guardare il parametro per valutare la misura dell’adempimento imposto allo stesso nella prestazione del servizio. Relativamente, infatti, agli obblighi di informazione preventiva, l’intermediario nel fornirla dovrà tener conto della «classificazione del cliente come cliente al dettaglio o cliente professionale» (così l’art. 31). Quando detiene «strumenti finanziari e somme di denaro appartenenti» ai clienti professionali, l’intermediario sarà comunque tenuto a fornire le informazioni previste dalla legge, ma potrà limitare tale informazione solo all’eventuale soggezione di tali strumenti e somme di denaro «ad un ordinamento giuridico extracomunitario», o all’esistenza sui medesimi di garanzie vantate da esso» (così, il comma 3 dell’art. 40).
Non si tratta quindi di un’esclusione dell’applicazione delle regole di comportamento, ma di una riduzione della misura dell’adempimento imposto all’intermediario, quando la controparte sia un cliente professionale, che sul versante del cliente al dettaglio, si traduce in un rafforzamento della sua tutela.
In definitiva, la situazione non è così diversa, come a primo acchito potrebbe sembrare, da quella delineata dalle Istruzioni della Banca d’Italia, che al predetto cliente al dettaglio accordano senz’altro una protezione maggiore, beninteso senza scendere per il cliente professionale al di sotto della soglia minima prevista dalle norme primarie.
Quindi anche su questo piano si può ravvisare una tendenza all’uniformazione dei modelli di comportamento imposti all’intermediario.
Resta però aperto il problema se, come avviene per i servizi di investimento, anche nei servizi bancari e finanziari sia possibile pervenire ad un’esclusione dell’applicazione di tutte o intermediario o dal suo sub depositario (così l’art. 30, commi 4 e 5). Per finire, quanto alla valutazione dell’adeguatezza e appropriatezza delle operazioni, l’intermediario sarà tenuto a svolgerla, ma potrà presumere che il cliente professionale abbia la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti il servizio di investimento prestato (cosi i commi 2 dell’art. 40 e dell’art. 42), nonché che il medesimo abbia la capacita di sopportare finanziariamente «qualsiasi rischio di investimento compatibile con i propri obiettivi di investimento alcune delle regole di comportamento previste dal Capo I, quando l’utente, non sia solo un cliente professionale, ma una controparte qualificata. E tale questione va risolta dall’interprete, anche se non è di semplice soluzione. Si tratta, infatti, di esonerare dalla protezione accordata dalle norme di legge una categoria di soggetti in assenza, nel settore specifico, di un’esplicita volontà del legislatore in tal senso.
Orbene, nelle operazioni tra soggetti, entrambi abilitati alla prestazione dei servizi bancari e finanziari,133 non vi dovrebbero essere difficoltà ad escludere l’applicazione delle regole di trasparenza.
Essendo entrambi le parti del rapporto destinatari degli obblighi di informazione inerenti alla operazione o al servizio prestato, mancherebbe la possibilità di individuare il lato attivo e passivo dell’obbligazione, ossia l’intermediario tenuto a dare l’informazione e quello che ha diritto a riceverla. Mancherebbe, in altri termini, il cliente, ossia il titolare del diritto all’informazione.
Più complessa la soluzione nell’ipotesi in cui l’altra parte del rapporto, pur essendo un operatore qualificato, perché comunque opera nel settore finanziario,134 sia soggetto diverso dagli intermediari autorizzati alla prestazione dei servizi bancari e finanziari. In tale caso l’individuazione del titolare dell’obbligo di informazione sarebbe possibile, perché lo stesso ricadrebbe sul soggetto che, in quanto banca e/o intermediario, è il solo tenuto ad osservare le regole di condotta previste dal T.u.b. per la prestazione di quello specifico servizio.
Vi sarebbe perciò anche cliente, ma quest’ultimo sarebbe dotato di una specifica esperienza e professionalità, in ragione della natura finanziaria dell’attività tipica della sua impresa, sia pure relativa a un settore diverso dell’intermediazione.
L’unica possibilità che è lasciata all’interprete è, dunque, di individuare se vi siano principi o regole comuni che, seppure non esplicitati, ispirino le discipline delle operazioni concluse nel mercato creditizio e in quello mobiliare, al fine di riferirsi agli stessi per colmare il vuoto normativo.
Orbene, il primo elemento che assume rilievo è che nei due mercati le norme di comportamento degli intermediari e gli obblighi di informazione in particolare, sono strutturati in funzione della protezione dei soggetti reputati contrattualmente deboli. Il principio che se ne deve trarre è che ove tali esigenze non esistano, anche le norme di legge possono subire una correlativa compressione della loro portata. L’altra regola che si può desumere è che la possibilità di considerare inesistente l’esigenza di protezione può derivare dall’essere la controparte un soggetto già aduso alla valutazione critica dei rischi delle operazioni finanziarie. Esplicita in tale senso la disciplina dei servizi di investimento e, sia pur in minor misura, quella dei servizi di pagamento, dove come si è visto l’esclusione delle norme, sia pure dipendente da un accordo delle parti, si basa sul fatto che la controparte dell’intermediario sia un operatore qualificato.
La giustificazione di siffatta ricostruzione del sistema appare essenzialmente essere quella di non estendere la portata delle regole di trasparenza al di là della loro effettiva utilità e necessità.
La deroga all’applicazione delle regole di trasparenza alla prestazione dei servizi bancari e finanziari potrebbe allora essere determinata dall’applicazione anche in tale settore del criterio del c.d. need of protection, che in passato notevole fortuna ha avuto in relazione ad una tipica disciplina tesa alla tutela di soggetti tradizionalmente considerati in posizione di inferiorità, quella della sollecitazione del pubblico risparmio. Gli sforzi interpretativi della dottrina, in relazione alla nozione di sollecitazione del pubblico contenuta negli art. 18 e ss. della L. n. 216 del 1974, poi sostituiti dal Capo I del Titolo II T.u.f. (art. 93-bis – 101-ter) sono noti, ed è altresì noto il peso che in tale ambito ha avuto l’esigenza di escludere l’applicazione di una rigorosa disciplina di protezione quando la stessa sarebbe stata sovrabbondante.135
Ma rileva soprattutto che all’esigenza di protezione dell’investitore faccia esplicito riferimento l’art. 6, comma 2, T.u.f., indicandolo come criterio guida della Consob nella individuazione degli obblighi di comportamento a carico dell’intermediari nella prestazione dei servizi di investimento. La fortuna che tale criterio ha avuto in passato ed ancor più la circostanza che il medesimo costituisca il fondamento della differenziazione contenuta nel regolamento Consob tra controparti qualificate, clienti professionali e clienti al dettaglio e dell’esclusione delle regole di comportamento in tema di trasparenza e obblighi di informazione ai servizi di investimento prestati ai primi, ne dimostra la validità e, nel contempo, rappresenta un buon presupposto per una sua estensione mutatis mutandis ai servizi bancari e finanziari.
Milita in tal senso la forte affinità, quanto alla finalità di protezione della controparte debole e agli strumenti per realizzarla, che sussiste tra obblighi di informazione nei servizi di investimento e regole di trasparenza nei servizi bancarie finanziari, essendo entrambe le discipline caratterizzate da un insieme di regole, volte a tutelare soggetto in posizione di (presunta) inferiorità rispetto ad un altro soggetto.
In entrambi i casi detta inferiorità deriva essenzialmente dall’asimmetria informativa che distingue l’intermediario dall’investitore e/o cliente, alla quale si aggiunge la professionalità di cui dispone il primo e di cui i secondi sono normalmente privi, nonché ancora gli ampi margini di discrezionalità che possono caratterizzare l’operatività dell’intermediario.
Vero è che, nella più ampia tematica della tutela del cliente in generale nei servizi bancari, si è da tempo messo in evidenza la difficoltà di individuare quello effettivamente bisognoso di protezione, proprio per l’ampiezza della categoria, suscettibile di abbracciare tutte le controparti del prestatore.136 Ma ciò non esclude l’opportunità di una graduazione delle regole in virtù dell’effettivo bisogno di protezione del cliente, ma può semmai determinare la scelta, come avvenuto nel settore dei servizi di investimento, di affidare tale differenziazione a una disciplina amministrativa, più idonea e pronta rispetto a una norma di legge, a cogliere le diversità dei casi concreti. Così come con le medesime difficoltà e con le peculiarità che può presentare ciascun caso concreto, si deve giustificare la ulteriore scelta operata dalla Consob nel suo regolamento di non ancorare rigidamente l’applicazione delle norme alla classificazione dell’investitore come controparte qualificata, cliente professionale o cliente al dettaglio. È, infatti, espressamente prevista la possibilità su iniziativa dell’intermediario, o su richiesta dell’investitore, di trattare una controparte qualificata come cliente professionale o cliente al dettaglio (così l’art. 35, comma 3, lett. a, e 58, comma 4, del regolamento Consob), o un «cliente professionale di diritto» come «cliente al dettaglio» (art. 38, lett. c).
Tali difficoltà di identificare quali siano i clienti effettivamente bisogni di protezione non può escludere, quindi, che l’applicazione delle regole di trasparenza, anche nel settore dei servizi bancari e finanziari, sia limitata a quest’ultimi, ma deve indurre a una particolare cautela nella individuazione della categoria.
D’altra parte, non può ignorarsi che, non solo sul piano della normativa interna, ma anche a livello di quella comunitaria si rinviene la scelta del legislatore di articolare l’applicazione di determinate norme in relazione alle caratteristiche dei contraenti.137
In linea di principio potrebbe dunque ritenersi compatibile con il sistema la previsione di una graduazione raggiunta anche solo in via interpretativa della portata degli obblighi di informazione, in vista della specifica preparazione e/o esperienza del cliente. E sempre in linea di principio potrebbe ammettersi che tale graduazione in funzione dell’identità degli interessi protetti, possa essere estesa in taluni casi a tutte le norme che regolano gli obblighi di informazione, in altri solo ad alcune.
