Scritto da Stefano Selvaggi • gen 2025
Il contributo, prendendo le mosse dall’ampio dibattito svoltosi in merito all’ammissibilità della capitalizzazione trimestrale degli interessi operata dalle banche nei contratti con i clienti, conduce un’analisi critica del nuovo corso della giurisprudenza, a partire dalla svolta del 1999, e dei numerosi interventi legislativi sull’anatocismo bancario, occupandosi delle questioni più controverse emerse in materia.
Starting from the wide-ranging debate on the admissibility of quarterly capitalisation of interest operated by banks in contracts with customers, the contribution conducts a critical analysis of the new course of jurisprudence since the turn of 1999 and of the numerous legislative interventions on anatocism in banking, dealing with the most controversial issues that have emerged on the subject.
1.
È pacifico, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che gli usi ai quali si riferisce l’incipit dell’art. 1283 C.c. sono propriamente gli usi normativi di cui agli artt. 11 e 82 delle disposizioni preliminari al Codice civile, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento, appunto usus, da parte della collettività dei consociati, che integra l’elemento oggettivo, accompagnata dalla convinzione che si tratti di un comportamento non dipendente da mero arbitrio soggettivo, ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma già esistente che si ritiene faccia parte dell’ordinamento, ossia l’elemento soggettivo dell’opinio iuris ac necessitatis. È controverso, invece, se lo stesso articolo intenda riferirsi, tramite il menzionato richiamo, ai soli usi preesistenti all’entrata in vigore del Codice del 1942, oppure anche a quelli che si sarebbero formati in un momento successivo.
Per sostenere le ragioni di tale soluzione, indubbiamente di natura più liberale e ispirata ad una visione piuttosto elastica del sistema delle fonti del diritto, in particolare di quelle consuetudinarie, autorevole dottrina3 argomenta che, a contrario, se si volesse aderire all’idea che gli usi richiamati dalla disposizione in questione siano esclusivamente quelli già esistenti a far data dal 1942, si finirebbe col creare una inammissibile cristallizzazione degli usi stessi nel momento in cui questi siano venuti ad esistenza, non contemplando la possibilità che se ne formino di nuovi, e ciò in netto contrasto non solo con la lettera della disposizione contenuta nell’art. 8 delle Disp. prel. Cod. civ., che riguarda solo la fonte e non già il tempo di produzione della norma, ma anche, e soprattutto, con la sua ratio, che consiste evidentemente nell’affermazione dell’apertura dell’ordinamento giuridico alla creazione di norme in modo spontaneo in forza della naturale evoluzione e del progressivo mutamento dei rapporti sociali, così come conferma la previsione stessa, all’interno della gerarchia in cui consiste il sistema delle fonti di produzione del diritto, delle fonti fatto, da cui deriva appunto l’efficacia giuridica della norma consuetudinaria.4
Ed in effetti tale esigenza di flessibilità del comando giuridico e di aderenza dello stesso al progressivo evolversi della realtà sociale, cui indubbiamente risponde la previsione della consuetudine come fonte di produzione del diritto, non può certo dirsi inopportuna in un sistema caratterizzato dalla rigida gerarchia di fonti atto in cui il comando giuridico è necessariamente fissato in una disposizione scritta, sulla cui lettera può intervenire solo un’operazione meramente interpretativa, dai limiti ben delineati, della giurisprudenza; pertanto, se questa fosse effettivamente la ratio5 sottesa all’esplicito richiamo agli usi contenuto nell’incipit dell’art. 1283 C.c., non si potrebbe negare che l’interpretazione che riconduce all’operatività della deroga i soli usi preesistenti all’entrata in vigore del Codice sarebbe con essa radicalmente incompatibile.
In senso diametralmente opposto, è stato osservato da parte di altrettanto illustre dottrina6 che quando, come nella fattispecie in esame, la materia sia già regolata da una norma imperativa di legge, quale appunto l’art. 1283 C.c., il carattere inderogabile della norma costituisce un radicale impedimento alla legittima formazione di una prassi e quindi di un uso contrario al precetto legislativo:7 infatti, se la norma in parola impone ai privati il divieto di stabilire convenzionalmente la produzione di interessi anatocistici, ogni accordo concluso in spregio a tale divieto sarebbe inevitabilmente colpito da radicale nullità, in quanto appunto contrario a norma imperativa, e non si vede quindi come possa legittimamente venirsi a creare una valida consuetudine che, paradossalmente, avrebbe fondamento proprio nella sistematica violazione di una norma di legge.8
In ogni caso, la questione riguardante la necessaria corrispondenza, ai fini della stessa ammissibilità, della capitalizzazione trimestrale degli interessi ad un uso normativo era già nota ed ampiamente dibattuta all’epoca del previgente sistema codicistico, dato dal concorso tra Codice civile del 1865 e Codice di commercio del 1882: a tal proposito, era costante e consolidata la giurisprudenza9 secondo la quale l’art. 41 del Codice del commercio non potesse di per sé derogare all’art. 1232 del Codice civile e, pertanto, anche in materia commerciale, non erano dovuti interessi anatocistici se non nel caso di esistenza di una consuetudine che disponesse in tal senso.
Dunque, emerge inequivocabilmente che all’epoca tanto la dottrina10 quanto la giurisprudenza non avevano dubbi sulla positiva ricognizione di una consuetudine relativa alla capitalizzazione degli interessi per i crediti derivanti da rapporti commerciali, fra i quali rientrano a pieno titolo le operazioni bancarie.
Anche dopo l’entrata in vigore del Codice civile del 1942, la giurisprudenza11 ha continuato ad attestarsi su siffatte affermazioni, consolidando l’orientamento secondo il quale l’anatocismo è legittimamente applicabile se e nella misura in cui corrisponde ad una norma consuetudinaria, e tale veniva generalmente considerata la consuetudine, diffusa nella pratica delle operazioni bancarie, che permette la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente alla banca.
Secondo una teoria generalmente condivisa, tuttavia, il carattere normativo degli usi in questione non era di per sé idoneo a fondare una deroga alla disposizione legislativa prevista dal Codice all’art. 1283, dal momento che si poteva riconoscere ad essi efficacia vincolante esclusivamente in presenza di un espresso richiamo operato dall’articolo in parola: afferma infatti un illustre Autore12 che gli usi in questione non hanno forza obbligatoria di per sé e non sono pertanto atti a creare norme giuridiche, ma hanno efficacia giuridica vincolante proprio perché una norma di legge li richiama, ed assolvono perciò alla più modesta funzione di costituire il contenuto specifico della norma che ne fa menzione.13 Tale considerazione degli usi quale fonte subordinata, e non parallela, alla legge, risponde, d’altra parte, al radicato convincimento della statualità del diritto, in base alle idee innegabilmente dominanti al momento della redazione dell’attuale Codice civile.
In ogni caso, si trattava in sostanza di usi che traevano origine dalla pratica degli affari, essendo espressione fondamentale del potere di autonomia dei privati e in particolar modo dell’attività di impresa; essi si sono così affermati come regole giuridiche destinate ad operare non solo nei rapporti tra imprenditori, ma anche in quelli dove le parti assumevano i diversi ruoli che oggi definiremmo di professionista e consumatore. La stessa origine degli usi in questione, dunque, rende ragione della loro incontestabile, ed ancor oggi incontestata, funzionalità agli interessi dell’impresa, così come d’altra parte il loro riconoscimento ad opera della giurisprudenza del tempo trova spiegazione nella diffusa convinzione della coincidenza tra interesse dell’impresa, ed in particolar modo dell’impresa bancaria, la cui stabilità si riteneva avesse importanti risvolti anche sul piano pubblicistico, e interesse generale.
Pertanto proprio a questi usi mercantili, la cui esistenza e il cui carattere normativo sono stati costantemente sostenuti dalla giurisprudenza, si sarebbe riferito l’incipit dell’art. 1283 C.c.
Tuttavia, dopo un periodo14 di lungo silenzio della giurisprudenza di legittimità in riferimento al tema in esame, la Corte di Cassazione15 è tornata ad occuparsene, seppur incidentalmente, per sostenere che l’uso esistente in materia bancaria sulla capitalizzazione degli interessi non potesse estendersi oltre l’ambito soggettivo di formazione dello stesso, ovvero nei rapporti tra gli istituti di credito e i loro clienti, con conseguente esclusione delle società finanziarie, le quali dunque non potevano invocare l’uso in parola quale fondamento della pretesa di pagamento degli interessi anatocistici in deroga all’art. 1283 C.c., onde evitare il tradimento della originaria ratio della norma. Pertanto, la giurisprudenza ha manifestato, con la sentenza in questione, una certa diffidenza nei confronti dell’operatività dell’uso in questione, o quantomeno un’incontestabile prudenza e rigorosità nella sua applicazione, come d’altra parte può facilmente spiegarsi per via del carattere eccezionale della norma che si pone in deroga ad una disciplina generale, con la conseguente necessità di una sua interpretazione restrittiva.
In una successiva sentenza,16 invece, la stessa Corte si pronuncia precipuamente sulla natura dell’uso in parola, affermando, con un’articolata motivazione, in cui sono enunciati i principi coerenti e concordanti, che saranno poi costantemente riaffermati da tale consolidato orientamento, che «nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono (nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi) come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata ma sugli interessi da questa prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 codice civile», riconoscendo dunque l’esistenza di un uso di carattere normativo, e ascrivendosene altresì il relativo potere di accertamento, per effetto appunto della sua normatività, in ossequio al principio generale iura novit curia.
Fanno seguito a tale sentenza altre dieci pronunce17 della Suprema Corte alla stessa conformi, che, acriticamente uniformandosi alla precedente giurisprudenza, hanno avuto incontrovertibilmente l’effetto di consolidare tale orientamento:18 tra queste, particolarmente significativa è la sentenza19 con cui la Corte di Cassazione enuncia, per la prima volta, la massima secondo cui «il limite minimo di sei mesi perché gli interessi scaduti possano produrre interessi, previsto dall’art. 1283 codice civile, non si applica all’anatocismo fondato sugli usi bancari, poiché il rinvio agli usi, formulato in termini generali all’inizio dell’articolo citato, deroga a tutte le condizioni successivamente elencate, di ammissibilità dell’anatocismo, compresa quella relativa al detto limite temporale», così da consentire, su base consuetudinaria, anche la capitalizzazione trimestrale.
Sembra dunque difficile negare che l’affermazione dell’esistenza di un uso normativo, nella forma di una vera e propria norma consuetudinaria che consentiva la capitalizzazione trimestrale degli interessi nei rapporti bancari, fosse oggetto di un costante e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, durato quasi mezzo secolo, almeno fin quando, alla fine del ventesimo secolo, tale orientamento fu sostanzialmente disatteso e, con un repentino cambio di rotta, la stessa Corte sostenne un nuovo indirizzo con esso completamente in antitesi.
2.
Già a partire dal 1994, tuttavia, la giurisprudenza di merito, in particolare il Tribunale di Vercelli, ha cominciato a sollevare delle perplessità di non poco conto sull’effettiva fondatezza delle argomentazioni addotte dalla Corte di Cassazione per sostenere tale consolidato orientamento; alla pronuncia20 del giudice piemontese si sono ben presto affiancate quelle del Tribunale di Busto Arsizio,21 della Pretura di Roma22 e infine del Tribunale di Milano,23 sviluppandosi così una revisione giurisprudenziale che avrebbe poi portato, nel corso di pochi anni, al definitivo sovvertimento dell’impostazione tradizionalmente sostenuta dalla Cassazione, comportando una svolta che può a ragione essere definita epocale.
Il Tribunale di Vercelli, in particolare, anticipando il percorso logico seguito dalla Corte di Cassazione qualche anno dopo in tale decisiva pronuncia, dichiarò l’illegittimità, e di conseguenza la radicale nullità, della clausola che imponeva la capitalizzazione degli interessi, in quanto stipulata prima della scadenza degli stessi, affermando perentoriamente che non era affatto lecita la pretesa di corresponsione di interessi anatocistici, data l’inesistenza o, il che dal punto di vista processuale è equivalente, la mancanza di prova sull’esistenza di un uso normativo su cui tale pretesa si sarebbe dovuta fondare.