Ma diversissime, come si è visto, sono state le strade seguite per i settori dell’intermediazione finanziaria in cui ciò è avvenuto, ossia i servizi di investimento, le operazioni di credito al consumo e i servizi di pagamento.
Tale diversità di approccio, pur di fronte ad un obiettivo che appare comune ai diversi settori, è ulteriore ragione per procedere con cautela e al riparo da acritiche generalizzazioni. È infatti, evidente, come un’indiscriminata applicazione delle scelte operate per un settore agli altri, corre il rischio di escludere dall’area di protezione accordata dalle norme di comportamento degli intermediari, ipotesi che invece sarebbero meritevoli di tutela.
In sostanza, è pur vero che l’utilizzazione del criterio in parola reca con sé la possibilità di addivenire alla classificazione dei soggetti in categorie predeterminate, ma richiede altresì che si tengano in giusto conto sia le norme che di volta in volta vengono in gioco, sia lo specifico settore di incidenza delle stesse.
Se, infatti, per i servizi di investimento l’appartenenza dell’investitore alla categoria della controparte qualificata conduce all’esclusione di tutte le regole di condotta imposte al loro prestatore, così come per le operazioni di credito al consumo lo stesso risultato determina la circostanza che la controparte dell’intermediario non sia una «persona fisica», ciò non è altrettanto vero per i servizi di pagamento dove l’esclusione delle norme è conseguenza invece di una accordo tra prestatore ed utilizzatore. Di qui il problema di individuare se e quali delle diverse soluzioni previste dal legislatore sia possibile adottare, con riferimento alla prestazione dei servizi bancari e finanziari, diversi da quelli di investimento e di pagamento, nonché ancora dalle operazioni di credito al consumo.
Scarteremmo la soluzione adoperata per i servizi di pagamento, perché l’esclusione dell’applicazione delle norme affidata ad un accordo delle parti, viene considerata nella relativa disciplina come un’eccezione alla regola generale contenuta nell’art. 127, comma 1, il quale stabilisce che tutte le disposizioni in tema di trasparenza sono derogabili solo in senso più favorevole al cliente. Non essendo prevista tale eccezione per i servizi bancari e finanziari, è evidente che se anche nella loro prestazione si consentisse alle parti di escludere consensualmente l’applicazione delle regole di trasparenza, si infrangerebbe la norma generale, perché privando il cliente della protezione accordatagli dalla legge, gli si accorderebbe rispetto a quest’ultima un trattamento peggiore.
Per intuibili ragioni si può escludere la soluzione adottata per le operazioni di credito al consumo. Questa è conseguenza del fatto che la nozione di consumatore ha rilevanza non solo per individuare la parte bisognosa di protezione, ma anche per individuare il tipo specifico di operazione disciplinata e quindi il campo di applicazione delle regole di comportamento. La circostanza poi che il cliente non sia un consumatore, perché persona giuridica, o fisica che agisce per scopi inerenti all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale svolta, non lo rende privo di tutela nel sistema delineato dall’intero Titolo VI del T.u.b.
Alle operazioni di finanziamento concluse dal cliente non consumatore si applicheranno, infatti, le regole di trasparenza previste per i servizi bancari e finanziari.
In definitiva l’unico criterio adottabile, è quello previsto per i servizi di investimento, per i quali l’esclusione delle regole di condotta è conseguenza del fatto che l’investitore sia una controparte qualificata.
Diventa quindi assorbente stabilire quali siano gli elementi presi in considerazione dalla norma ai fini dell’individuazione della categoria.
Orbene, se si fa riferimento all’elenco contenuto nella lett. d del comma 2-quater dell’art. 6 T.u.f., nella categoria rientrano sia i soggetti già abilitati alla prestazione dei servizi di investimento, ossia le imprese di investimento, le società di gestione del risparmio, le banche, gli intermediari finanziari iscritti nell’albo dell’art. 106 T.u.b., sia i soggetti dotati di una specifica competenza in materia finanziaria, anche se non necessariamente nel settore specifico dei servizi di investimento, quali ad esempio le imprese di assicurazioni, le società finanziarie, gli istituti di moneta elettronica.
La norma di legge sembra quindi confermare che il criterio guida per determinare l’esclusione delle regole di condotta è la circostanza che la controparte, vuoi per essere abilitata allo svolgimento del medesimo servizio fornito dal prestatore, vuoi perché l’attività tipica della sua impresa è quella finanziaria, necessariamente dispone delle necessarie capacità di valutare il rischio di una determinata operazione di investimento.
Gli è, tuttavia, che tale esclusione in materia di servizio di investimento non è assoluta, perché, come si è rilevato sopra, su iniziativa del medesimo intermediario, o su richiesta della controparte qualificata, quest’ultima può essere tratta come un cliente professionale o al dettaglio.
Riportare tal quale tale identificazione della «controparte qualificata» al settore dei servizi bancari e finanziari, presenterebbe perciò l’inevitabile rischio di escludere l’applicazione di tutte le regole di trasparenza in situazioni in cui un’esigenza di tutela comunque potrebbero ricorrere. E ciò sarebbe con ogni probabilità il frutto di un’operazione arbitraria. Manca infatti la disposizione di legge che prevede tale esclusione; manca altresì il temperamento costituito dall’iniziativa dell’intermediario o dall’accordo delle parti di considerare anche un “operatore qualificato”, come un cliente da tutelare.
La soluzione neppure potrebbe essere quella di escludere l’applicazione di alcune norme e non di altre. Tale soluzione si rileverebbe ugualmente arbitraria, per le identiche ragioni. Né un indizio per operare in tale direzione potrebbe rinvenirsi nelle previsioni contenute nelle Istruzioni della Banca d’Italia, in ordine al «cliente al dettaglio» e al «consumatore». La posizione di quest’ultimi viene presa in considerazione — come visto — per rafforzare, non diminuire la soglia di protezione prevista dalla legge, che quindi costituisce il livello minimo di tutela accordato dalla legge al cliente.
Se quindi si vuole attribuire alla individuazione della «controparte qualificata» operata dal T.u.f. un qualche rilievo ai fini di pervenire a una soluzione in qualche modo analoga peri servizi bancari e finanziari, ciò va fatto con estrema cautela, evitando interpretazioni, che proprio in mancanza di appigli normativi sicuri, si esporrebbero alla censura di arbitrarietà.
Orbene, l’unica soluzione, che a nostro avviso non si espone a tale censura, è la limitazione dell’esclusione delle regole di trasparenza solo per la prima tipologia di soggetti che compongono la categoria, ossia le controparti che sono autorizzati a svolgere e svolgono i medesimi servizi prestati dall’intermediario. Pertanto, nel settore specifico dei servizi bancari e finanziari, le banche e gli intermediari iscritti nell’albo dell’art. 106 T.u.f. Tale controparte, infatti, esercitando la medesima attività svolta dal prestatore del servizio, dispone delle medesime informazioni ed ha la stessa competenza e professionalità del primo. Non vi è quindi asimmetria informativa, né vi sono disvalori sul piano della capacità professionale ed esperienza.
In definitiva l’applicazione del criterio del need of protection porta alla medesima soluzione alla quale si è pervenuti, escludendo in capo alle predette controparti la qualità di cliente, e costituisce, perciò, un ulteriore elemento di supporto alla stessa.
Ma ciò non costituisce motivo per escluderla, ma anzi rafforza l’affermazione che anche nei servizi prestati nel mercato creditizio sembra aver trovato cittadinanza la categoria di controparte qualificata, sia pure con un più ristretto ambito soggettivo (banche e intermediari ex art. 106) e la ragione della sua esistenza è data proprio dall’esclusione, similmente a ciò che accade per il mercato mobiliare, dall’applicazione delle regole di comportamento previste per la prestazione dei servizi bancari e finanziari.138
15.
È possibile a questo punto trarre le conclusioni dell’analisi sin qui operata. I modelli di comportamento imposti all’intermediario nella prestazione del servizio sono in parte già simili nei due mercati, creditizio e mobiliare. È così, per gli obblighi di prestare il servizio solo sulla base di un contratto scritto e di consegna del documento negoziale al risparmiatore/investitore. Altrettanto lo sono, le prescrizioni in tema di contenuto minimo del contratto, che deve disciplinare in termini esaustivi il «prezzo» del servizio. Ma anche al di là di tali regole, appare evidente la tendenza ad avvicinare i modelli di comportamento. Così per i canali di trasmissione delle informazioni, destinate ad essere diffuse solo con la modalità della comunicazione (non la pubblicità), e contenuto delle stesse, non limitate all’aspetto economico dell’operazione, ma estese anche alla persona dell’intermediario, e ai profili di rischio del servizio, indipendentemente dal mercato in cui è prestato.
Dove, poi, le differenze appaiono più marcate, comunque rispetto al passato si vanno attenuando. Così per la disciplina dello jus variandi, che in taluni casi sia pure limitati (il riferimento è ai tassi nei rapporti di durata a tempo determinato) è escluso anche per i servizi bancari, o comunque subordinato alla esistenza del giustificato motivo. Ed altrettanto sta avvenendo in ordine alla possibilità, anche quando il servizio non sia di investimento, di graduare, e finanche escluderne l’applicazione, gli obblighi informativi del prestatore del servizio in relazione alla qualità della sua controparte.
Può quindi affermarsi, in conclusione, che la tendenza alla uniformazione dei modelli di comportamento e dei sistemi di controllo in tema di disciplina dell’attività dell’intermediario, si sta affermando anche in materia di regolamentazione degli atti, indipendentemente dal mercato al quale il predetto intermediario si rivolge.
L’ordinamento finanziario ha dato ancora risposte alle esigenze di tutela del contrente più debole. A seguito della crisi finanziaria del 2008, infatti, il legislatore europeo ha dato vita alla c.d. MIFID 2 Direttiva 2014/65/UE139 con la quale, pur riaffermandosi le linee portanti della Mifid1 si sono introdotti elementi di novità nei servizi e attività dei servizi di investimento.140 Con riguardo alla fase precontrattuale, i profili di maggior rilievo riguardano, soprattutto, l’informativa. MiFID II incide profondamente su questo aspetto, incrementando la quantità e, soprattutto, la qualità delle informazioni da rendere all’investitore nella fase che precede la conclusione del contratto (e, nel caso di contratti-quadro, il conferimento del singolo ordine). In tale contesto, l’accento cade in modo particolare, anche se certamente non esclusivo, sulla trasparenza dei costi dei servizi resi. Lo standard di riferimento è, a riguardo, assai più pervasivo di quanto non si realizzasse in precedenza: si punta ad assicurare una trasparenza totale sui costi dei servizi, che va resa ex-ante, in via tanto singola, quanto aggregata. Per tale via, la disciplina richiede che siano resi noti al cliente, in via preventiva tutti i costi, rappresentati sia in valori assoluti, sia in percentuale rispetto alla somma investita, e tenendo anche conto del periodo di durata dell’investimento stesso. Ciò consente di apprezzare il costo che insiste sull’ammontare oggetto di investimento, tenuto conto anche di costi impliciti o riferiti al “sottostante” dell’investimento stesso (si pensi, ad esempio, ad un servizio di gestione di portafogli che abbia ad oggetto l’investimento in quote di OICR). Naturalmente, nella disclosure dei costi, e nel relativo conteggio, rientrano anche gli inducement percepiti dall’intermediario, i quali contribuiscono così alla quantificazione del costo complessivo da esplicitare al cliente. Le prescrizioni a riguardo sono analitiche, e tendono anche ad assicurare la standardizzazione dell’informazione resa, al fine di agevolare il confronto tra diversi prodotti e servizi disponibili sul mercato. Nel caso in cui l’offerta abbia ad oggetto servizi offerti in abbinamento tra di loro, si vuole altresì assicurare che l’investitore abbia contezza delle componenti di costo riferibili ai singoli servizi.141
1 Uno sguardo generale della disciplina del T.u.b., in particolare riguardante: 1) l’ordinamento finanziario europeo e il ruolo del T.u.b.; 2) i soggetti del T.u.b. e gli strumenti dell’attività di vigilanza bancaria; 3) il contratto e l’attività bancaria, è tracciato in (a cura di Marino Perassi, Maddalena Rabitti, Filippo Sartori e Vincenzo Troiano). A 30 anni dal Testo unico bancario (1993-2023): The Test of Time, che raccoglie gli Atti del convegno Banca d’Italia – ADDE, tenutosi l’11-12 dicembre 2023, a Roma presso la Banca d’Italia, e pubblicato nel Quaderno giuridico della consulenza legale, n. 100, giugno 2024, in www.bancaditalia.it.
Si veda TUCCI, La trasparenza come clausola conformativa e i rimedi, in Riv Dir. Banc., 2024, pp. 51 e ss.
2 È la accezione unanimemente accolta. Si vedano BELLI, Corso di legislazione bancaria italiana (1861-2010). Vol. 1-2, Pacini Editore, Pisa 2010; PORZIO, I contratti bancari in generale, in AA. VV, i contratti delle banche, Utet Torino, 2002, pp. 17-170; ID., Le imprese bancarie, Giappichelli, Torino, 2007; AAVV (a cura di) Urbani, L’attività delle banche, Wolker Kluwer Cedam, Milano, 2020, seconda edizione; AA. VV (a cura di Capobianco) Contratti bancari, Wolter Kluwer Cedam, Milano, 2021; BRESCIA MORRA, Il diritto delle banche. Le regole dell’attività., il Mulino, Bologna, terza ed., 2020; COSTI, L’ordinamento bancario, il Mulino, Bologna, 2012; BONTEMPI, Diritto bancario e finanziario, Giuffrè, Milano, 2023, ottava ed.; per la differenza tra l’attività bancaria e l’attività finanziaria, si veda ANNUNZIATA, La disciplina del mercato dei capitali, Giappichelli, Torino, 2024, pp. 55 e ss.
3 Si veda SORACE, I “pilastri” dell’unione bancaria, in CHITI SANTORO, (a cura di) L’Unione bancaria europea, Pacini, Pisa, 2016, pp. 91 e ss.
4 Per tutti CHITI SANTORO (a cura di), l’Unione Bancaria Europea, Pacini, Pisa 2016; per l’evoluzione delle problematiche IIDEM (a cura di) Il diritto bancario europeo. Problemi e prospettive, Pacini, Pisa, 2022; per l’evoluzione della legislazione in sede europea si veda BROZZETTI, La legislazione bancaria europea. Le revisioni del 2019-2020, GIUFFRE. FRANCIS LEFEBVRE, Milano, 2020.Per i passaggi normativi che hanno portato alla Vigilanza Unica europea V. RISPOLI FARINA, Evoluzione della vigilanza in Italia, in Innovazione e diritto, 2014, pp.75 e ss.; Eadem, Verso la Vigilanza Unica Europea. Stato dell’arte, in Inn. e Dir, 2012, pp. 2 e ss.
5 È la tesi del MINERVINI, Il vino vecchio negli otri nuovi, in RISPOLI FARINA, (a cura di) La nuova legge bancaria, Jovene, Napoli 1995, pp. 3 e ss.; ma si veda PORZIO, Vigilanza e “sana e prudente gestione”, in (a cura di) RISPOLI FARINA e ROTONDO, La crisi dei mercati finanziari, Milano, Giuffrè, 2009, pp. 159 e ss.
6 PORZIO, I contratti delle banche, cit., p. 9.
7 Vedilo in Dir. banc. e merc. fin., 1987, II, p. 58 e ss., con Nota di presentazione di Nigro.
8 Il riferimento è alle Direttive del Consiglio 87/102/CE del 22 dicembre 1986 e 90/88/CE del 22 febbraio 1990. Per un loro commento v. UBERTAZZI, Credito bancario al consumo e direttiva C.E.E.: prime riflessioni, in Giur. comm., 1988, II, pp. 321 e ss.; MAIMERI, Prime riflessioni sulla proposta di direttiva comunitaria sul credito al consumo, in Banca impresa e soc., 1985, pp. 437 e ss.; MARTORANO, Il credito al consumo, in Dir. banc. e merc. fin., 1989, II, pp. 175 e ss.
9 NIGRO, La trasparenza nelle operazioni bancarie, in Dir. banc. e merc. Fin., 1987, pp. 351 e ss.
10 Vedili tutti in Dir. banc. e merc. fin., 1987, II, pp. 351 e ss.
11 In Dir. banc. e merc. fin., 1987, II, pp. 62 e ss.
12 Camera dei deputati, X legislatura, Atto n. 2798.
13 Pur se si rimetteva alle autorità creditizie il potere di impartire istruzioni sugli avvisi al pubblico.
14 Così SPENA, in Le regole di comportamento del prestatore dei servizi bancari e finanziari nel mercato creditizio e le nullità previste dal Tub a protezione del cliente, Eurilink Edizioni Srl, Roma, 2015, pp. 56-201.
15 A livello legislativo, invece, l’esigenza di una maggiore tutela dei clienti delle banche è incominciata ad essere avvertita con l’approvazione dell’art. 8 della Legge n. 64 del 1986, che poneva a carico delle banche l’obbligo di praticare in tutte le proprie sedi, per ciascun tipo di operazione, tassi e condizioni uniformi, assicurando, a parità di condizioni soggettive dei clienti, la “integrale parità di trattamento”. Su questa legge si può rilevare che il principio della parità di trattamento, pur essendo espressione di un sistema monopolistico, non era in contrasto con l’introduzione del mercato del credito di regole concorrenziali, in quanto, limitando l’applicazione dell’obbligo dell’uniformità solo nell’ambito di ciascuna impresa non pregiudicava l’idea base di un regime tendenzialmente concorrenziale di ottenere condizioni migliori dalle imprese in competizione tra loro. Anzi ne costituiva il presupposto, agevolando la comparazione tra le diverse offerte contrattuali. Il secondo luogo il destino di questa norma è davvero singolare, in quanto essa non ha mai avuto un’applicazione effettiva, ma ha avuto l’indubbio merito, di dare impulso alla successiva elaborazione normativa. Ciò anche se l’invito a un riequilibrio delle posizioni contrattuali, che era dato cogliere nella norma dell’art.8 là dove impediva l’applicazione da parte delle banche di trattamenti differenziati dovuti solo alla localizzazione del cliente o della sua operatività, non è stato colto dal legislatore della trasparenza.
16 Si vedano PORZIO, I contratti, e SPENA, Le regole di comportamento, cit.
17 Sul punto FLORIDIA, Condizioni bancarie uniformi e tutela del risparmiatore, in La concorrenza bancaria a cura di UBERTAZZI, Giuffrè, Milano, 1985, p. 171.
18 Sull’iter della formazione ed adozione degli accordi interbancari, UBERTAZZI, Concorrenza, cit., pp. 16-21.
19 Il testo dell’accordo e degli allegati è stato pubblicato in Dir. banc. e merc. fin., 1989, pp. 230 e ss. Su tale accordo cfr. NIGRO, La trasparenza, cit., p. 229; PORZIO, L’accordo, cit., pp. 374 e ss.