Ciò che il giudice piemontese escluse categoricamente era proprio il carattere normativo dell’uso in questione, qualificandolo piuttosto come negoziale, dal momento che mancava a tal fine l’elemento soggettivo consistente nella convinzione da parte della collettività dei consociati di adempiere ad una norma giuridica, non potendosi ritenere che l’accettazione della clausola anatocistica da parte dei clienti delle banche, condizione ineludibile di accesso al credito in base alla regola del prendere o lasciare, tipica delle condizioni generali di contratto, potesse coincidere con l’opinio iuris ac necessitatis, necessaria ai fini della configurazione della fattispecie in cui consiste l’uso normativo.
Il Tribunale di Busto Arsizio aggiunse a tali argomentazioni che il meccanismo della capitalizzazione trimestrale dell’interesse, a lungo andare, finirebbe inevitabilmente per falsare il tasso di interesse nominalmente determinato, portandolo con il tempo a superare il tasso soglia previsto dalla nuova disciplina24 degli interessi usurari.
Tali pronunce, rompendo il fronte del conformismo della giurisprudenza nel riconoscimento dell’anatocismo bancario, e, al contempo, l’opposto orientamento di autorevole dottrina,25 che pur aveva in precedenza costituito la base culturale di quell’indirizzo consolidato, costituirono un importante presupposto delle successive posizioni assunte dalla Corte di Cassazione in merito a tale dibattuta questione.
È pacifico che la giurisprudenza di legittimità degli anni ’80, così come l’appiattimento fideistico dei giudici di merito sulle sue sin troppo concise decisioni, peccò nel non aver saputo dare adeguato conto delle ragioni della perdurante condivisione di un fenomeno che non appariva più al passo con le mutate esigenze della società civile, in un quadro normativo che, anche sulla spinta della legislazione comunitaria,26 si era ormai evoluto verso la privilegiata esigenza di tutela del contraente debole, così come ampiamente dimostrato dalle leggi in materia di trasparenza bancaria27 e di usura.
Pertanto, era solo una questione di tempo prima che la Corte di Cassazione intervenisse dando voce al fermento dei giudici di merito e della dottrina,28 considerando la circostanza che la prassi bancaria di capitalizzazione degli interessi su base trimestrale è stata all’origine alimentata tramite l’inserimento delle relative clausole nei contratti bancari, cui notoriamente il cliente è chiamato ad aderire secondo il modello dell’art. 1341 C.c., implicando l’acriticità della passiva adesione ad un contratto già interamente predisposto dalla controparte l’impossibilità di rinvenire quell’elemento soggettivo integrante la fattispecie stessa della norma consuetudinaria, al massimo permettendo la qualificazione della fattispecie nei termini di mero uso negoziale.
Il nuovo orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte si apre con la sentenza29 16 marzo 1999 n. 2374, la quale commina la sanzione della nullità alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario a debito del correntista, in quanto esse trovano esclusivo fondamento in un uso che non può essere a ben vedere considerato normativo, ma meramente negoziale, essendo questo assolutamente inidoneo a porsi in deroga alle condizioni che consentono l’anatocismo in base all’art. 1283 C.c., norma imperativa a carattere eccezionale.
Due, sostanzialmente, le argomentazioni a fondamento di tale repentino cambio di rotta: per un verso la Corte rileva come non sia mai stata realmente accertata l’effettiva sussistenza di un uso normativo preesistente all’entrata in vigore del Codice del 1942, non potendosi considerare a tal fine idonea la testimonianza costituita dalle raccolte30 di usi locali rinvenute in alcune Camere di Commercio, le quali, comunque, sono tutte posteriori al 1952, per cui, più precisamente, si esclude che le norme bancarie uniformi possano fornire valida prova di usi locali preesistenti, la cui effettiva sussistenza resta quindi del tutto indimostrata; per altro verso, la stessa Corte, sostenendo la derivazione di siffatti usi direttamente dalle norme bancarie uniformi diramate dall’Associazione Bancaria Italiana nel 1952, come condizioni generali di contratto, afferma che l’inserimento di siffatte clausole «è acconsentito da parte dei clienti non in quanto ritenuto conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento ben lontano da quella spontanea adesione ad un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio iuris ac necessitatis se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca ed interessi dovuti dal cliente».
Nonostante con la successiva sentenza31 30 marzo 1999 n. 3096 la Suprema Corte abbia reiterato, sostanzialmente e formalmente, il sillogismo giudiziale della menzionata sentenza, ribadendo le argomentazioni in essa precedentemente sostenute, in un’altra pronuncia,32 di poco posteriore, la Corte sembra restringere l’affermazione del principio ai soli interessi moratori, in quanto nel caso concreto, come la stessa Corte si preoccupa di precisare, non era contestata la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi durante il rapporto di conto corrente. A ben vedere tale sentenza non è coerente, quanto meno nella motivazione, con i principi sostenuti dalle due che la precedono, contenendo, in effetti, alcune affermazioni33 di principio che sembrano decisamente discostarsi dall’iter argomentativo del nuovo orientamento, quanto meno nella parte in cui si riferisce ad una differenziazione di trattamento giuridico in tema di anatocismo tra interessi compensativi e moratori, e, specialmente, nella misura in cui restituisce dignità agli usi e alle consuetudini del settore del credito.
Questo innegabile contrasto avrebbe potuto far pensare ad una riflessione critica della stessa Corte, almeno sul piano argomentativo, ma tale prospettiva è stata ben presto smentita da una nuova sentenza34 che conferma pienamente i principi affermati con la svolta del ’99, vanificando sul nascere le speranze che gli istituti di credito avevano riposto in un generale ripensamento del recente indirizzo; unica integrazione, peraltro dal significato piuttosto marginale, dell’elaborata motivazione consiste in una sorta di riconoscimento dell’insussistenza dell’uso normativo per il fatto stesso dell’inserzione nei contratti di conto corrente della clausola conforme alla supposta regola consuetudinaria, argomentando che l’introduzione stessa di una clausola anatocistica in siffatti contratti costituirebbe di per sé la prova dell’insussistenza dell’uso normativo, il quale, essendo dotato di forza normativa indipendentemente da qualsiasi clausola riproduttiva nel regolamento negoziale, non necessiterebbe di un apposito accordo delle parti per esplicare la sua efficacia. La costante previsione nei contratti bancari di clausole di tal genere troverebbe pertanto spiegazione nel fatto che le banche, consapevoli che l’uso in questione difficilmente potrebbe qualificarsi come normativo, avrebbero inserito la clausola per impegnare il cliente con patto contrattuale. Tuttavia è quanto mai evidente la fragilità di tale argomentazione, che potrebbe anche definirsi paradossale, nulla potendo dedursi dalla semplice inserzione della clausola nel contratto.
Negli anni a seguire tale principio ha trovato puntuale conferma in numerose decisioni35 della Corte di Cassazione, che tenacemente ribadiscono la massima della nullità delle clausole anatocistiche di capitalizzazione trimestrale degli interessi nei conti correnti bancari, come saldo a debito del cliente, in base agli argomenti addotti dalle citate sentenze, talvolta arricchendo le motivazioni con ulteriori considerazioni. Si sarebbe allora potuto sperare che il nuovo corso giurisprudenziale, attraverso il suo consolidamento, avrebbe avuto l’effetto di conciliare i pregressi contrasti, ove, viceversa, è apparso immediatamente evidente che la giurisprudenza di merito persisteva nella sua frammentarietà, con decisioni contrapposte, talvolta affermative36 della validità delle clausole, secondo le ragioni già enunciate dall’anteriore corso della Corte di Cassazione, ed altre volte dichiarative37 della nullità di tali clausole, in base al nuovo orientamento della stessa Corte.
Allo stesso modo si atteggiava la dottrina sotto l’impulso delle diverse istanze emergenti dalla società civile e dalla realtà economica, in essa riflettendosi anche le contrapposte posizioni di politica del diritto,38 che inevitabilmente reagivano in modo diverso all’innovazione, giustamente definita epocale, scaturita dal nuovo corso interpretativo che, anche indipendentemente dalle scelte di merito, comunque non mancava di arrecare profonde e rilevanti incrinature quantomeno sotto l’aspetto della certezza del diritto.39
Pertanto, ricorrevano le condizioni per cui la questione fosse rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi del secondo comma dell’art. 374 C.p.c., se non per contrasto tra le sezioni semplici, sicuramente per la soluzione di una questione di massima di particolare importanza, nell’esercizio della sua fondamentale funzione nomofilattica, non potendosi ritenere risolta la controversia che sul punto coinvolgeva, oltre alla stessa Corte di Cassazione, le corti di merito e la generalità degli utenti del servizio di giustizia.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 21095 del 4 novembre 2004,40 si sono pronunziate sulla questione di massima: “incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi a debito del correntista bancario, sia o non esatto escludere che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cass., 1999 n. 2374 e successive conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza”. Ciò in contrapposizione alla diversa prospettazione per cui “la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione a mutare il proprio orientamento”.
La Suprema Corte, a Sezioni Unite, nel ripercorrere l’iter argomentativo delle sezioni semplici, a partire dalla nota sentenza n. 2374 del 1999, ha seguito un ragionamento sillogistico basato su due premesse: la prima, riguardante l’incipit dell’art. 1283 C.c., esprime il principio secondo cui con la locuzione “in mancanza di usi contrari” il legislatore abbia inteso fare esclusivo riferimento agli usi normativi in senso tecnico, così come disciplinati dagli artt. 1 e 8 Disp. prel. al Cod. civ., in quanto solo gli usi appartenenti a tale categoria sono effettivamente idonei a legittimare l’anatocismo oltre i limiti e le condizioni rigorosamente fissati dalla disposizione legislativa; la seconda, fondata sulla comune esperienza, in base alla quale non vi sarebbe corrispondenza, come invece è necessario, tra l’adesione del cliente, in posizione di contraente debole rispetto alla banca, alla clausola contrattuale che impone l’obbligo di pagamento degli interessi composti sui saldi a debito nel conto corrente, e la spontanea adesione ad un precetto giuridico che si ritiene già esistente o di cui si auspica l’introduzione nell’ordinamento giuridico, in cui sostanzialmente consiste l’opinio iuris ac necessitatis, elemento soggettivo della norma consuetudinaria.
La Corte sostiene che «di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tale profilo dunque in contrasto con l’art. 1283 codice civile), come correttamente ritenuto dalla sentenza del 1999 e successive».
In realtà, in tale articolata sentenza la Corte aggiunge soltanto argomentazioni specificamente volte a contraddire la peculiarità dei motivi di ricorso della banca ricorrente,41 peraltro corrispondenti ad un diffuso indirizzo giurisprudenziale, in particolare delle corti di merito, e dottrinario, limitando la funzione dell’evoluzione del quadro normativo nel corso degli anni novanta nell’ottica di prospettare invece una sorta di ribellione del cliente, cui sarebbe direttamente riconducibile il cambio di giurisprudenza, e ancora escludendo che la giurisprudenza stessa, nella funzione soltanto ricognitiva e non creativa della regola giuridica che essa svolge, possa aver in qualche modo contribuito a dare fondamento al predicato uso normativo, giustificando per questa via la decisione di imporre efficacia retroattiva42 all’interpretazione correttiva operata dalla sentenza del 1999.
Ne risulta confermata in toto l’impostazione prospettata dalla nota sentenza n. 2374 del 1999, specialmente sotto l’aspetto della categorica esclusione del riconoscimento della sussistenza di un uso normativo illo tempore effettivamente operante; tuttavia, sembra che il ragionamento della Corte non abbia investito effettivamente la questione del se tale norma consuetudinaria possa dirsi esistente all’epoca in base alla percezione e all’elemento soggettivo che la società civile esprimeva allora, sembrando invece che lo stesso giudice abbia voluto, così come nelle precedenti sentenze, sostituire la situazione esistente al momento della pronuncia a quella che si prospettava più di mezzo secolo prima, nell’ottica di un accertamento che non coinvolgeva affatto elementi del passato, ma solo del presente: in questo modo non si sarebbe mai potuto arrivare al riconoscimento della precedente sussistenza di un uso normativo, poi venuto meno per desuetudine in seguito al mutare del contesto sociale e normativo in base al quale non poteva più rinvenirsi l’elemento soggettivo della norma consuetudinaria, semplicemente perché non risulta alcuna indagine in tal senso svolta dalla Corte.