20 Nigro, La trasparenza, cit., p. 229.
21 In realtà l’autoregolamentazione aveva due obiettivi, un esplicito ed immediato, l’altro non dichiarato, per così dire indiretto, ma non per questo meno rilevante. L’autoregolamentazione della trasparenza e pubblicità delle condizioni contrattuali mirava in primo luogo, a rinviare (o meglio impedire) e comunque a condizionare l’eteroregolamentazione degli stessi aspetti della materia, precostituendo una disciplina che potesse essere recepita dal legislatore. Essa, però, tendeva anche a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche dalla necessità di equilibrare le posizioni delle parti nelle operazioni bancarie e a fornire comunque un alibi a quanti in realtà non avevano alcuna intenzione di assumersi un così impegnativo compito.
22 Basti qui ricordare la disciplina delle clausole vessatorie contenuta nel Codice del consumo (D.lgs. 29 luglio 2005, n. 206). Le clausole “che malgrado buona fede determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, (art. 33) “sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto” (art. 36). È esplicito quindi il riconoscimento da parte del legislatore, nella situazione in cui sia palese la soggezione dell’utente (nel caso specifico il “consumatore”) nei confronti del prestatore del servizio (il “professionista”), della inidoneità a riequilibrare le posizioni contrattuali del meccanismo della specifica approvazione per iscritto della clausola previsto dagli art. 1341 e 1342 C.c. Non è certo, infatti, la percezione del contenuto oneroso della clausola da parte del cliente, che dovrebbe essere garantita dalla sua espressa approvazione, che la rende non più vessatoria.
Sull’insufficienza del diritto di informazione e sulla necessità di assicurare “una posizione equamente protetta” non solo ai consumatori in genere, ma anche ai risparmiatori e implicitamente alla clientela bancaria, v. Alpa, L’informazione del risparmiatore, in Banca, borsa, tit. cred., 1990, p. 483.
23 Decreto 24 luglio 1984, n. 84/708. Aggiungiamo che in forza del richiamato Decreto la disciplina delle operazioni era soggetta alla determinazione del Comitato per la regolamentazione bancaria (art. 30), che potevano riguardare l’apertura dei conti bancari, lo svolgimento di diverse operazioni, l’importo minimo e massimo delle commissioni, i tassi di sconto e così via. Per una ricostruzione di tale normativa v. Rives - Langes e Contamine Raynaud, in Droit bancaire, 1988, pp. 103-105.
24 PORZIO, L’accordo cit., pp. 283 e ss.
25 RUOZI, La tutela del consumatore dei servizi finanziari, Milano, 1990, pp. 5-6.
26 In tal senso PORZIO L’accordo, cit., p. 296. L’A. invece ammetteva la legittimità della soluzione (parzialmente diversa) adottata per le variazioni dei tassi. Le Banche si erano, infatti, impegnate a dare comunicazione alla clientela di ogni eventuale variazione dei tassi attivi e passivi e delle commissioni di massimo scoperto, relativi ai rapporti di deposito a risparmio ed in conto corrente, mediante “apposito cartello da esporre con adeguata evidenziazione presso tutti gli sportelli delle aziende contenente ogni necessario dettaglio delle variazioni apportate”. Il cliente, tuttavia, poteva recedere dal contratto entro 15 giorni dalla data di esposizione del nuovo avviso, o dalla presentazione del libretto allo sportello, o infine per i rapporti in conto corrente dal ricevimento dell’estratto conto, se la banca adempiva all’obbligo previsto nell’accordo di comunicare in una di queste circostanze la intervenuta variazione. Afferma, infatti Porzio che in tal caso la variazione sarebbe comunque riconducibile al consenso di entrambi i soggetti del rapporto, in quanto, in forza dell’applicazione dei principi del silenzio circostanziato, il mancato recesso del cliente varrebbe come accettazione tacita.
27 Il testo risulta dalla unificazione dei seguenti progetti, che hanno subito nel corso dell’esame parlamentare numerose modifiche ed integrazioni: - n. 467 di iniziativa del deputato Piro, intitolato “Norme per assicurare la trasparenza nei rapporti tra banche, istituti e sezioni di credito speciale e clientela”; - n. 520 di iniziativa dei deputati Visco ed altri, intitolato “Norme per la trasparenza nelle operazioni bancarie”; - n. 627 di iniziativa dei deputati Fiandrotti ed altri, intitolato “Norme per la trasparenza delle operazioni bancarie”; - n. 698 di iniziativa dei deputati Tassi ed altri, intitolato “Regolamento dei compensi di valuta agli istituti bancari”; - n. 2798 di iniziativa dei deputati Bodrato ed altri, intitolato “Norme per la trasparenza nelle operazioni bancarie”. La discussione è iniziata il 9 giugno 1988 ed è proseguita senza sostanziali progressi nelle sedute del 16 giugno e del 7 luglio 1988. Dopo le quattro sedute del 25 luglio, 19 settembre, 4 ottobre e 4 dicembre 1990, il testo ha avuto una battuta di arresto protrattasi per ben due anni.
28 Il che dà ragione a quanti (cfr. per tutti DOLMETTA, Per l’equilibrio e la trasparenza nelle operazioni bancarie: Chiose critiche alla Legge n. 154/92, in Banca, Borsa, Tit. cred., 1992, I, 378) hanno sostenuto che l’approvazione della legge n. 154 non sembra essere dipesa “da un peculiare interesse del potere politico nei confronti della trasparenza dei contratti bancari, quanto piuttosto da quel generale fenomeno di fluviale legiferazione che ha contraddistinto la fine della X legislatura nel campo del diritto commerciale”. Dall’altra parte aggiunge l’A. anche “per la viciniora (per obiettivi) materia del credito al consumo il superamento del termine del 1° gennaio 1990, fissato dalla direttiva CEE per l’adeguamento normativo - avvenuto poi con la legge 19 febbraio 1992, n. 142 - non aveva destinato particolari imbarazzi”.
29 Per un primo commento all’art. 10, v. SCOTTI GALLETTA, Sub. art. 10, Legge 17 febbraio 1992, n. 154, cit., pp. 1174 e ss.
30 PORZIO, Note introduttive. Legge 17 febbraio 1992, n. 15, cit., p. 1127.
31 Spostatosi negli ultimi anni l’orientamento dottrinale dal giudizio di validità a quello di nullità per contrarietà all’art. 1346 o all’art. 1284, comma 3°, cod. civ., e sviluppatasi anche nella giurisprudenza, in particolare di merito, l’opinione dell’invalidità, la clausola aveva subito in tempi più recenti due contraccolpi. Anzitutto l’applicazione della legge antitrust aveva reso impraticabile l’orientamento della Cassazione, secondo il quale la validità della clausola “interessi uso piazza”, sarebbe stata assicurata dall’identificazione del suo contenuto con un supposto riferimento agli accordi di cartello. In secondo luogo, una pronuncia di merito (Trib. Macerata 17 agosto 1989, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, II, p. 679 ed ivi indicazioni dottrinali e giurisprudenziali sulla tematica della validità o meno della clausola “interessi uso piazza”) aveva posto alla base della statuizione della nullità della clausola un dato fattuale di immediata suggestione. Aveva, infatti, constatato come nella fattispecie esaminata, nei confronti di un medesimo debitore, le banche operanti in sede locale avevano praticato tassi debitori per operazioni in conto corrente fortemente differenziati, con una oscillazione dal 13,50% al 22,25%.
32 MAISANO, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie. La difficile transizione dal diritto della banca al diritto finanziario, Giuffrè, Milano, 1993, p. 134; Dolmetta, Per l’equilibrio, cit., p. 378.
33 MAISANO, op. cit., p. 168.
34 Così SALANITRO, op. cit., p. 495.
35 Anche se - sottolinea PORZIO, L’accordo, cit., p. 295, che “alcune delle interpretazioni proposte e degli esempi indicati... in effetti (sembravano) destinati ad aggirare” la disposizione dell’art. 8.
36 Ha ragione, quindi, ZUCCHELLI, Note in margine alla Legge n. 154/92 in tema di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Banca, impr. soc., 1992, pp. 218-219, quando sottolinea l’importanza della norma, rilevando che la stessa, imponendo l’uniformità dell’informazione è rivolta a superare le disparità di trattamento che si registrano nelle diverse zone del paese.
37 È chiaro, infatti, che sarebbe perfettamente inutile la garanzia dell’uniformità dei contratti al momento della costituzione, se poi, durante lo svolgimento del rapporto, il cliente non potendo esercitare il jus poenitendi restasse vincolato, a seguito della variazione unilaterale, ad un regolamento di interessi diverso da quello in origine programmato.
38 PORZIO, L’accordo, cit., p. 294.
39 Rubrica così sostituita dall’art.4, comma 1, del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141. La rubrica originaria era la seguente: Trasparenza delle condizioni contrattuali.
40 Avvenuta con il D.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11.
41 Dall’art. 34, comma 1, lett. b), del medesimo D.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11.
42 Dal D.lgs. 17 settembre 2007, n. 164.
43 Dall’art. 1, comma 1, D.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, dall’art. 34, comma 1, lett. a), D.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, a decorrere dal 1° marzo 2010, ai sensi di quanto disposto dall’art. 42, comma 1 del medesimo D.lgs. 11/2010 e, successivamente sostituito dall’art. 4, comma 2, D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, che ha sostituito l’intero Capo I, con la decorrenza sempre dal centoventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione (Gazz. Uff. 4 settembre 2010, n. 207, S.O.) ai sensi dell’art. 6, comma 2 del medesimo D.lgs. 141/2010.
44 MAJELLO, Sub art. 115, in Il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (Commento al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385) a cura di F. Belli, G. Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro, vol. II, Zanichelli, Bologna, 2003, p. 1919; v. anche ANTONUCCI, Diritto delle Banche, Quinta edizione Giuffrè, Milano, 2012, p. 272.
45 Ossia le attività di: credito al consumo, credito ipotecario, factoring, cessioni di credito, credito commerciale; leasing finanziario; servizi di pagamento; emissione e gestione dei mezzi di pagamento (carte di credito, traveller cheque, lettere di credito); operazione sui cambi; strumenti finanziari a termine e opzioni; valori mobiliari; servizi di intermediazione finanziaria del tipo “money broking”; locazione di cassette di sicurezza.
Sulla Seconda Direttiva di coordinamento delle disposizioni riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e suo esercizio v. BELLI - BROZZETTI, La seconda direttiva di coordinamento e le altre direttive in materia bancaria emanate nel 1989, in Dir. banc. e merc. fin., 1990, pp. 107 e ss.; GODANO, Aspetti generali della “seconda direttiva banche” in Foro It., 1990, IV, c. 436 e ss.
46 In ZUCCHELLI, op. cit., pp. 227 e ss., un completo schema comparativo delle operazioni disciplinate dalla nuova legge e dall’accordo interbancario.
47 Con l’eccezione — probabilmente unica — dell’attività di negoziazione in borsa o al mercato ristretto di valori mobiliari diversi dai titoli di Stato o garantiti dallo Stato (art. 16, Legge 2 gennaio 1991, n. 1), ricompresa nella voce dell’allegato “negoziazione di titoli (di Stato, Obbligazionari, Azionari)”.
48 V. in proposito anche PORZIO, Sub Art. 1 Legge 17 febbraio 1992, n. 154, cit., pp. 1128 e ss.
49 È sintomatica di questa volontà da parte dell’ordinamento l’ulteriore regola contenuta nell’articolo 2, comma 6, del Decreto del Ministro del Tesoro del 24 aprile 1992. La “pubblicità” viene riferita anche ai “prodotti... eventualmente commercializzati per conto di altri intermediari sottoposti alla presente normativa” e si vincolano gli “intermediari che si avvalgono della rete distributiva di altri soggetti... a fornire tempestivamente a quest’ultimi i dati da pubblicizzare attraverso i fogli informativi analitici e gli avvisi sintetici”. Lo scopo è proprio quello di allegare l’applicazione della legge a tutte le offerte di prodotti finanziari, in cui sussiste un’esigenza di protezione del cliente, non potendosi dubitare che anche nella commercializzazione per conto terzi quest’ultimo vada tutelato non diversamente dalla vendita di propri prodotti e da quella realizzata nei locali dell’impresa.
In dottrina, sul punto, CLARIZIA, Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e obblighi di informazione, in Riv. it. leasing., 1992, pp. 219 -220.
50 Per una critica a tale soluzione v. Porzio, Sub Art.1 Legge 17 febbraio 1992, n. 154, cit., p. 1130.
51 In tal senso ANTONUCCI, op.cit., p. 272.
52 Si tratta: della “1) raccolta di depositi o di altri fondi con obbligo di restituzione”; delle “2) operazioni di prestito (compreso in particolare il credito al consumo, il credito con garanzia ipotecaria, il factoring, le cessioni di credito pro soluto e pro solvendo, il credito commerciale incluso il “forfaiting”)”; del “3) leasing finanziario”; della “4) prestazione di servizi di pagamento come definiti dagli articoli 1, comma 1, lettera b), e 2, comma 2, del Decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11“; della “ 5) emissione e gestione di mezzi di pagamento («travellers cheques», lettere di credito), nella misura in cui quest’attività non rientra nel punto 4”; del “6) rilascio di garanzie e di impegni di firma”; delle “7) operazioni per proprio conto o per conto della clientela in: - strumenti di mercato monetario (assegni, cambiali, certificati di deposito, ecc.); - cambi; - strumenti finanziari a termine e opzioni; - contratti su tassi di cambio e tassi d’interesse; - valori mobiliari”; della “8) partecipazione alle emissioni di titoli e prestazioni di servizi connessi”; della “9) consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi nel campo delle concentrazioni e del rilievo di imprese”; dei “10) servizi di intermediazione finanziaria del tipo “money broking”; della “11) gestione o consulenza nella gestione di patrimoni”; della “12) custodia e amministrazione di valori mobiliari”; dei “13) servizi di informazione commerciale”; della “14) locazione di cassette di sicurezza”.
53 Tale esclusione conseguiva dal fatto che sia il comma 3, dell’art.10, con riferimento all’attività finanziaria esercitabile dalle banche, sia il comma 2 dell’art.106, con riferimento a quella svolta dagli intermediari facevano “salve le riserve di attività previste dalla legge”.
Tale salvezza è scomparsa nella formulazione attuale dell’art.106. Ciò, tuttavia, si spiega con la sostanziale inutilità della previsione in seguito alla riscrittura della norma. Come si vedrà nel testo, per gli intermediari iscritti nell’albo dell’art. 106 l’esclusione dal novero delle attività finanziarie da essi esercitabili, di quelle riservate dalla legge a soggetti diversi, è ora conseguenza sia della limitazione a livello di norma primaria della predetta attività alla sola concessione dei finanziamenti, sia della puntuale indicazione a livello di norma secondaria del contenuto tipico della stessa. Ed infatti nell’elenco delle operazioni che gli intermediari sono abilitati a concludere non sono ricompresi gli atti, quali la prestazione dei servizi di pagamento o di investimento, riservati dalla legge ad altri soggetti e che potrebbero essere svolti dagli intermediari solo se espressamente autorizzati dalle Autorità di vigilanza.
54 A differenza dell’originaria formulazione che faceva riferimento anche all’attività di assunzione di partecipazioni e di intermediazioni in cambi.
55 Individuata nella “concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma”.
56 Rientrano così nella concessione dei finanziamenti la “locazione finanziaria”; l’”acquisto di crediti a titolo oneroso” il “credito ai consumatori”, quello “ipotecario”, il “prestito su pegno”, il “rilascio di fideiussioni, avallo, apertura di credito documentaria, accettazione, girata, impegno a concedere credito, nonché ogni altra forma di rilascio di garanzie e di impegni di firma”.
57 Sulla nozione di “pubblico” e sulla necessità della ricostruzione unitaria di questa nei due settori dell’intermediazione creditizia e mobiliare, ci permettiamo di rinviare a SPENA La raccolta del risparmio fra il pubblico e la posizione della impresa bancaria nell’ordinamento creditizio (a proposito della sentenza n. 2579 del 1998 delle sezioni unite della Cassazione), in Dir. banc. 1991, I, pp. 339 e ss.
58 ANTONUCCI, op. cit., p. 273, con la precisazione che alle attività svolte in regime di libera prestazione dei servizi, le norme si applicherebbero solo in caso di spostamento del prestatore dei servizi. Con riferimento alla formula analoga utilizzata nell’art. 1 della Legge n.154/1992, v. PORZIO, Sub Art.1 Legge 17 febbraio 1992, n. 154, cit., p. 1130.
59 V. MAISANO, op. cit., p. 163.
60 Quest’ultima, infatti, forniva già un quadro sufficientemente completo in merito agli obblighi informativi, alla forma dei contratti, al loro contenuto, rispetto al quale le ulteriori previsioni della Legge n. 154/1992 avrebbero potuto rappresentare, al più integrazioni e aggiunte.
61 Precisamente per tali profili il provvedimento 24 maggio 1992 della Banca d’Italia rinviava alle delibere Consob n. 5386 e 5387/1991.
62 Vedi COSTI – ENRIQUES, Il mercato mobiliare, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino G, vol. VIII, Cedam, Padova, 2004, p. 302.
63 Per primo, ma con riferimento alla Legge n. 1/1991 e quasi profeticamente, MINERVINI, Sim e riorganizzazione del mercato mobiliare, alcuni appunti su una legge difficile, in Corriere Giur., 1991, fasc. n. 2, p. 131.
64 V. SALODINI, Intermediari finanziari, in Il diritto Encicl. giur., vol. VIII, 103, Giuffrè, Milano, 2007, p. 103.
65 V. CRISCUOLO, Gli intermediari finanziari non bancari - Attività, regole e controlli, Cacucci, Bari, 2003, p. 145.
66 Quanto detto non intende chiaramente ignorare che esistono diverse nozioni di “attività finanziaria”, alle quali fanno riferimento un “nugolo di leggi” e che in particolare esiste una nozione “ibrida”, di attività finanziaria all’art. 59 del T.u.b. che dà una definizione di “società finanziaria”, la quale ancora comprende l’attività di intermediazione mobiliare. Non è certamente questa la sede per affrontare una tematica dai risvolti così complessi e delicati, soprattutto per la difficoltà di trovare un criterio, che trovando una ratio ad ogni norma, eviti contraddizioni nel sistema e rischi di sovrapposizione o contrasti di discipline speciali. Ci sembra, tuttavia, che la portata definitoria di tali disposizioni non vada estesa al di là degli specifici contesti nel quale le stesse sono dettate e dalle finalità perseguite, che nel caso dell’art. 59 del T.u.b. è quella di estendere anche agli intermediari in strumenti finanziari le regole sulla vigilanza consolidata.
67 Sulle regole di formazione dei contratti in materia di intermediazione mobiliare, v. VETTORI, Contratti di investimento e rimedi, in Obbligazioni e contratti, 2007, p. 785.
68 A quest’ultime, infatti, fino alla modifica introdotta dall’art. 4, comma 2, D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, continuavano ad applicarsi le norme previste dal Capo I, salvo che “per gli aspetti non diversamente disciplinati” dal Capo II.
69 Quest’ultimi, oltre che dalle banche e dagli intermediari finanziari, possono essere prestati anche dagli istituti di pagamento e di moneta elettronica (art. 114-sexies).