In ogni caso, la giurisprudenza formatasi successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite non ha tardato, come ovviamente era da aspettarsi, ad uniformarsi ad essa, adeguandosi completamente alla nuova impostazione e alle motivazioni stesse che l’hanno spinta in tal senso, ed infatti, tanto per la Cassazione quanto per i giudici di merito, non si rilevano sentenze neanche parzialmente contrastanti, contenendo spesso le motivazioni delle pronunce di merito un mero rinvio al nuovo orientamento sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
3.
Dalle motivazioni costantemente addotte dalla Corte di Cassazione a sostegno del mutato orientamento giurisprudenziale si evince chiaramente come il problema principale, nella prospettiva della giurisprudenza di legittimità, risieda nella configurazione dell’elemento soggettivo43 della consuetudine, in base al quale si deduce la natura normativa dell’uso, idonea ad integrare la fattispecie legale dell’incipit dell’art. 1283 C.c. Ed invero, riposa sostanzialmente sulla controversa individuazione di tale profilo psicologico la qualificazione del comportamento al quale si assegna il connotato giuridico di uso normativo, e, di conseguenza, la sua capacità di porsi in deroga ad una disposizione di legge.
Si legge in una sentenza44 anteriore al cambio di orientamento, che “gli usi meramente negoziali sono caratterizzati da un elemento soggettivo meno intenso, che deriva dalla semplice convinzione di rispondenza della clausola a particolari esigenze tecniche del mercato e degli affari. Essi, gli usi negoziali, esprimono il contenuto effettivo della volontà dei contraenti e possono, quindi, ritenersi inclusi nel contratto ai sensi dell’art. 1340 c.c. sol quando alla prassi corrente corrisponda il reale intento pratico delle parti; con la conseguenza che ne risulta preclusa l’efficacia qualora sia dimostrata la carenza di una conforme volontà negoziale”.
Tale concezione di fondo45 non è cambiata, tuttavia profondamente diversa è la conclusione che la Corte ne trae dal momento che oggi si afferma che questo è il modello tipico di riferimento degli usi bancari, non consistendo questi in null’altro che in un uso puramente negoziale, determinatosi grazie all’indiscutibile preminenza del potere delle banche.
Appare del tutto ovvia e scontata la considerazione della dottrina46 per cui, come anche l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato, gli usi si formano in corrispondenza degli interessi delle categorie più forti e meglio organizzate nell’ambito delle dinamiche sociali,47 dovendosi perciò contestare, per la sua intrinseca fragilità, la tesi sostenuta dalla giurisprudenza del nuovo corso che vede nella previsione stessa di una clausola anatocistica nelle norme bancarie uniformi un elemento di per sé ostativo al riconoscimento della normatività dell’uso, in quanto tale previsione finirebbe inevitabilmente per impedire quella spontaneità del comportamento che sarebbe rilevante ai fini della qualificazione dell’elemento soggettivo alla stregua dell’opinio iuris ac necessitatis.
È evidente come nella materia in questione il problema relativo alla definizione dell’elemento psicologico della consuetudine investe anche quello, intimamente connesso, riguardante il rapporto tra l’uso normativo e quel particolare metodo di stipulazione negoziale consistente nelle condizioni generali di contratto, in quanto schema tipico utilizzato uniformemente dalle banche.
In particolare, il problema sorge con riferimento alla disposizione trasposta nell’art. 7 delle norme bancarie uniformi, la quale prevede che per i conti correnti in bonis, ossia quelli che non risultano debitori, la chiusura avvenga annualmente, applicando così agli interessi passivi, che la banca deve corrispondere al correntista, una più favorevole capitalizzazione su base annuale, mentre per i conti “in rosso”, ossia quelli che risultino anche saltuariamente debitori, la chiusura debba avvenire ogni tre mesi, applicando quindi agli interessi attivi, quelli appunto che il cliente deve corrispondere all’istituto di credito, una capitalizzazione trimestrale, nettamente svantaggiosa in quanto fortemente onerosa per il debitore, che avrà dunque luogo non una ma ben quattro volte all’anno, precisamente a marzo, giugno, settembre e dicembre.
La questione generale riguardava dunque la corrispondenza della menzionata disposizione ad un uso normativo o ad un mero uso negoziale, ed è stata oggetto di attenta riflessione da parte della dottrina, specialmente per quanto riguarda il profilo di maggiore interesse del rapporto tra norme bancarie uniformi e usi bancari, dal momento che questo è stato l’aspetto su cui ha più volte insistito la giurisprudenza di legittimità nella qualificazione come negoziale dell’uso in questione. In particolare è stato autorevolmente48 osservato come, pur riconoscendo la natura di condizioni generali di contratto, unilateralmente predisposte dall’associazione di categoria, qual è appunto l’Associazione Bancaria Italiana, delle norme bancarie uniformi, tuttavia ciò non esclude la derivazione di alcune di esse da preesistenti usi commerciali già vigenti all’epoca dell’abrogato Codice di commercio del 1882, ritenendo che il loro recepimento nelle predette norme non valga di per sé a privare gli usi stessi della già acquisita forza consuetudinaria.
Pertanto, secondo questa impostazione di pensiero, che d’altra parte sembra essere ampiamente condivisa,49 appare opportuno ritenere che l’art. 7 delle norme bancarie uniformi abbia in realtà recepito un uso bancario preesistente, di modo che alla clausola ad esso corrispondente, inserita nei formulari unilateralmente predisposti dagli istituti di credito, non possa di certo riconoscersi la capacità di privare quell’uso della sua consolidata forza normativa.
Tornerebbe però a porsi la questione della compatibilità tra uso normativo e condizioni generali di contratto al fine di negare la preesistenza di un uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi, il cui contenuto sarebbe stato trasposto in un secondo momento nell’art. 7 delle norme bancarie uniformi, proprio dalla prospettiva della possibilità o meno di configurazione dell’elemento soggettivo, trattandosi in ultima analisi di verificare se l’accettazione, costante e generalizzata, di una clausola unilateralmente predisposta dalla controparte ed inserita nel contratto possa corrispondere all’adesione spontanea ad un precetto giuridico che costituisce requisito indispensabile per la configurazione di una norma consuetudinaria.
Seguendo questa linea di pensiero, autorevole dottrina50 ha sostenuto che nel presente sistema sociale ed economico, oltre che giuridico, caratterizzato innegabilmente dalla prassi, sempre più diffusa, della contrattazione attraverso condizioni generali di contratto, l’identificazione della semplice accettazione di una clausola inserita in un contratto unilateralmente predisposto con l’elemento soggettivo dell’uso normativo comporterebbe l’illogica ed inaccettabile conseguenza che sostanzialmente tutte le regole contenute in tali contratti, solo perché ripetutamente accettate, potrebbero integrare la fattispecie degli usi normativi; si giunge per questa via alla conclusione che nella società contemporanea non ci sarebbe spazio per la formazione di usi normativi in presenza di tale specie di contratti, dal momento che la predisposizione unilaterale preclude di per sé che l’aderente possa giustificare la giuridicità della regola su presupposti diversi dalla stretta vincolatività che deriva dal contratto stesso cui il cliente ha voluto aderire, con la conseguenza che siffatta pratica risulti inevitabilmente ostativa alla valida formazione della norma consuetudinaria.
Contrariamente, è stato osservato51 come la tesi dell’assoluta incompatibilità tra uso normativo e contratto unilateralmente predisposto ponga un limite eccessivo all’esplicarsi in materia contrattuale della fonte consuetudinaria, limite peraltro non previsto dalla legge, e inoltre, non sembra opportuno escludere a priori la possibilità che l’adesione alle clausole contenute nei formulari sia il frutto del convincimento che tali clausole rispondano a precetti giuridici vincolanti; da questo punto di vista, sembra doversi respingere anche l’idea, sottesa al ragionamento delle Sezioni Unite ed esplicitamente formulata da alcune sentenze del nuovo corso, secondo la quale non sarebbe necessario fare oggetto di specifica previsione contrattuale la capitalizzazione trimestrale degli interessi, se essa trovasse effettivamente radice in un uso normativo, potendo in tal caso bastare un semplice richiamo all’uso come fonte di diritto: ma in realtà tale previsione pare assolutamente opportuna proprio per l’assenza di una disciplina analitica formalizzata in un testo legislativo, per cui ben si comprende l’esigenza di fornire ad essa una base pattizia. D’altra parte è ben noto che i regolamenti contrattuali tendono a contenere tutti i profili del rapporto, anche tramite la riproduzione di regole già contenute in norme di legge, non potendosi certo sostenere che tali regole assumono valore unicamente pattizio solo per il fatto che nel contratto sia stata inserita una clausola che ne riproduce il contenuto.52
Altrettanto problematico si prospetta il rapporto tra giurisprudenza e consuetudine, in particolare in relazione al ruolo, che parte di dottrina considera fondamentale, che la prima gioca nella formazione dell’elemento soggettivo dell’uso normativo: la questione rileva non solo su un piano meramente teorico, ma proprio nella fattispecie concreta dell’uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista.
A tal proposito le Sezioni Unite hanno affermato il principio per cui anche in materia di usi normativi, così come per le leggi e le altre fonti, la funzione svolta dalla giurisprudenza non può che essere quella ricognitiva dell’esistenza e dell’effettiva portata della norma, competendo ovviamente al giudice solo l’interpretazione53 delle norme giuridiche e la loro applicazione al caso concreto, non certo la loro creazione. Applicando poi tale principio al caso in esame, la stessa Corte ne ha fatto derivare il corollario per cui «in presenza di una ricognizione, pure reiterata nel tempo, che si dimostri, poi, però, erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva deve avere una portata retroattiva, conseguendone, altrimenti, la consolidazione medio tempore, di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nella sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbe per ciò stesso creata».
Tuttavia il problema del rapporto tra giurisprudenza e consuetudine non andava impostato in questi termini, dal momento che esso non investe la più generale ed ampiamente dibattuta tematica54 del carattere creativo dell’attività interpretativa del giudice, trattandosi piuttosto di verificare l’eventuale incidenza indiretta di un consolidato orientamento giurisprudenziale sulla formazione dell’elemento soggettivo della norma consuetudinaria.55
Secondo illustre dottrina,56 la regola consuetudinaria acquista carattere normativo vincolante proprio al momento e per effetto del riconoscimento operato dal giudice nella soluzione del caso concreto; si tratta infatti, come è evidente, di un modo di intendere il diritto molto vicino a quello dei giuristi anglosassoni, per i quali la pronuncia del giudice vale ad accertare e a concretizzare un preesistente diritto formatosi in via consuetudinaria,57 conferendo ad esso efficacia vincolante secondo la regola classica del precedente giudiziale.
Per quanto riguarda la questione relativa all’accertamento della consuetudine, sicuramente questo compete al giudice, in base al noto principio iura novit curia, tuttavia, anche alle parti è riconosciuto il diritto di provare la sua esistenza con qualsiasi mezzo, stabilendo a tal proposito l’art. 9 delle preleggi una presunzione semplice di esistenza degli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali. Si pone a questo punto inevitabilmente il delicato problema di stabilire con precisione che cosa il giudice debba accertare per affermare l’esistenza della regola consuetudinaria dal momento che questa integra una norma non scritta, o meglio non formulata, che rileva pertanto solo al momento della sua applicazione, la quale è naturalmente devoluta al giudice nell’esercizio del suo potere di ricognizione: è pacifico che il giudice per poter affermare l’esistenza dell’uso debba necessariamente accertare il suo elemento oggettivo, ossia la ripetizione costante e generalizzata di un determinato comportamento da parte della collettività dei consociati, mentre più problematico risulta l’accertamento del suo elemento soggettivo, consistente nella convinzione da parte degli stessi soggetti di agire in adempimento di una norma giuridica obbligatoria, e, sotto questo profilo, è difficile negare che il consolidato orientamento giurisprudenziale che per oltre mezzo secolo ha affermato la validità della capitalizzazione trimestrale degli interessi abbia inevitabilmente inciso sul radicamento della credenza sociale circa l’obbligatorietà di tale norma, ossia sull’opinio iuris ac necessitatis.