70 Gli è infatti da dire che il Ministero del Tesoro (ora Ministro dell’Economia e Finanze) ha fatto un uso ridottissimo di tale potere, esercitandolo una sola volta, salvo poi vedere annullati i suoi effetti. Con D.m. del 7 ottobre 1994, infatti, la raccolta del risparmio di credito da parte di imprese non bancarie è stata sottoposta alla disciplina della trasparenza (art.2), ma tale provvedimento è stato successivamente revocato dall’art.11 della delibera Cicr 19 luglio 2005.
Quando pertanto si è nuovamente posto il problema di incidere sulla sfera di applicazione della disciplina si è scelta la diversa soluzione dell’intervento normativo primario per estenderla ai mediatori creditizi (art.16, comma. 4, L. n.108/1998), ai servizi di Bancoposta (D.P.R. n.144/2001) e agli IMEL (art.114-bis T.u.b.).
Con riferimento a quest’ultimi va però puntualizzato che costituendo per l’art. 2, comma 4, del D.lgs. n. 11/2010 l’emissione di moneta elettronica un servizio di pagamento, essi saranno sottoposti esclusivamente alla disciplina del Capo II-bis (fatti salvi naturalmente i commi 1, 2, 3, 4, 6 e 7 dell’art.117 espressamente richiamati dall’art.126-quinquies), oltre naturalmente alle regole generali e controlli di cui al capo III. Il che confermerebbe nuovamente la natura residuale della disciplina prevista dal Capo I.
71 Ciò è avvenuto anche per il mercato mobiliare. Si pensi alla diversa fissazione delle regole di comportamento che gli intermediari sono tenuti a rispettare, in funzione della natura del servizio prestato (gestione di portafoglio, consulenza, o altro).
72 Si veda R. Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2016, pp. 2 e ss.
73 Si vedano RISPOLI FARINA e SPENA, Le regole di trasparenza nel mercato creditizio: verso l’omogeneizzazione delle regole di comportamento dei prestatori dei servizi bancari, finanziari e di pagamento, con le regole di comportamento dei prestatori dei servizi di investimento, in RISPOLI FARINA SCIARRONE ALIBRANDI TONELLI (a cura di), “REGOLE e MERCATO”, Tomo II, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 155 e ss.; le società iscritte nell’elenco di cui all’art. 106 T.u.b. possono essere autorizzate al svolgere servizi di investimento dalla Banca d’Italia, mentre Poste Italiane può esercitare i servizi di investimento di cui agli art.12 D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, senza essere iscritta in albi o elenchi.
74 Si veda Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2016, pp. 2 e ss.
75 Per tutti ANNUNZIATA, La disciplina, cit., pp. 7 e ss.
76 Per Alessandro Nigro, “la trasparenza è uno degli strumenti più importanti anche se non l’unico, per arrivare a relazioni contrattuali più corrette ed equilibrate”, in La legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari: note introduttive, in Dir. Banc, 1992, p. 421; Lupoi, Trasparenza e correttezza delle operazioni bancarie e di investimento (note alle nuove istruzioni di Banca d’Italia sulla trasparenza) in Contratto e impresa, 2009, pp. 1244 e ss. Per un quadro generale per il mercato mobiliare si veda Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2015, pp. 131 e ss.; ID., La disciplina del mercato dei capitali, Giappichelli Torino, XII ed., pp. 109 e ss.
77 È noto che, a seguito del recepimento delle direttive in materia di servizi di pagamento (e di credito al consumo) la disciplina del Capo I del T.u.b., contenuta negli art. dal 115 al 120-bis non è più la disciplina generale della trasparenza, in quanto il suddetto recepimento ha comportato la coesistenza di tre regimi di trasparenza, le cui regole solo in parte coincidono. Pertanto, la precedente disciplina “generale” assume valore residuale. La asserita residualità non implica tuttavia di certo un giudizio di valore nei confronti delle norme richiamate, la cui rilevante portata è evidente dai richiami al loro contenuto. Si veda RISPOLI FARINA, Note a margine della disciplina di trasparenza dei servizi di pagamento, in Studi per Abbadessa, Torino, 2013. Si veda anche SPENA, Commento sub Art. 115, in PORZIO, BELLI, LOSAPPIO, RISPOLI FARINA. SANTORO (a cura di), Testo Unico Bancario. Commentario, Milano, 2010, pp. 950 e ss., nonché Commento sub Art.115, in PORZIO, BELLI, LOSAPPIO, RISPOLI FARINA, SANTORO (a cura di), Testo Unico Bancario, cit., Addenda di aggiornamento ai d.lgs. 141/2010 e 218/2010, Milano, 2011, p. 37.
78 Giusto il rinvio contenuto nell’art. 125-bis, con la precisazione che con riferimento all’art. 119 il richiamo è limitato al comma 4.
79 Per i servizi di pagamento così l’art. 6, della Sezione VI delle Istruzioni della Banca d’Italia del 15 luglio 2015. Per il mercato mobiliare l’art. 53 del regolamento CONSOB 29 ottobre 2007, n. 16190, nell’ultima versione di cui alla delibera 8 gennaio 2015, n. 19094. Per una ricostruzione delle regole di comportamento a carico degli intermediari nel mercato mobiliare e creditizio si veda SPENA, Le regole di comportamento nella prestazione dei servizi bancari e finanziari nel mercato creditizio e la disciplina delle nullità previste dal Tub, Roma, 2015, pp. 65 e ss. Per il quadro attuale, PERRONE, Il diritto del mercato dei capitali, GIUFFRÈ FRANCIS LEFEBVRE, Milano, 2024, pp. 225 e ss.
80 Il primo a cogliere profeticamente la portata del fenomeno, già con riferimento all’antecedente storico del T.u.f., la Legge n. 1/1991, è G. Minervini, Il controllo del mercato finanziario. L’alluvione di leggi, in Giur. comm., 1992, I, pp. 5 e ss. L’A., in particolare, sottolinea come «l’omogeneizzazione delle normative di controllo si sta… realizzando nella direzione del sistema bancario e dell’ordinamento sezionale», richiamando a titolo di esempio l’art. 13 comma 2 della Legge n. 1 del 1991, che attribuisce alla Consob il potere di sospendere la SIM dall’albo «in ogni caso in cui lo richieda la tutela del pubblico risparmio».
«La disciplina» – conclude l’A. – «è quindi bancocentrica non solo per la condizione di favore fatta agli intermediari bancari, autorizzati ad operare nel mercato finanziario in proprio e tramite la SIM, ma anche per l’adozione di una normativa di controllo del sistema bancario».
81 Così l’art. 36, comma 1. La possibilità di utilizzare un supporto informatico («non cartaceo») nella definizione del regolamento è subordinata alla duplice condizione che «i) tale modalità risulti appropriata per il contesto in cui si svolge o si svolgerà il rapporto tra l’intermediario e il cliente; e ii) il cliente o potenziale cliente sia stato avvertito della possibilità di scegliere tra supporto duraturo cartaceo o non cartaceo, ed abbia scelto espressamente quest’ultimo».
82 Decisa infatti è stata la giurisprudenza nell’affermare che sugli intermediari finanziari, incombe l’obbligo di informare il cliente anche sui rischi specifici inerenti al singolo servizio o strumento negoziato (c.d. rischio emittente specifico) e che all’assolvimento di tale obbligo non era funzionale il documento generale sui rischi. V. in tal senso, tra le tante, Trib. Napoli, 13 febbraio 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 299, con Nota di Renzulli. Si veda di recente: Cassazione civ, Sez. I, sent. n.7932 del 20/03/2023, che con particolare riferimento all’obbligo di informazione attiva (art. 28, comma 2 reg. Consob n. 1152 del 1998), richiede che “gli intermediari forniscano all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento”.
83 Così gli artt. 29 e 30 del regolamento mercati.
84 Così l’art. 35 del regolamento mercati.
85 Così l’art. 31 del regolamento mercati.
86 In particolare, se il corrispettivo in tutto in parte non deve essere pagato in moneta comunitaria, vanno indicati la valuta estera, i tassi e le spese di cambio applicabili.
87 Così l’art. 32 del regolamento mercati.
88 Per i contenuti delle informazioni, alla luce della Direttiva Mifid1, sia consentito il rinvio a M. RISPOLI FARINA, Sub art. 4, comma 2, lettera b, in IRACE E RISPOLI FARINA (a cura di) L’attuazione della Direttiva MIFID. Decreto legislativo 17 settembre 2007, n. 164, Giappichelli, Torino, 2010, pp.140 e ss., nonché Obblighi di comportamento degli intermediari finanziari, attuazione della direttiva Mifid e crisi finanziarie. verso una diversa tutela dei risparmiatori? in PRINCIPE (a cura di), Impresa bancaria e crisi dei mercati finanziari, Napoli, 2010, pp. 191 e ss. Sulla pregnanza di tutti i tipi di informazione citati, si veda sempre Cass., n.7932 del 2023, ult. cit.
89 Così ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare, Settima edizione, Torino, 2015, 8, che individua in ciò il tratto distintivo dell’attività bancaria rispetto alle altre attività finanziarie; ID, La disciplina del mercato dei capitali, Torino, 2024, pp. 4. e ss.
90 In ragione di tanto la raccolta del risparmio tra il pubblico attraverso fondi rimborsabili, quando è congiunta all’esercizio del credito, è attività riservata alle Banche (art. 10, comma 2, T.u.b). Vedi sul punto v. SPENA, Le regole di comportamento cit., p. 72.
91 Tale informazione è infatti essenziale alla valutazione dell’adeguatezza dell’investimento, nei servizi di consulenza e gestione di portafoglio, al punto che, se il cliente la rifiuta l’intermediario non può prestare il servizio (art. 39, comma 6, Regolamento mercati). Si veda ANNUNZIATA, La disciplina del mercato dei capitali, cit. Torino 2023; IVI, una ricostruzione dell’evoluzione della disciplina di adeguatezza. Per la recente evoluzione della disciplina di adeguatezza, alla luce dell’attuazione della regolamentazione ESG, si veda RISPOLI FARINA, La sostenibilità dei servizi di investimento, in Riv. Dir. banc, 2024, pp. 31 e ss.
92 Approvate con la circ. 13 luglio 2015, in www.bancaditalia.it.; ivi le istruzioni aggiornate agli ultimi Orientamenti EBA del 2018.
93 Così il § 3 della Sezione II, nonché con specifico riferimento ai servizi di pagamento il § 4.1.1 della Sezione VI.
94 Fino alla modifica introdotta dall’art. 4, comma 2, del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141.
95 Si veda SPENA, Commento sub Art. 116, in PORZIO, BELLI, LOSAPPIO, RISPOLI FARINA, SANTORO (a cura di), Testo Unico Bancario, cit., pp. 957 e ss.; MIRONE, Commento sub Art. 116, in COSTA (a cura di), Commento al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, II, Torino, 2013, pp. 1300 e ss.; ID, Commento sub art. 116, in COSTA e MIRONE, Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, sec. ed. II, Torino, 2024, p. 1744.
96 Convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2015, n. 33.
97 V. l’ampia subdelega contenuta nell’art. 13 della delibera 4 marzo 2003, rubricata «Disposizioni di attuazione».
98 Anche nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal D.m. 3 febbraio 2011, n. 116, Disposizioni sul credito ai consumatori e modifiche alla deliberazione del 4 marzo 20023 in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in www.bancaditalia.it.
99 Così SPENA, Le regole di comportamento, cit., p. 77.
100 Tali informazioni per le operazioni di credito al consumo sono contenute nel documento denominato «informazioni europee di base sul credito ai consumatori», che quindi svolge in tale settore funzioni analoghe ai fogli informativi così il § 4.2.1, della Sezione Vii). V. in proposito b, Il nuovo documento denominato «informazioni europee di base» nell’ambito del rinnovato regime informativo nei contratti di credito ai consumatori, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, pp. 98 e ss.
101 Non solo alcun onere aggiuntivo può essere imposto al cliente (così il comma 4), ma «è nullo ogni patto, anche posteriore alla stipulazione del contratto, con il quale si impedisca o si renda oneroso per il debitore l’esercizio della facoltà di surrogazione» (così il comma 6).
102 Sul contenuto dell’informazione nel credito al consumo, v. DI DONNA, La disciplina degli obblighi informativi precontrattuali nella direttiva sul credito al consumo, in Giur. it., 2010, pp. 223 e ss.; Per l’assetto attuale della disciplina in tema di obblighi precontrattuali nel credito ai consumatori, si veda VERSACI, Commento sub art. 124, in COSTA MIRONE Commento al Testo unico, Giappichelli, Torino 2024, cit., II, pp. 2013 e ss.
103 Vedi il § 4.2.2 della Sezione Vii al quale si rimanda per un dettaglio analitico del contenuto delle informazioni.
104 A tali informazioni per i contratti di credito collegati alla acquisizione di un bene o servizio, si aggiunge l’indicazione di quest’ultimo e del suo prezzo.
105 Così SPENA, Le regole di comportamento, cit., p. 82.
106 Con riferimento alle operazioni di credito al consumo e ai servizi di pagamento, rispettivamente il primo comma dell’art. 125-bis e l’art. 126-quinquies: si veda MIRONE, Commento sub art. 117, in Costa (a cura di), Commento cit., pp. 1309 e ss.; MAUGERI VERSACI, Commento sub art.125-bis, in COSTA MIRONE (a cura di), Commento, cit., 2024, p. 2045.
107 Così F. ROLFI, La cassazione e la forma dei contratti bancari: il difficile bilanciamento tra garanzie e celerità (Nota a Cass., Sez. I, 9 luglio 2005, n. 14470), in Corr. giur., 2006, pp. 361 e ss.
108 Vedile tutte in www.ilcaso.it.
109 La Cassazione, con sentenza n. 2338 del 24 gennaio 2024, si è pronunciata in tema di nullità di protezione in un caso di apertura di credito, ribadendo che la nullità per mancanza di prova scritta per i contratti bancari ex art. 117 T.u.b. può essere rilevata dal giudice d’ufficio ex art. 127, comma 2 del T.u.b. solo quando conforme all’interesse del contraente debole, il quale può dare la prova dell’affidamento con altri mezzi. (come già in Cass. SS.UU., n 262 del 2014). Si veda ampiamente PORTOLANO, Commento sub art.127, in COSTA MIRONE, Commento al testo unico, cit., p. 2241.
110 Non a caso, infatti, nell’art. 1 T.u.f. ante riforma Mifid (D.lgs. n. 164 del 2007), la consulenza era relegata tra i servizi accessori, e in modo corrispondente l’art. 23 escludeva la redazione scritta del contratto per quest’ultimi.
111 Art. 10 della delibera 4 marzo 2003.
112 In tal senso anche l’ordinanza n. 10447 del 27 aprile 2017, della Prima Sezione Civile della Cassazione che – come si diceva innanzi – ha rimesso la questione sulla rilevanza della forma scritta del contratto bancario o di investimento, alle Sezioni Unite.
113 Art. 23 T.u.f. per i servizi di investimento ed art. 117 T.u.b. per quelli bancari e di pagamento, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 125-quinquies, con la sola variante per le operazioni di credito al consumo che la individuazione delle informazioni e condizioni che devono risultare dal contratto è affidata dall’art. 126-quinquies, alle prescrizioni della Banca d’Italia «in conformità alle deliberazioni del Cicr». Vedi l’art.5, comma 2, Sezione Vii delle Istruzioni.
114 Esplicita in tal senso per le operazioni di credito al consumo, la prescrizione del comma 5 dell’art. 125-bis, per la quale «nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base espressa di previsioni contrattuali» chiaramente estensibile a tutte le operazioni concluse nel mercato creditizio.
115 Art. 117, comma 7, per i servizi bancari e di pagamento (per quest’ultimi sempre in virtù del richiamo contenuto nell’art. 125-quinquies), nonché l’art. 125-bis per le operazioni di credito al consumo.
116 La n. 10447 del 27 aprile 2017, che per il contrasto con le precedenti decisioni del 2016 in ordine alla validità o meno dei contratti c.d. “mono firmati”, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.
117 In proposito v. RISPOLI FARINA, SPENA, La trasparenza delle condizioni e i requisiti informativi per i servizi di pagamento, in RISPOLI FARINA, SANTORO, SCIARRONE ALIBRANDI E TROIANO (a cura di), Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della Direttiva 2007/64/CE, Milano, 2009, p. 81.
118 Sull’esercizio dello jus variandi da parte della banca si veda MORERA, Sub art.118, in PORZIO, BELLI, LOSAPPIO, RISPOLI FARINA, SANTORO (a cura di), Testo Unico Bancario, cit., pp. 984 e ss. Vedi anche V. Farina, Principio di continuità dei contratti e jus variandi nei contratti bancari e finanziari, in Rass. dir. civ., 2002, 180 e Gaggero, La modificazione., unilaterale dei contratti bancari, Padova, 1999, p. 394.
119 Il potere di variazione unilaterale della banca in tal caso è assicurato dal richiamo alla regola dell’art. 118 contenuto nel comma 2 dell’art. 125-bis T.u.b.
120 Per i servizi di pagamento la norma che regolamenta lo jus variandi è l’art. 126-sexies T.u.b.
Di rilievo la recente decisione della Corte di giustizia europea, Sez. Iii, 25 gennaio 2017, causa C-375/15 (vedila in www.dirittobancario.it), per la quale le modifiche delle informazioni e delle condizioni di cui all’art. 42 della Direttiva sui servizi di pagamento (la n. 2007/64, anche nota come PSD), nonché le modifiche del contratto quadro, trasmesse dal prestatore di servizi di pagamento all’utente di tali servizi a mezzo di una casella di posta elettronica integrata in un sito internet di servizi bancari online, possono essere considerate fornite su un supporto durevole, ai sensi di tali disposizioni, soltanto qualora ricorrano le seguenti due condizioni. La prima che il sito internet permetta all’utente di memorizzare le informazioni a lui personalmente dirette in modo da potervi accedere e riprodurle in maniera identica, per un periodo di congrua durata, senza possibilità di alcuna modifica unilaterale del loro contenuto da parte del prestatore o da parte di altro professionista. La seconda che, se l’utente dei servizi di pagamento è obbligato a consultare il sito internet al fine di prendere conoscenza delle informazioni medesime, la trasmissione di tali informazioni sia accompagnata da un comportamento attivo da parte del prestatore di servizi di pagamento, destinato a portare a conoscenza dell’utente l’esistenza e la disponibilità di tali informazioni sul sito internet.
121 Abolito, infatti, il comma 5 dell’art. 117 dall’art. 3 del D.lgs. n. 218 del 2010, la disciplina dello jus variandi resta ora affidata esclusivamente all’art. 118 T.u.b., che limita espressamente siffatto potere ai contratti di durata.
122 Che si applica anche alle operazioni di credito al consumo in virtù del richiamo contenuto nell’art. 125-bis, comma 2. Non ha eliminato, invece, le disparita con il contratto di investimento, l’art. 126-sexies in tema di servizi di pagamento, che regola lo jus variandi del prestatore in termini più penalizzanti per il cliente rispetto a quanto previsto per gli altri servizi bancari.
123 In proposito si veda SPENA, Sub art.126-sexies, in PORZIO, BELLI, LOSAPPIO, RISPOLI FARINA SANTORO (a cura di), Testo Unico Bancario, cit., pp. 1110 e ss.