Pertanto, non sembra potersi negare che la giurisprudenza abbia giocato un ruolo significativo nella formazione dell’uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi, se non come fonte diretta di produzione della norma consuetudinaria, come fonte indiretta, operante nel convincimento che essa concorre ad ingenerare nella generalità dei consociati.58
4. Segue. Cosa non convince nella ricostruzione dei giudici di legittimità
Non si può dunque ragionevolmente dubitare del fatto che effettivamente l’opinio iuris ac necessitatis costituisce il filtro attraverso cui la giurisprudenza fa penetrare nel giudizio di accertamento ed applicazione della regola consuetudinaria le nuove istanze che emergono dalla società; può anche accadere, quindi, come sembra lecito supporre nella vicenda in questione, che un uso, nato come normativo, consistente nella capitalizzazione trimestrale degli interessi a favore della banca nei rapporti di conto corrente bancario, degradi a semplice uso negoziale alla luce del mutamento del quadro sociale e normativo, con la conseguenza che clausole precedentemente considerate valide perché riproduttive di una regola giuridica diventino nulle in quanto, privato l’uso da cui derivano del carattere di normatività, si pongono sostanzialmente in contrasto con una norma imperativa di legge, qual’è l’art. 1283 C.c. Ciò evidenzia, d’altra parte, la flessibilità del diritto consuetudinario che, traendo origine dal comportamento dei destinatari stessi della regola, garantisce, molto più del diritto scritto, la sensibilità a registrare i mutamenti della realtà sociale, e quindi a mutare in dipendenza di essa, esprimendosi in tal modo lo stretto legame che sussiste tra siffatto diritto ed evoluzione della realtà su cui incide.
Non appare allora condivisibile la posizione della giurisprudenza del nuovo corso nella misura in cui essa ha negato anche per il passato l’esistenza dell’elemento soggettivo dell’uso normativo, riferendo, come è stato autorevolmente59 affermato, l’oggetto della sua ricerca al presente, sostituendo così la propria convinzione attuale a quella dei soggetti agenti all’epoca: pur riconoscendo, come affermano le Sezioni Unite nella nota sentenza del 2004, che l’elemento psicologico dell’opinio iuris ac necessitatis, consistente nell’adesione spontanea ad un precetto giuridico, non può configurarsi nel caso in esame per via dell’accentuata disparità di forza contrattuale tra banca e cliente, ci si discosta dal ragionamento della Corte laddove non ha saputo dar conto del fatto che la situazione cui ci si sta riferendo non è quella attuale, bensì quella passata. I clienti delle banche, oggi, quando si attengono al comportamento preteso dalle banche, non riconoscono più al proprio comportamento adesivo quel carattere di doverosità giuridica in cui consiste l’elemento psicologico della consuetudine, e questo anche come conseguenza di una legislazione che proprio in quel momento storico cominciava ad emanare i primi provvedimenti60 a tutela del consumatore. Ma i criteri così espressi dalla Corte di Cassazione non sono nient’altro che la rilevazione di una realtà storica, e non possono pretendere di avere lo stesso valore dell’enunciazione di un principio di logica giuridica: il giudice deve accertare l’esistenza di un uso come fonte del diritto quando riconosce la sussistenza degli elementi che lo compongono, quello materiale e quello spirituale, all’epoca dei fatti che sono oggetto del giudizio, e proprio in questo consiste il difetto dell’iter logico seguito dalla Corte, trattandosi appunto di una palese confusione dei tempi.
Solo sotto questo profilo appare contestabile la decisione, anzi più propriamente la motivazione della Corte, e la sua inevitabile conseguenza della pretesa retroattività dell’efficacia di tale orientamento: è fuori di dubbio, infatti, che a partire dagli anni novanta sia individuabile un’evoluzione del quadro normativo, anche sotto la spinta dell’Unione europea, nel cui contesto si vanno ad inserire anche le norme di diritto bancario, evoluzione che ha provocato quella “ribellione” del cliente bancario di cui parlano le Sezioni Unite, e il conseguente venir meno dell’elemento psicologico che caratterizza l’uso normativo. La Cassazione però si è spinta ben oltre tale rilevazione, in quanto, disattendendo un orientamento ormai consolidato da oltre mezzo secolo, ha negato categoricamente che siffatto uso sia mai venuto ad esistenza con il suo carattere di normatività, degradandolo ab initio ad uso puramente negoziale, come tale completamente privo della forza necessaria per derogare ad una norma imperativa di legge, qual è quella che impone il divieto di anatocismo.61
In verità l’analisi del quadro normativo di riferimento consente di pervenire a conclusioni diverse, confermando l’esistenza di una regola consuetudinaria di capitalizzazione trimestrale, o comunque a brevi periodi inferiori al semestre, in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice del 1942, almeno fino ai primi anni novanta, quando l’emanazione di una legislazione interna di derivazione comunitaria portatrice di nuove istanze sociali ed economiche, impone la necessità di riequilibrare, anche ponendo penetranti limiti all’autonomia privata, rapporti giuridici nei quali sussiste effettivamente una differenza sostanziale di forza contrattuale tra le parti. Certamente non è possibile negare come la diversa periodicità della capitalizzazione degli interessi attivi e passivi, la prima annuale e la seconda trimestrale, sia espressione della diversa posizione di forza dei centri di interesse dei rapporti bancari, finanche quando questa era osservata nella convinzione di rispettare un comando giuridico obbligatorio; ciò non costituisce però ragione sufficiente per sostenere l’inesistenza anche all’epoca dell’uso normativo per mancanza dell’opinio iuris ac necessitatis.
D’altro canto, la prima qualificazione di questi usi come commerciali, e quindi la loro origine da pratiche negoziali dei mercanti, in un secondo momento elevatesi al rango di norme giuridiche nella veste di regole consuetudinarie, rende perfettamente ragione dell’innegabile predisposizione alla tutela degli interessi dell’impresa bancaria.62 Da questa prospettiva, la giurisprudenza, a differenza della dottrina che si è dimostrata fin dagli anni settanta più sensibile e attenta allo squilibrio delle parti nei rapporti bancari, ha di fatto indirettamente salvaguardato la posizione di forza delle banche, e non si può neanche dire che l’abbia fatto inconsapevolmente, per svista o per errore, bensì per esigenze di stabilità del delicato sistema creditizio, pilastro fondamentale di quello economico, nonché per finalità altrettanto giustificabili di tutela dell’interesse pubblico al risparmio, in linea con la diffusa convinzione, generalmente condivisa al tempo, di corrispondenza dell’interesse dell’impresa, in particolare di quella bancaria, all’interesse generale, per via degli evidenti risvolti che essa può avere sulle fondamentali attività pubblicistiche dello Stato.
Con l’evoluzione della coscienza sociale e del rapporto tra sistema creditizio e apparato statale, si è giunti ad identificare l’interesse generale non con l’interesse dell’impresa bancaria, bensì con quello del corretto funzionamento del mercato, per la cui salvaguardia sarebbe stato necessario tutelare l’interesse di altri soggetti del mercato, ossia gli utenti o, se si vuole, i consumatori, anche e soprattutto in considerazione della loro condizione di debolezza economica e contrattuale.
Il nuovo assetto dei rapporti economici e sociali, dunque, richiede la tutela delle posizioni e degli interessi del contraente debole come migliore soluzione per garantire il funzionamento del mercato, e alla luce di ciò ben si comprende il nuovo atteggiamento della dottrina e della giurisprudenza che nella lettura della nuova disciplina normativa non sembra teso a sanzionare comportamenti abusivi e pertanto illeciti, sulla base di un giudizio soggettivo di riprovevolezza, ma ad una oggettiva configurazione di tali comportamenti come contrari63 al corretto funzionamento del mercato e dunque all’interesse generale.
Da ciò è scaturita l’evoluzione della disciplina del contratto nella direzione della tutela della parte più debole, che ha portato ad una significativa inversione di tendenza non solo sul piano della produzione legislativa, ma anche nei paralleli interventi giurisprudenziali, essendo pertanto naturale che in questo nuovo scenario la giurisprudenza facesse rilevare, in relazione alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi, un mutamento della coscienza sociale, attraverso l’accertamento del venir meno dell’elemento soggettivo della norma consuetudinaria. A tal proposito, per rendere ragione della portata generale di tale netta inversione di tendenza, si possono menzionare gli interventi della Legge 10 ottobre 1990, n. 287, anche nota come “Legge antitrust”, che pone una serie di vincoli all’attività delle imprese, ivi comprese quelle bancarie, nell’intento di tutelare la concorrenza del mercato e, per questa via, gli interessi del consumatore, nonché la legge recante norme sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, 17 febbraio 1992, n. 154, che interviene, tra gli altri, sul duplice versante dell’inammissibilità della pattuizione di interessi ultralegali tramite clausole che rinviano agli usi normalmente praticati dalle banche sulla piazza,64 e della necessaria previsione di un limite di importo massimo garantito per la validità della fideiussione omnibus,65 anch’esso volto inequivocabilmente a tutelare il garante, chiaramente nella veste di consumatore, nei confronti della banca, o ancora la nuova disciplina dell’usura, contenuta nella Legge 7 marzo 1996, n. 108,66 che impone la conversione automatica del prestito usurario in prestito a titolo gratuito, non prevedendo neanche la corresponsione degli interessi in misura legale.
In considerazione di tale innegabile evoluzione generale del quadro normativo, non solo per quanto riguarda la materia specifica dei rapporti bancari, ma anche in relazione ad altri settori, non si può negare che la giurisprudenza di legittimità sia intervenuta in modo puntuale ed opportuno a rilevare quella sorta di ribellione del cliente bancario, che ha poi comportato il venir meno dell’elemento soggettivo dell’uso normativo, ma non si può tacere neanche l’evidente inopportunità dell’affermazione dell’insussistenza di tale elemento anche in epoca precedente a quella attuale: sembra potersi concludere dunque nel senso che la Corte di Cassazione avrebbe dovuto limitarsi a rilevare la sopravvenuta illegittimità della clausola negoziale di capitalizzazione trimestrale degli interessi per il venir meno della norma consuetudinaria da cui questa traeva la forza di derogare alla norma di legge contenuta nell’art. 1283 C.c., potendo tale intervento armonicamente inserirsi nell’ambito del nuovo filone giurisprudenziale che, in particolare in tema di rapporti bancari, sotto la spinta di nuove istanze sociali ed in sintonia con l’attuale legislazione di matrice comunitaria, si preoccupa di conciliare l’interesse dell’impresa bancaria con quello del cliente, nella sua moderna veste di consumatore, e ciò al fine di tutelare l’interesse generale della collettività al corretto e regolare funzionamento del mercato creditizio.
5.
Dato il carattere retroattivo che la sentenza n. 2374 del 1999 e, ancor più, la sentenza n. 21095 del 2004 hanno voluto imprimere al proprio nuovo orientamento, accertando l’inesistenza ab initio dell’uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi e, per tale via, sostenendo la radicale nullità delle relative clausole dei contratti bancari di conto corrente, il legislatore stesso si è posto il problema67 di stabilire la sorte cui siffatte clausole andavano incontro, essendo state stipulate in un momento in cui tale uso era considerato pienamente valido dalla stessa Corte di Cassazione.
Osserva acutamente autorevole dottrina68 che tale mutamento giurisprudenziale ha prodotto effetti così imponenti che non si sarebbero potuti verificare neanche con una modifica in via legislativa della disciplina degli interessi anatocistici in materia bancaria, dal momento che una legge non avrebbe avuto verosimilmente efficacia retroattiva.
La situazione successiva alla svolta del 1999 infatti ha visto le banche esposte ad ingenti pretese di restituzione delle somme versate a titolo di anatocismo dai clienti, in ossequio al principio di retroattività dell’accertamento giudiziale di nullità della clausola: si tratta, come è evidente, di una situazione piuttosto complessa, caratterizzata dalla contemporanea presenza di importanti e inevitabilmente contrastanti interessi in gioco, da un lato quelli delle banche, titolari di una indiscutibile posizione di preminenza69 per la loro intima connessione con esigenze di carattere pubblico legate alla stabilità del mercato finanziario, dall’altro lato quelli dei consumatori, inequivocabilmente oggetto di numerosi interventi legislativi di tutela a livello non solo nazionale, ma anche e soprattutto comunitario.
In questo difficile contesto è intervenuto il legislatore con un primo e fondamentale provvedimento rappresentato dal Decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, che al secondo comma dell’art. 25 detta le nuove regole della capitalizzazione degli interessi nel nostro ordinamento, mentre al terzo comma dello stesso articolo tenta di dare una soluzione al tormentato problema dei rapporti sorti prima del menzionato revirement giurisprudenziale, non riuscendo tuttavia in tale intento per via della tempestiva pronuncia di illegittimità costituzionale da parte della Consulta per eccesso di delega.
In questo difficile contesto è intervenuto il legislatore con un primo e fondamentale provvedimento rappresentato dal Decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342.
L’art. 25, comma 2, del Decreto in parola ha aggiunto un secondo comma all’art. 120 T.u.b., con il quale si devolveva al CICR il potere di stabilire con propria delibera70 modalità e criteri per la determinazione degli interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente fosse assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori. A tale disposizione il CICR ha dato esecuzione con la nota deliberazione del 9 febbraio 2000.
Il medesimo legislatore delegato ha poi tentato di fornire, con il terzo comma dell’art. 25, una soluzione normativa al tormentato problema dei rapporti sorti prima del revirement giurisprudenziale del 1999, introducendo una disciplina transitoria ai sensi della quale le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR di cui al secondo comma dello stesso articolo, dovevano considerarsi valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, dovevano essere adeguate al suo disposto, pena l'inefficacia ad istanza del cliente. Tale norma transitoria, come noto, è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 425 del 200071 in quanto eccedente la delega legislativa.
Anche avverso il secondo comma dell’art. 25 – che, come chiarito, ha introdotto il comma 2 dell’art. 120 T.u.b. — sono state sollevate due questioni di legittimità costituzionale, che tuttavia il Giudice delle Leggi ha respinto per manifesta infondatezza,72 affermando la conformità della norma ai principi costituzionali ed europei, risultando in essa recepiti sia i principi di giustizia sostanziale e di tutela del contraente debole, sia gli indirizzi comunitari volti ad assicurare la necessaria armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in vista dell’esplicazione della libertà di stabilimento delle imprese bancarie all’interno del territorio dell’Unione.
Forte del positivo vaglio della Consulta, il dettato dell’art. 120, comma 2, T.u.b., è rimasto invariato per diversi anni, ma a partire dal 2010 è stato più volte modificato sotto la pressione del ceto bancario fino a giungere all’ultima novella operata dall’art. 17-bis del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 8 aprile 2016, n. 49, che fissa gli attuali limiti di operatività dell’anatocismo bancario.73
La disposizione in esame, nella formulazione attuale, nel confermare la delega attribuita al CICR di stabilire “modalità e criteri” per la “produzione di interessi” nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, siano tali interessi corrispettivi o moratori, segna tuttavia una evidente discontinuità rispetto al testo originario della norma, avendo la delega ad oggetto soltanto modalità e criteri di liquidazione di interessi semplici, non anche di “interessi su interessi”. L’art. 120, comma 2, T.u.b., dunque, non contiene più — secondo una direttrice inaugurata già dalla novella del 2013 — alcuna deroga alla disciplina generale in materia di anatocismo dettata dall’art. 1283 C.c.
L’attuale 2° comma dell’art. 120 T.u.b. prevede inoltre che: «a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti; b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1º marzo dell'anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l'addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l'autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l 'addebito abbia avuto luogo».74
Con delibera 3 agosto 2016, n. 343, il CICR ha quindi emanato le nuove disposizioni attuative dell’art. 120, comma 2, T.u.b., le quali risultano per lo più riproduttive del testo legislativo, che ha regolato in maniera puntuale molti aspetti della materia.
Le ricadute dei provvedimenti in esame nella pratica bancaria possono essere sintetizzate come segue. In ogni caso, gli interessi maturati in un determinato anno devono essere conteggiati separatamente e divengono esigibili dal creditore (e dovuti in pagamento dal debitore) il 1° marzo dell'anno successivo a quello nel quale sono maturati (comunque non prima del trentesimo giorno successivo a quello nel quale il cliente riceve la comunicazione dell'entità degli interessi maturati a suo debito nell'anno precedente). Una volta scattata l'esigibilità degli interessi corrispettivi, si possono verificare tre ipotesi: 1) il cliente paga e, conseguentemente, gli interessi corrispettivi continuano ad essere calcolati sul solo capitale; 2) il cliente ne autorizza o ne ha autorizzato l'addebito in conto (autorizzazione revocabile in qualsiasi momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo): gli interessi, per effetto dell'addebito, si trasformano in capitale e, pertanto, da quel momento, gli interessi corrispettivi devono essere calcolati su un importo costituito dalla somma del capitale finanziato con gli interessi divenuti capitale per effetto dell'avvenuto addebito in conto; 3) il cliente non paga e non ne autorizza l'addebito in conto: in tale circostanza si determina il presupposto per l'applicazione degli interessi moratori.
La previsione più interessante e rilevante introdotta dalla novella del 2016 risiede nella possibilità di deroga al divieto di anatocismo riconosciuta all’autonomia privata nei rapporti previsti dal punto 2) della lettera b) del secondo comma dell’art. 120: il cliente può infatti autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi in conto, con conseguente capitalizzazione degli stessi.75 Peraltro, come taluno ha evidenziato,76 la disparità di forza contrattuale nei rapporti tra banca e cliente favorirà senz’altro il rilascio di tale autorizzazione e determinerà, con ogni probabilità, l’automatica inclusione dell’anatocismo/capitalizzazione degli interessi debitori nei contratti bancari; e, in un contesto connotato da forte asimmetria informativa e di potere economico e contrattuale, un ruolo marginale potrà rivestire il potere del cliente di revocare in ogni momento l’autorizzazione.
6.
In seguito al noto cambio di orientamento della giurisprudenza di legittimità rispetto al fenomeno dell’anatocismo bancario, che prevedeva la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente all’istituto di credito sul saldo a debito del contratto di conto corrente, in base ad un uso normativo che, secondo la giurisprudenza del nuovo corso, non solo non esisteva al momento della pronuncia del ’99, ma non è mai esistito se non nella veste di mero uso negoziale, per difetto dell’elemento soggettivo dell’opinio iuris ac necessitatis, non solo il legislatore, ma anche la dottrina, ed in alcuni casi la stessa giurisprudenza,77 hanno tentato di fornire delle soluzioni interpretative in grado di arginare in qualche misura la portata dirompente degli effetti che tale vicenda ha provocato, non solo per gli istituti di credito, ma anche sotto il profilo dell’enorme carico di contenzioso che ha gravato, e continua a gravare, sui giudici di merito, per via delle controversie vertenti sulla pretesa di restituzione delle somme indebitamente corrisposte dai clienti a titolo di interessi anatocistici.
A questo proposito, particolarmente interessante si prospetta la questione relativa alla ampiamente dibattuta fattispecie della nullità sopravvenuta78 e alla conseguente possibilità di configurare in tal modo la radicale nullità sancita dalla Cassazione per le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi nelle operazioni bancarie in conto corrente: si tratterebbe, in altre parole, di valutare la sorte dei rapporti pregressi secondo la categoria concettuale dell’invalidità successiva o dell’inefficacia sopravvenuta, entrambe tornate alla ribalta nel dibattito che ha coinvolto tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, in occasione dell’entrata in vigore della nuova normativa in tema di fideiussione omnibus e di contratti usurari.79
Queste legislazioni speciali hanno introdotto una serie di regole limitative dell’autonomia privata, nell’ambito dei contratti di durata cui esse specificamente si riferiscono, ponendosi così il problema ricorrente della sorte dei rapporti instaurati prima dell’entrata in vigore della nuova legge, e dunque in dipendenza di contratti perfettamente validi, ma ancora in essere al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, diretta a limitare la libertà contrattuale delle parti, prevalentemente per ragioni di tutela del contraente debole.
In sostanza, tutte queste ipotesi hanno sollevato la questione, in verità più volte affrontata dalla dottrina, relativa alla dibattuta figura della nullità sopravvenuta, consistente nel verificare se possa essere dichiarata la nullità di un contratto validamente concluso, per effetto dell’entrata in vigore di un nuovo provvedimento normativo80 ovviamente non dotata di eccezionale efficacia retroattiva, cosa che sembrerebbe doversi escludere, in base al noto principio tempus regit actum.
A tal proposito, si registrano opinioni contrastanti in dottrina, essendo individuabili due diversi orientamenti, l’uno tendente a riconoscere e l’altro a negare la configurabilità nel nostro ordinamento della fattispecie della nullità sopravvenuta. Secondo una prima impostazione,81 muovendo dalla distinzione tra atto e rapporto, e conseguentemente, tra vizio genetico e vizio funzionale, si fissa perentoriamente il tempo del giudizio di nullità in quello del compimento dell’atto, giungendo alla conclusione di negare cittadinanza nel nostro ordinamento alla figura della nullità sopravvenuta, che sarebbe da questa prospettiva un concetto per sua natura contraddittorio, dal momento che la nullità è una fattispecie che descrive un vizio genetico del negozio, il quale si configura come un fatto istantaneo, non avendo a tal fine rilevanza un eventuale mutamento futuro delle condizioni di fatto o di diritto.
Altra parte di dottrina82 è invece giunta a conclusioni diametralmente opposte: facendo leva sul concetto di esaurimento negoziale, è stato osservato come in talune fattispecie di contratti, come quelli di durata o ad effetti differiti, l’atto non può configurarsi come un fatto istantaneo in quanto esso si atteggia nella pratica come un dato durevole sino al conseguimento del suo obbiettivo e dunque fino al suo esaurimento, per cui non sembra potersi condividere l’affermazione per cui la nullità deve essere riferita e accertata esclusivamente al momento della conclusione del negozio, ma sarebbe naturale e necessario che la sua rilevazione non si arresti al momento genetico, ma segua anche il suo svolgersi.83 Da ciò deriva pertanto la possibilità di configurare nell’ambito delle fattispecie della patologia negoziale anche la nullità sopravvenuta.
L’atteggiamento della giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è piuttosto oscillante e talvolta ambiguo: essa si è in effetti spesso mostrata restia ad abbandonare la tradizionale tesi dottrinale che pone il limite temporale del giudizio di nullità nel momento della conclusione del negozio giuridico, però, nel respingere sostanzialmente la categoria della nullità sopravvenuta per contrasto con il principio di contemporaneità del giudizio di nullità, si è rifugiata in formule alquanto ambigue che sembrano ricondurre la fattispecie in parola sul terreno meno controverso dell’inefficacia sopravvenuta.84
In verità, il limite temporale del giudizio di nullità sembra condizionare anche quella giurisprudenza85 che invece riconosce diritto di cittadinanza alla categoria della nullità sopravvenuta, come nel caso in cui la Corte di Cassazione, pur avendo configurato la nullità parziale sopravvenuta della clausola in contrasto con la nuova normativa in tema di interessi usurari, sembra tuttavia offrire implicitamente in via alternativa, per l’ipotesi in cui non si volesse aderire alla tesi che ammette la configurabilità di tale fattispecie, la strada dell’inefficacia sopravvenuta. Parte della dottrina, prendendo atto della generale diffidenza dei giudici ad abbandonare la concezione tradizionale che ancora il giudizio di nullità al momento della conclusione dell’atto, ha proposto, partendo da una asserita distinzione tra atto ed effetti, per l’adeguamento alla nuova situazione creata dalla sopravvenienza normativa, il ricorso ai rimedi previsti dal Codice contro i vizi che attengono al funzionamento dell’atto, ossia quelli previsti in caso di inadempimento o di circostanze sopravvenute, potendosi sostanzialmente assimilare la nullità sopravvenuta alla risoluzione.86
Invero, la questione diventa ancora più complessa per quanto riguarda la configurabilità della nullità sopravvenuta con specifico riferimento alla vicenda delle clausole anatocistiche, la cui peculiarità consiste nel fatto che in questa ipotesi non si tratta tanto di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, quanto piuttosto di una norma consuetudinaria che, venendo meno per desuetudine, o comunque perché la giurisprudenza ha considerato inesistente tale norma, lascia spazio all’operatività della norma generale, già precedentemente in vigore: pertanto, anche in questo caso si tratta di clausole sorte validamente, che diventano in un momento successivo invalide.