124 Cosi l’art. 6, comma 2-quater, lett. c.
125 Cosi la successiva lett. d del medesimo comma. Delle «controparti qualificate», la norma fornisce un ampio elenco nei numeri da 1 a 5 (imprese di investimento, banche, imprese di assicurazioni, imprese la cui attività principale consista nel negoziare per conto proprio merci e strumenti finanziari derivati su merci; le imprese la cui attività esclusiva consista nel negoziare per conto proprio nei mercati di strumenti finanziari derivati) il quale tuttavia non ha la pretesa di essere esaustivo, perché viene attribuito al medesimo regolamento CONSOB, la possibilità individuare di altre categorie di soggetti privati suscettibili di rientrare nella categoria.
126 I “clienti professionali” secondo l’art. 26, comma 1, lett. d, del regolamento, possono essere sia privati e in tal caso per essere considerati tali devono soddisfare i requisiti di cui all’all. 3 di quest’ultimo, sia pubblici, e in tale ipotesi devono avere “i requisiti di cui al regolamento emanato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze ai sensi dell’articolo 6, comma 2-sexies del Testo Unico”.
L’all. 3 del regolamento, a sua volta, distingue la categoria in «clienti professionali di diritto» e «clienti professionali su richiesta». I primi sono individuati in ragione della appartenenza al medesimo settore dei servizi di investimento, delle loro dimensioni (nell’uno e nell’altro caso per determinati servizi sono considerati anche controparti qualificate: cosi il comma 2 dell’art. 58, che rinvia ai n.1 e 2 dell’all.) e dell’attività caratterizzante l’impresa svolta. Sono, invece, «clienti professionali su richiesta», gli investitori per i quali «l’intermediario possa ragionevolmente ritenere, tenuto conto della natura delle operazioni o dei servizi previsti», che gli stessi siano «in grado di adottare consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e di comprendere i rischi» che assumono. La valutazione dell’intermediario, tuttavia non è meramente discrezionale. Essa è legata alla ricorrenza di almeno due dei tre parametri indicati nel medesimo all., relativi alla frequenza delle operazioni significative concluse dal cliente (almeno dieci al trimestre nei quattro precedenti alla richiesta), alla dimensione del suo portafoglio (superiore, incluso il deposito in contante, ad € 500.000), alla conoscenza da parte di quest’ultimo del mercato, in funzione dell’attività professionale svolta da almeno un anno.
127 Quest’ultima categoria individuata dalla lett. e del medesimo comma, ha una valenza residuale perché vi rientrano tutti gli investitori, che non sono clienti professionali o controparti qualificate.
128 L’art. 122, infatti, nell’individuare l’ambito oggettivo di applicazione delle norme del “credito ai consumatori” fa riferimento “ai contratti di credito comunque denominati”, a sua volta definito nell’art. 121, lett. c come “il contratto con cui un finanziatore concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra facilitazione finanziaria”.
È dunque la categoria dei consumatori – individuata nella precedente lett. b nella persona fisica che, indipendentemente dall’essere un imprenditore o un professionista, agisca per “scopi estranei” alla sua attività – a determinare il perimetro di applicazione delle norme.
129 Individuati nell’art. 3, quarto alinea, della Sezione I, in coerenza alla definizione dell’art. 121 comma 1, lett. b, T.u.b., nella “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”.
130 Tale categoria, secondo la definizione datane dal quinto alinea del medesimo articolo comprende oltre i medesimi consumatori “le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale; gli enti senza finalità di lucro; le micro-imprese”.
131 Per il NIGRO il T.u. bancario segna il punto più alto del vistoso ampliamento dei poteri di intervento dell’Autorità di vigilanza che caratterizza rispetto alla Legge del 1992, la disciplina di trasparenza. Il rilievo è in relazione alla c.d. tipizzazione di contratti e titoli da parte della Banca d’Italia. Si veda, Disciplina di trasparenza delle operazioni bancarie e contenuto delle condizioni contrattuali: note esegatiche, in Riv. Dir Banc, 1998, p. 159.
132 A seconda che si tratti di consulenza e gestione portafogli, di un servizio diverso, o della mera esecuzione di ordini ricevuti dal cliente.
133 Ossia le «banche autorizzate in Italia, le banche comunitarie e le banche extracomunitarie che operano in Italia in regime di libera prestazione di servizi», nonché gli intermediari finanziari «iscritti nell’albo previsto dall’articolo 106 T.u.b.» (cosi art. 4 della Sezione I delle Istruzioni della Banca d’Italia).
134 Si pensi ad esempio a un’impresa di investimento diversa dalla banca o da un intermediario finanziario iscritto nell’albo dell’art. 106 T.u.b.
135 Identificata sulla scorta della giurisprudenza nord americana (un esauriente rassegna della stessa è in Preite, In tema di sollecitazione del pubblico risparmio, in Giur comm., 1986, II, pp. 232 e ss.) nel need of protection dell’investitore-risparmiatore, la ratio della disciplina ex art. 18 Legge n. 216/74, veniva ritenuto che sussistesse la sollecitazione del pubblico risparmio, ogni qualvolta il destinatario dell’offerta dei valori mobiliari non potesse essere considerato investitore sofisticato (accredited investitor), cioè dotato per un verso della disponibilità dell’informazione rilevante (capace cioè di consentire una consapevole e ragionevole scelta di investimento) sulla operazione proposta (così G. Rossi, Offerta al pubblico di titoli, controlli e strutture di mercato, in Riv. soc., 1985, p. 3; D’ALESSANDRO, L’attività di sollecitazione al pubblico risparmio, in Sistema finanziario e controlli: dall’impresa al mercato, in Quaderni di Giur. Comm., n. 85, 1986, p. 100); per altro verso, anche della capacità di valutare tale informazione (Preite, op. cit., pp. 232 e s.).
136 Così PORZIO, Note introduttive. Legge 17 febbraio 1992, n. 154. Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Le nuove leggi civ. comm., 1993, p. 1127 e ivi altri riferimenti di dottrina.
137 Alludiamo alle direttive CEE n. 87/102 sul credito al consumo, n. 93/2013 sulle clausole abusive e n. 2007/64 sui servizi di pagamento, anche nota come PSD.
138 Si veda ampiamente SPENA, Le regole di comportamento, cit., pp. 132 e ss.
139 Le origini della disciplina sulla product governance si rinvengono, come noto, nel documento congiunto EBA-ESMA-EIOPA del 2013, reperibile all’indirizzo internet https://www.eba.europa.eu/-/eba-eiopa-and-esma-publish-joint-position-onproduct-oversight-and-governance-processes. Il documento riporta in appendice l’elencazione dei più evidenti casi di misselling di prodotti finanziari emersi nel contesto della crisi finanziaria a livello europeo. In Italia fu identificato, all’epoca, come emblematico il caso degli strumenti derivati. Successivamente, nel contesto delle note crisi bancarie, è emerso il caso delle obbligazioni bancarie, in particolare subordinate: come si è avuto modo di osservare, questa attività oggi è assimilata in tutto e per tutto alla negoziazione in conto terzi. Si veda BUSCH, Product Governance and Product Intervention under MiFID II/MiFIR, in BUSCH - FERRARINI (nt. 3), pp. 123 e ss.; L. SILVERENTAND, MiFID II - Product Governance, in Tijdschrift voor Financieel Recht, 3, 2015, pp. 63 ss.; European Regulatory Private Law Going Global? The Case of Product Governance, in European Business Organization Law Review, vol. 68, 2017, pp. 305 e ss.; G. SCHAEKEN WILLEMAERS (nt. 24), pp. 11 e ss.
140 Si veda ANNUNZIATA, Il recepimento di Mifid II: uno sguardo di insieme, tra continuità e discontinuità. In Riv delle società, n. 4, 2018. Il nuovo regolamento intermediari adottato con delibera Consob con delibera 20307 del 15 febbraio 2018 in recepimento della Direttiva Mifid2 e del Regolamento n. 600/2014/EU c.d. MIFIR ha raccolto le numerose innovazioni del regima MIDID2, in materia di contratti, incentivi, product governance, commercializzazione di ocr,, distribuzione di prodotti finanziari assicurativi. Il regolamento mercati del 28 dicembre 2017 ha innovato il precedente.
Quanto all’art. 23 T.u.f., la nuova versione prescrive che: “I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori, sono redatti per iscritto, in conformità a quanto previsto dagli atti delegati della Direttiva 2014/65/UE, e un esemplare è consegnato ai clienti. La Consob, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma, assicurando nei confronti dei clienti al dettaglio appropriato livello di garanzia. Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo”. Per quanto riguarda i servizi accessori, la Consob ha specificato nel nuovo “regolamento intermediari” (art. 37, co. 4) che solamente il servizio di concessione di finanziamenti è sottoposto ai medesimi requisiti formali prescritti per i contratti su servizi e attività di investimento.
141 La disciplina sul punto si ritrova declinata in maniera dettagliata all’art. 50 del regolamento delegato 565/2017, recepito nell’ordinamento all’art. 36 come “regolamento intermediari”. Quest’ultimo, al comma 2, impone all’intermediario di fornire al cliente o al potenziale cliente le informazioni che si riferiscono “ai costi e oneri connessi, comprese le informazioni relative sia ai servizi di investimento che ai servizi accessori, al costo dell’eventuale consulenza e dello strumento finanziario raccomandato o offerto in vendita al cliente e alle modalità di pagamento da parte del cliente, ivi inclusi eventuali pagamenti di terzi. Le informazioni sui costi e oneri, compresi quelli connessi al servizio di investimento e allo strumento finanziario, non causati dal verificarsi di un rischio di mercato sottostante, sono presentate in forma aggregata per permettere al cliente di conoscere il costo totale e il suo effetto complessivo sul rendimento e, se il cliente lo richiede, in forma analitica”.
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