Si ritiene che la nullità sopravvenuta costituisca, dal punto di vista pratico, la soluzione più efficace per perseguire lo scopo di adeguare la situazione di fatto alla nuova realtà giuridica creata dalla nuova normativa, o dalla diversa disciplina, pur preesistente, resasi applicabile in un secondo momento per il successivo venir meno della norma consuetudinaria. D’altra parte, non pare condivisibile la tesi, pur sostenuta da prestigiosa dottrina,87 della separazione, conseguente alla distinzione tra atto ed effetti, tra la regola che descrive i requisiti della fattispecie, stabilendone quindi la validità, da quella che ha riguardo agli effetti, dal momento che il divieto che travolge gli effetti non può che colpire anche il fatto costitutivo: in altre parole, il giudizio imposto dalla nuova norma, o, il che è lo stesso, dalla disciplina solo successivamente resasi applicabile, investe pur sempre non solo il mero prodursi degli effetti, ma l’atto che di quegli effetti continua ad essere la fonte.
La considerazione di fondo che sembra accomunare quasi tutte le affermazioni della dottrina riguarda l’efficacia ex nunc della nullità sopravvenuta, dal momento che non sarebbe possibile negare che gli effetti che l’atto ha esplicato quando era perfettamente valido in base alla normativa vigente al momento della sua conclusione non possono essere travolti per via di una modifica legislativa avvenuta in tempo posteriore, o comunque per via dell’applicabilità di una disciplina diversa: pertanto, anche con riferimento alla capitalizzazione degli interessi passivi bancari, sembra lecito ritenere che il verificarsi di un fenomeno di desuetudine, accertato dalla giurisprudenza, pur avendo incisivamente modificato la regolamentazione giuridica della relativa clausola rispetto al momento della stipulazione contrattuale, non può arrivare a travolgere gli effetti che tali clausole hanno regolarmente esplicato quando vigeva la norma consuetudinaria, che solo in un secondo momento è venuta meno.
Si può dunque sostenere, in linea con la dottrina88 di gran lunga prevalente, che il sopravvenire di una circostanza di fatto qual è il venir meno dell’uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi, abbia determinato l’invalidità della relativa clausola nella forma della nullità sopravvenuta, con la conseguenza della sua indiscussa inidoneità a produrre effetti giuridici in seguito a tale circostanza, ferma restando, però, la conservazione degli effetti già prodotti per il passato, quando tale clausola era perfettamente valida, in quanto non si può riconoscere efficacia retroattiva alla rilevazione di tale speciale fattispecie di nullità. Ove però non si volesse abbandonare il principio di contemporaneità del giudizio di nullità si potrebbe fare riferimento al concetto, forse meno problematico quanto meno dal punto di vista teorico e più volte utilizzato dalla giurisprudenza, dell’inefficacia sopravvenuta, per rendere ragione del fatto che un atto in sé valido e inizialmente efficace è divenuto poi inidoneo a dispiegare i suoi effetti per il sopravvenire di una nuova e diversa normativa.
Tuttavia, al di là della disputa teorica sulla qualificazione formale in termini di inefficacia piuttosto che di nullità sopravvenuta del vizio che colpisce il contratto, non può negarsi che ciò che rileva nella pratica è il trattamento giuridico che ne scaturisce, ossia il concreto atteggiarsi della disciplina del rapporto su cui incide la norma sopravvenuta, la quale indiscutibilmente riproduce quella della nullità sia in punto di legittimazione, essendo questa eccepibile da chiunque vi abbia interesse, sia in punto di prescrizione, non essendo soggetta la relativa azione ad alcun termine, sia in punto di rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, mentre l’unica dissonanza con il regime generale della nullità sarebbe ridotto alla sola efficacia ex nunc, ossia alla irretroattività del giudizio di accertamento:89 il che significa, tornando alla questione dell’anatocismo bancario, che la nullità sopravvenuta o, se si preferisce, l’inefficacia sopravvenuta della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi può legittimare in concreto pretese di ripetizione delle somme corrisposte solo a far data dall’accertamento di tale peculiare e controversa forma di nullità.90
7.
Altra questione sollevata da parte della dottrina e da alcuni giudici di merito per limitare gli effetti dirompenti della pronuncia della Cassazione del 1999 sui rapporti in corso riguarda la stessa natura giuridica del contratto di conto corrente bancario: in verità la dottrina è sempre stata concorde nel sostenere che carattere tipico di questo rapporto fosse proprio la sua sostanziale unitarietà, tuttavia alcune recenti sentenze hanno tentato di prospettare un diverso inquadramento della fattispecie con riferimento ad una connessione tra diversi negozi tipici, nell’ottica di configurare una certa autonomia e indipendenza tra le varie operazioni in cui esso si articola, mettendo dunque in discussione proprio il carattere fondamentale della sua unitarietà.
Effettivamente ricondurre la fattispecie del conto corrente bancario in uno schema diverso da quello tradizionalmente delineato dalla dottrina come contratto tipico di durata e sostanzialmente unitario significava introdurre un nuovo e differenziato regime per la prescrizione, dal momento che la sua decorrenza avrebbe dovuto aver luogo non dal momento della chiusura del conto, bensì dal giorno di annotazione dei singoli versamenti effettuati dal cliente, il che, come è evidente, esplicherebbe effetti pratici di non poco conto, se si pensa che tutte le azioni di ripetizione delle somme indebitamente pagate a titolo di anatocismo potrebbero essere prescritte in un termine molto più breve, considerando che il dies a quo potrebbe essere in tal modo spostato in un momento di gran lunga anteriore a quello della chiusura del conto.
Sulla questione si è pronunciata91 dapprima la Corte di Cassazione, poi anche la Corte costituzionale;92 la Suprema Corte ha, da un lato, ribadito, in linea con la precedente giurisprudenza senza dubbio prevalente, la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario e, in generale, di tutte le connesse operazioni in conto corrente, facendone derivare, con convincenti argomentazioni prettamente giuridiche, la necessità che la decorrenza del termine di prescrizione cominci dal momento della chiusura del conto, dall’altro lato però la stessa Corte sembra ipotizzare una distinzione tra versamenti con finalità solutoria, che possono configurarsi come veri e propri pagamenti, per i quali si potrebbe astrattamente considerare la possibilità di far decorrere il termine di prescrizione dal momento dell’annotazione della relativa operazione, e versamenti unicamente destinati a ripristinare la disponibilità o la provvista, nel qual caso, mancando a monte un debito nei confronti della banca, si esclude la configurabilità stessa del pagamento, appunto per difetto della finalità solutoria, nel qual caso ancora più evidente risulta la necessità di individuare il momento della chiusura del conto come dies a quo del termine di prescrizione.
A tal proposito osserva la Corte93 che se durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione, ove risultino indebiti, in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, il che accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto scoperto, ossia in passivo, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento, nel caso ad esempio di un’apertura di credito in conto corrente, che è proprio il caso specifico cui si riferisce la sentenza in parola.
Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto corrente, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungono unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere, non potendosi in siffatte operazioni in alcun modo configurare un pagamento, che in quanto tale presuppone necessariamente un intento solutorio, e di conseguenza, si deve escludere categoricamente la possibilità di far decorrere il termine di prescrizione dal momento dell’annotazione dell’operazione: se non sussiste, in senso tecnico, il pagamento, che si suppone indebito, non si vede come possa scaturirne una pretesa restitutoria, la quale è soggetta a prescrizione solo a partire dal momento in cui si può affermare che essa sia venuta effettivamente ad esistenza.
Pertanto, la sentenza perviene, con convincente motivazione, alla conclusione che il dies a quo del termine di prescrizione è individuabile nel giorno di chiusura del conto,94 per la duplice ragione che, da una parte, la natura del conto corrente bancario si conferma, come sostenuto tradizionalmente dalla dottrina, rapporto unitario di durata, articolato in una pluralità di atti esecutivi che non hanno tra loro significativa autonomia, ma sono tutti destinati a dare esecuzione ad un unico contratto, da cui traggono fonte e di cui rispecchiano la disciplina, e, per altro verso, perché prima del momento della chiusura del conto, momento in cui vanno regolate le partite attive e passive della banca e del cliente, non si può parlare tecnicamente di pagamento, mancando nel semplice versamento la finalità solutoria, e pertanto, non essendo ancora sorto il diritto ad esercitare l’azione di ripetizione, non si vede come possa validamente decorrere il termine di prescrizione per il suo esercizio.
Neanche un mese dopo la pubblicazione di tale sentenza, il legislatore ha tentato un nuovo intervento95 che disponeva in via legislativa la decorrenza della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito dal momento dell’annotazione della singola operazione di versamento, attribuendo per di più ad esso efficacia retroattiva in vista del suo presunto carattere di norma interpretativa: si trattava, come è evidente, di un chiaro espediente volto a superare l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte della fattispecie in esame, tra l’altro accompagnato da un goffo tentativo del legislatore delegato di mascherare il suo intervento indubbiamente innovativo come legge meramente interpretativa, attribuendo così ad essa illegittimamente portata retroattiva.
La Corte costituzionale, tuttavia, tempestivamente investita della questione da parte dei giudici di merito, ha dichiarato la sua illegittimità costituzionale per il duplice profilo della violazione dell’art. 3 Cost. e dell’art. 117 Cost.; in primo luogo, il Giudice delle Leggi censura la norma in questione in quanto contrastante con il principio di uguaglianza, dal momento che la sua ingiustificata efficacia retroattiva rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate. Inoltre, afferma la Consulta, nel caso in esame non è dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d’interesse generale, idonei a giustificare l’effetto retroattivo. Ne segue che risulta violato anche il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Da ultimo, non si potrebbe riconoscere alla norma carattere interpretativo, essendo palese che essa, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili all’art. 293596 C.c., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. In particolare sostiene la Corte che l’ampia formulazione della norma impone di affermare che, nel novero dei diritti nascenti dall’annotazione in conto corrente, devono ritenersi inclusi anche i diritti di ripetere somme non dovute, quali sono quelli derivanti, ad esempio, da interessi anatocistici o comunque non spettanti, da commissioni di massimo scoperto e così via, ma la ripetizione dell’indebito oggettivo postula un pagamento che, avuto riguardo alle modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto. Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all’annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto può essere fatto valere, il che si pone nettamente in contrasto con la previsione dell’art. 2935 C.c.
Con tale pronuncia dunque la Corte costituzionale ha annullato l’ennesimo intervento del legislatore volto a salvare la posizione delle banche dalle pretese di restituzione dei clienti in ordine alle somme indebitamente corrisposte a titolo di anatocismo,97 vanificando ancora una volta le aspettative degli istituti di credito.
8.
Il TEG (Tasso effettivo globale) costituisce il costo complessivo che è tenuto a corrispondere il correntista all’istituto di credito al fine di beneficiare dell’affidamento, ma costituisce anche il metro di misura per verificare se si è verificato il reato di usura previsto dall’art. 644 C.p., ai sensi del quale “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito”.
Senonché, com’è noto, nel calcolo del TEG l’anatocismo non veniva ricompreso. In altre parole, la capitalizzazione trimestrale – nell’ambito della tenuta dei conti correnti e dunque delle aperture di credito – pur rappresentando un costo preminente che deve sopportare il correntista se intende beneficiare di una linea di credito, sulla base di un’interpretazione restrittiva e marcatamente filo bancaria, non veniva considerato nel calcolo del TEG, e di conseguenza nella determinazione del reato di usura di cui all’art. 644 C.p.
Un primo cambio di passo si è avuto per le spese di assicurazione in tema di mutuo, per le quali la Suprema Corte,98 nel riaffermare il principio della centralità sistematica del TEG, ha enunciato il principio di diritto secondo cui “ai fini della valutazione dell'eventuale natura usuraria di un contratto di mutuo, devono essere conteggiate anche le spese di assicurazione sostenute dal debitore per ottenere il credito, in conformità con quanto previsto dall'art 644, comma 4, c.p., essendo, all'uopo, sufficiente che le stesse risultino collegate alla concessione del credito, potendo dimostrarsi la sussistenza del collegamento con qualunque mezzo di prova, ed essendo presunto nel caso di contestualità tra la spesa di assicurazione e l'erogazione del mutuo”.
Sulla base di tali presupposti la Corte ha quindi evidenziato la centralità della fattispecie usuraria come definita dall'art. 644, comma 5, C.p. – secondo cui “per la determinazione del tasso di interessi si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito” – alla quale si devono necessariamente uniformare, e con la quale si devono raccordare, le diverse disposizioni che intervengono in materia.99
Ma la svolta definitiva ai fini rilevamento del reato di usura e delle componenti per il calcolo realistico del TEG si ha con l’ordinanza della Suprema Corte del 17/11/2022, n. 33964, la quale – al termine di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale che prende le mosse dalla già richiamata sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 21095 del 4 novembre 2004 – ha sancito che, a prescindere dal fatto se l’anatocismo sia o meno illegale, per il sol fatto che esso rappresenta un costo per il correntista/mutuatario, collegato all’erogazione del credito, se ne deve tener conto.
Partendo infatti dalla considerazione che la normativa di divieto dei rapporti usurari di cui al novellato art. 644 C.p. considera rilevanti tutte le voci del carico economico che si trovino applicate nel contesto dei rapporti di credito e che detto carattere “onnicomprensivo” vale non diversamente per la considerazione del fenomeno usurario sia sotto il profilo penalistiche che civilistico,100 la Corte giunge alla conclusione che “la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi esprime un costo del credito che, in quanto tale, va inserito nel conto delle voci rilevanti per la verifica della natura usuraria dell'operazione di erogazione del denaro. Non rileva, a tal fine, la legittimità della previsione della capitalizzazione stessa, rilevando invece il fatto in sé che tale costo sia previsto dalla regolamentazione contrattuale”.101
Tale principio è stato confermato e fatto proprio anche da un’altra recentissima ordinanza della Cassazione,102 capace di influire e prevedere una diversa categoria di calcolo nella stessa formula all’uopo predisposta da Banca d’Italia. La Corte ha infatti ribadito che “in tema di usura, nei rapporti di credito regolati in conto corrente bancario la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi – anche ove sia stata legittimamente concordata secondo quanto previsto dalla delibera CICR del 9 febbraio 2000 – deve essere inserita nel conto delle voci rilevanti ai fini della verifica del superamento del ‘tasso soglia’, poiché, anche se lecita, costituisce un costo del credito concesso (Cass., n. 33964/2022, che in motivazione chiarisce altresì che le Istruzioni della Banca d'Italia per la rilevazione dei tassi ai sensi della legge 108/1996, non prevedano affatto – contrariamente a quanto qui sostenuto dalla ricorrente – l'esclusione degli effetti dell'anatocismo nella rilevazione dei tassi in concreto applicati). A maggior ragione il principio vale allorché l'anatocismo sia stato applicato addirittura illegittimamente.”
9.
Altra questione che necessita di un’attenta riflessione, ancorché ancora poco dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, è quella relativa al ruolo che i conti anticipi possono avere ai fini della determinazione del Tasso effettivo globale, dando vita ad un fenomeno particolare che si potrebbe definire come “anatocismo occulto”.103
Com’è noto i conti anticipi non hanno autonomia in quanto sono collegati al conto ordinario, sul quale vengono fatti transitare le competenze e gli interessi.
Il collegamento tra i conti anticipi ed il conto ordinario avviene secondo uno schema largamente diffuso nella prassi bancaria, in cui, in capo al medesimo cliente, viene aperto sia un ordinario conto corrente di corrispondenza, sia un diverso conto transitorio ad esso collegato, denominato frequentemente come “conto anticipi su effetti salvo buon fine”, o altre espressioni analoghe, in esecuzione di un'operazione di anticipazione di effetti.
Ciò posto, secondo la Suprema Corte,104 poiché i diversi conti possono tanto presentarsi come avvinti da nessi funzionali reciproci quanto come del tutto indipendenti, occorre tenere distinte le due ipotesi, in quanto “nel primo caso, il saldo passivo del c.d. conto per anticipo fatture non esprime una posizione debitoria autonoma e separabile, rispetto al saldo del conto corrente di corrispondenza, onde non si giustifica la pretesa creditoria di nessuna delle parti del rapporto, ove fondata su di uno solo di detti conti: ciò, in particolare, quanto alla pretesa della banca di esigere il saldo passivo concernente il predetto conto anticipi, indipendentemente dal conto corrente ordinario cui accede”. Da ciò consegue che “la ricostruzione del saldo dare-avere tra le parti necessariamente attiene al complessivo rapporto”..105
In realtà già da tempo la Cassazione106 aveva osservato come i conti in questione “non sono normalmente operativi, ma rappresentano una mera ‘evidenza contabile’ dei finanziamenti per anticipazioni su crediti concessi dalla banca al cliente”. Si è, così, rilevato come su di essi, in sostanza, “l'istituto annota in ‘dare’ al correntista l'importo di dette anticipazioni, di volta in volta erogate in occasione della presentazione di effetti, o della c.d. carta commerciale, importo che riannota in ‘avere’, una volta che abbia provveduto a riscuotere il credito sottostante in virtù del mandato all'incasso usualmente conferitogli; onde, poi, dopo l'annotazione del rientro delle somme anticipate, il cliente può dunque tornare ad usufruire di nuove anticipazioni, sino al limite dell'affidamento concessogli. In tale situazione, il rapporto di debito-credito fra la banca e il correntista è rappresentato, in ogni momento, dal saldo del conto corrente ordinario, sul quale le anticipazioni affluiscono mediante giroconto”.
Si parla anche di linea di credito c.d. autoliquidante, che consta di un contratto-quadro che disciplina le singole operazioni di anticipazione in conto corrente contro cessione di credito pro solvendo, oppure con mandato all'incasso con annesso patto di compensazione.107
In tutte le ipotesi innanzi descritte, in definitiva, il c.d. conto anticipi costituisce soltanto uno strumento accessorio e funzionale ai conti correnti ordinari, senza autonomia e con mera evidenza contabile, ai fini dei finanziamenti eseguiti per anticipazioni su crediti concessi dalla banca al cliente, annotandosi in esso in “dare” le anticipazioni erogate al correntista ed in “avere” l'esito positivo della riscossione del credito sottostante agli effetti commerciali presentati dal cliente.
Partendo quindi dal presupposto che, in presenza di un simile atteggiarsi dei rapporti, “il saldo debitore del c.d. conto anticipi diviene giuridicamente inscindibile dal saldo del (o dei più) conti correnti cui esso è collegato”, onde l'accertamento del credito derivante dalle anticipazioni implica la necessaria ricostruzione dei rapporti dare-avere pertinenti al conto corrente di corrispondenza, cui il primo è connesso, rileva ancora la Suprema Corte che “ad essere collegati sono i conti correnti e le distinte contabilizzazioni bancarie, laddove giuridicamente si tratta pur sempre di un'unica operazione economica, finalizzata al raggiungimento della medesima funzione negoziale unitaria. I patti conclusi tra banca e cliente, infatti, sono essenzialmente interdipendenti, attenendo essi alla regolamentazione delle modalità di finanziamento e restituzione o satisfazione, comunque, del credito restitutorio della banca, onde, in mancanza di uno di quei patti, l'operazione non sarebbe stata posta in essere, sicché negozi e patti non possono che rimanere inscindibilmente connessi”.108
Pertanto, poiché i rispettivi debiti e crediti delle parti traggono in effetti origine da un unico, ancorché complesso, rapporto negoziale “è allora configurabile la c.d. compensazione impropria e non la c.d. compensazione propria o in senso stretto, di cui all'art. 1241 c.c. e ss., la quale invero presuppone l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti109 (v., per talune prospettazioni analoghe, Cass. 15 giugno 2020, n. 11524)”.
Attesa l’inscindibilità tra il conto principale (conto ordinario) e conto ancillare (conto anticipi) e preso atto del meccanismo di girocontare sia le competenze che gli interessi relativi del conto anticipi sul conto ordinario, non può farsi a meno di rilevare che in questo modo si viene ad aggiungere al TEG del conto ordinario degli addendi ulteriori che prima del giroconto non c’erano, con evidenti riflessi in merito al superamento o meno del tasso soglia.
In questo modo la funzione svolta dai «conti anticipi» può essere distorsiva in quanto tesa al proliferare, talvolta illegittimo, del debito imputato al cliente da parte dalla banca.
Come infatti è stato osservato da autorevole dottrina110 “non di rado le banche, quando intendano massimizzare il profitto gravando significativamente gli oneri a carico della clientela, procedono all'apertura di innumerevoli conti anticipi su fatture per le operazioni di finanziamento accordate al correntista, provvedendo poi ad addebitare, per il tramite di un «giroconto», anche gli interessi dei vari conti anticipi debitori, per come succedutisi nel tempo, sul conto di corrispondenza (principale) ed ivi applicando la chiusura trimestrale con la nota capitalizzazione, anche per quegli interessi derivanti da tutti i suddetti conti anticipi. Si verifica in tal guisa una sorta di anatocismo duplice”. Senza contare poi che l'accensione e gestione di ogni «conto anticipi» separatamente dal conto principale comporta significative «spese» “che vanno naturalmente ad aumentare il costo del credito, prive sovente di giustificazione e determinate spesso in forza del mero arbitrio della banca”. In buona sostanza il vantaggio per il cliente di godere nei conti anticipi di un tasso di interesse inferiore e senza capitalizzazione è solo apparente in quanto “viene in concreto eliminato dalla banca con il successivo addebito degli interessi sul conto corrente principale (servente rispetto all'originaria apertura di credito), ove invece la capitalizzazione ha operato a tutto spiano”.
Rispetto alla capitalizzazione che normalmente si verifica nel caso di conto unico, la capitalizzazione ora descritta è più complessa ed articolata, in quanto l'anatocismo sul conto corrente principale, che accede al contratto di apertura di credito, ha ad oggetto sia gli interessi relativi alla movimentazione di questo, sia, quelli calcolati sui vari «conti anticipi» che sono stati girocontati sul conto principale. Le conseguenze che si devono quindi trarre sono duplici: in merito alla nullità delle pattuizioni anatocistiche; ed in relazione all’eventuale usurarietà degli interessi.
Per quanto riguarda il primo aspetto, È di chiara evidenza che la nullità della capitalizzazione riverbera i suoi effetti non solo sugli esiti della capitalizzazione semplice a chiusura di trimestre, ma anche sull'addebito specifico di interessi operato per ogni singola chiusura di ognuno dei vari «conti anticipi». In buona sostanza, a monte dello stralcio della somma computata a debito a titolo di interessi sul conto risultato debitore, va estrapolato e detratto prima l'addebito di interessi riveniente da ogni singolo conto anticipo e messo, per così dire, da parte, non potendo essere lo stesso produttivo di interessi per il divieto di cui all'art. 1283 c.c. La circostanza dunque che sul conto principale vengano addebitati e portati a capitale gli interessi calcolati sui conti anticipi comporterà l'onere, non di poco conto, di andare a scorporare dal medesimo non solo gli interessi anatocistici rivenienti dalla capitalizzazione degli interessi semplici prodotti da quel conto, ma ancor prima quelli pure anatocistici rivenienti dal calcolo dell'interesse semplice sugli addebiti di interesse provenienti dai conti anticipi e computati sul predetto conto.
Per quanto riguarda poi il secondo aspetto, è di tutta evidenza che il descritto meccanismo di computo potrà incidere significativamente sulla valutazione della ricorrenza o meno di interessi usurari, tenuto conto che la comparazione dovrà intervenire avuto riguardo al complessivo costo del credito nel quale confluiranno non solo gli interessi sul conto corrente principale, ma anche l'incremento indotto dalla capitalizzazione degli interessi dei conti anticipi sul medesimo addebitati nonché delle commissioni.
Lo sforamento quindi della soglia antiusura dovrà essere accertato con riguardo alla complessiva operazione economica quale risultante tra (almeno) quattro negozi tra di loro funzionalmente collegati (apertura di credito e conto corrente principale; apertura di credito e conto anticipi).111
10.
Il dibattito sull’anatocismo investe anche la complessa questione relativa al piano di ammortamento c.d. alla francese, come modalità di rimborso della somma mutuata e dei relativi interessi, la cui caratteristica risiede nella circostanza che la rata da corrispondere (mensile, trimestrale o annuale che sia) rimane costante per tutta la durata del mutuo, per cui, ad ogni rata, si vanno via via a rimborsare sempre più capitale e sempre meno interessi, in quanto, con il rimborso di ogni singola rata, il capitale di cui il mutuatario dispone diminuisce e dunque i relativi interessi da corrispondere decrescono.112
Tra i tanti aspetti controversi, nel presente lavoro, ci si limita ad affrontare la questione se il descritto meccanismo di ammortamento possa in realtà dissimulare, nel suo sviluppo rateale, un effetto anatocistico.
Mentre infatti parte della dottrina113 e della giurisprudenza114 di merito criticano la legittimità dei mutui con ammortamento alla francese, altra parte della dottrina115 è del parere che sia da escludere un effetto anatocismo nella capitalizzazione composta degli interessi nel metodo alla francese, considerato che gli interessi maturati a ciascuna scadenza sono corrisposti come componenti della rata di riferimento, esaurendo la totalità degli interessi sino a quel momento maturati, sicché gli interessi dovuti in ogni rata successiva sono calcolati solo sul debito residuo per sorte capitale, e difetta perciò il presupposto essenziale dell’anatocismo, l’applicazione di interessi su interessi già maturati.
La questione sembra essere stata risolta dalla recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 29/05/2024, n.15130,116 la quale, su Ordinanza di rinvio del Tribunale di Salerno117 ex art. 363-bis C.p.c., ha stabilito che “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento ‘alla francese’ di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione ‘composto’ degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti.”.
In realtà la questione se il piano di ammortamento alla francese dissimuli effetti anatocistici, non è stato l’oggetto del rinvio, in quanto, come rilevano le stesse Sezioni Unite, nell'ordinanza si precisa che “non si controverte in questo giudizio di violazione del divieto di anatocismo” che “non viene qui in gioco”, e che in effetti nella specie non si riscontra un effetto anatocistico vietato se si ha riguardo alla fisiologia dei rapporti di mutuo a restituzione frazionata, riferendosi il divieto ex art. 1283 C.c. (comunque superabile alle condizioni ivi previste) al momento patologico del rapporto, cioè alla pattuizione (anticipata) avente ad oggetto la produzione di interessi su interessi “scaduti” cioè non pagati alla scadenza, mentre nella specie il contratto è stato interamente onorato.
Tuttavia, poiché il Tribunale dà per acquisito il fatto che nei piani di ammortamento “alla francese” gli interessi (seppur non anatocistici in senso tecnico) producano comunque, a loro volta, interessi con conseguente moltiplicazione degli stessi, aspetto quest'ultimo decisivo ma sul quale il Tribunale non ha svolto alcun accertamento fattuale (ed ancorché “non può ritenersi sufficientemente specifica la censura sollevata denunciando soltanto, e del tutto astrattamente, la pretesa realizzazione, mediante l'utilizzo del sistema di ammortamento c.d. “alla francese”, di un risultato anatocistico, senza che tale asserzione sia accompagnata da specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrare l'avvenuta concreta produzione, nella specie, di un tale risultato”118), la Suprema corte ritiene che, facendo riferimento ai piani di ammortamento “alla francese” standardizzati, la questione se in un piano di ammortamento gli interessi (non scaduti) generino ulteriori interessi è comunque ineludibile, anche tenuto conto del fatto che, ad avviso del Tribunale, la produzione di interessi su interessi — benché “non vietata sic et simpliciter” o, in altri termini, consentita a certe condizioni (cfr. delibera CICR del febbraio 2000) — sarebbe all'origine di un prezzo o di un costo occulto del prestito per il mutuatario, rilevante sia sul piano della determinatezza dell'oggetto del contratto sia sul piano della trasparenza bancaria.
Senonché, tenuto conto che l'ammortamento alla francese prevede che l'obbligazione per interessi sia calcolata sin da subito sull'intero capitale erogato benché quest'ultimo non sia ancora integralmente esigibile — come accade anche in altri sistemi di ammortamento, come quello c.d. “all'italiana” in cui la quota di interessi è calcolata sin da subito sull'intero importo mutuato e non su quello residuo — ma non prevede che sugli interessi scaduti (e, si potrebbe aggiungere, non scaduti) maturino altri interessi, ad avviso delle Sezioni Unite “il metodo alla francese è costruito in modo tale che ad ogni rata il debito per interessi si estingue a condizione ovviamente che il pagamento sia avvenuto nel termine prestabilito ed è perciò, anche solo astrattamente inipotizzabile che siffatto ammortamento sia fondato su un meccanismo che trasforma l'obbligazione per interessi. in base di calcolo di successivi ulteriori interessi”. Né, d’altra parte Una opposta conclusione potrebbe argomentarsi rilevando semplicemente che nel mutuo “alla francese” la capitalizzazione avviene in regime “composto” che è una espressione descrittiva del fenomeno per cui la quota capitale è incrementata con gli interessi generati, però, non (necessariamente) su altri interessi ma sul capitale (debito) residuo, né destinati (necessariamente) a generare a loro volta (diventando parte della somma fruttifera di) ulteriori interessi nel periodo successivo (quantomeno nel regime di ammortamento “alla francese” standard e nella dinamica fisiologica del rapporto).
La suddetta decisione, se da buona parte della dottrina è stata accolta con favore,119 sembra tutt’altro che convincere altra parte della dottrina,120 per cui, con ogni probabilità, ancora non si può mettere la parla fine alla questione, considerato che la sentenza delle Sezioni Unite si occupa unicamente dell’ipotesi in cui concorrano tre distinti fattori: che il tasso d’interessi del mutuo sia fisso (e non variabile); che sia presente un vero e proprio piano di ammortamento (e non un semplice piano di rimborso o proprio nulla); che la rata di cui al rimborso sia comunque costante. Se non convergono queste tre circostanze, ogni problema è da ritenere rimanga del tutto aperto.121
1 “Sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti, gli usi”.
2 “Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”.
3 G. CABRAS, Conto corrente bancario e anatocismo tra diritto e pregiudizio, in Vita not., 1999, p. 521.
4 G. CABRAS, Conto corrente bancario, op. cit., p. 523. In senso contrario, V. FARINA, Recenti orientamenti in tema di anatocismo, in Rass. dir. civ., 1991, p. 785, il quale ha rilevato che la formazione di un nuovo uso implicherebbe comportamenti illegittimi perché in contrasto con l’art. 1283 C.c. Inoltre, se l’art. 1283 C.c. avesse voluto consentire l’anatocismo in base ai soli usi esistenti già in epoca precedente all’entrata in vigore del Codice, avrebbe ben potuto stabilire in via legislativa i modi e i limiti di siffatta deroga, trasponendo il contenuto degli usi cui intendeva riferirsi nel testo della disposizione di legge, in modo tale da predisporre una disciplina analitica della materia; dal momento che, invece, il legislatore ha voluto rinunciare a tale facoltà, optando per la previsione di una deroga fondata unicamente su un generico rinvio agli usi, sembra lecito supporre che la sua intenzione non fosse quella di fornire per la fattispecie in parola una disciplina rigida ed immutabile, cristallizzata nella disposizione contenuta in un documento legislativo, ma piuttosto quella di riconoscere l’operatività di un sistema aperto di produzione normativa, intenzione tutt’altro che immotivata, specialmente in un campo come quello delle obbligazioni pecuniarie in cui il comportamento dei soggetti risente inevitabilmente del contesto economico e sociale in cui essi operano, che è ovviamente suscettibile di sostanziali modificazioni nel corso del tempo.
5 Ed in effetti non sembrano rinvenirsi validi motivi per negarlo, G. CABRAS, Conto corrente bancario, op. cit., p. 523. In senso contrario, B. INZITARI, Profili di diritto delle obbligazioni, Cedam, 2000, p. 282.
6 B. INZITARI, Convenzione di capitalizzazione trimestrale degli interessi e divieto di anatocismo ex art. 1283 Codice civile, in Foro it., 1995, p. 412.
7 Così anche E. GINEVRA, Sul divieto di anatocismo nei rapporti tra banche e clienti, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1999, p. 402.
8 Nello stesso senso V. FARINA, Recenti orientamenti in tema di anatocismo, op. cit., p. 785.
9 Cass. Regno, 25 marzo 1933, in Rep. Foro it., 1933, App. Torino, 5 luglio 1940, in Rep. Foro it., 1940, App. Brescia, 26 ottobre 1936, in Rep. Foro it., 1936, App. Genova, 12 marzo 1935, in Rep. Foro it., 1936.
10 T. CARAFFA, Anatocismo, in Dig. It., 1985, p. 205.
11 App. Brescia, 4 dicembre 1957, in Rep. Giust. Civ., 1957; Trib. Trento, 5 aprile 1963, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1964; App. Firenze, 13 dicembre 1965, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1966; App. Milano, 17 febbraio 1976, Banca Borsa e Tit. Cred., 1977; Trib. Catania, 31 ottobre 1980, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1982.
12 A. ROCCO, Corso di diritto commerciale, 1911, p. 206.
13 Nello stesso senso, di recente, M. DI PIETROPAOLO, Osservazioni in tema di anatocismo, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 96; e ancora G. CABRAS, Conto corrente bancario, op. cit., p. 287.
14 Durato circa un ventennio, dalla fine degli anni ’50 al 1980.
15 Cass., 12 aprile 1980, n. 2335, in Giur. it., 1980, con nota di P. D’AMICO, Osservazioni in tema di usi e loro estensione soggettiva: materia bancaria, società finanziaria ed anatocismo.
16 Cass., 15 dicembre 1981, n. 6631, Giust. civ., 1982, con nota di DI AMATO, Anatocismo e prassi bancaria.
17Cass., 20 aprile 1982, n. 2461, in Dir. Fall.,1982; Cass., 19 agosto 1983, n. 5409, in Giust. civ. Mass., 1983; Cass., 5 giugno 1987, n. 4920, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1988; Cass. 6 giugno 1988, n. 3804, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1990; Cass., 28 giugno 1992, n. 7521, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1993; Cass., 1° settembre 1995, n. 9227, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1995; Cass., 18 dicembre 1998, n. 12675, in Giust. civ., 1998.
18 Anche se le Sezioni Unite della stessa Corte hanno, nel 2004, profondamente svalutato tale orientamento consolidatosi con “dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio”.
19 Cass., 30 maggio 1989, n. 2644, in Giust. civ., 1989, con nota di M. COSTANZA, Norme bancarie uniformi e derogabilità degli artt. 1283 e 1284 codice civile.
20 Trib. Vercelli, 21 luglio 1994, in Giur. it., 1995, con nota di B. INZITARI, Convenzione di capitalizzazione trimestrale degli interessi e divieto di anatocismo ex art. 1283 codice civile.
21 Trib. Busto Arsizio, 15 giugno 1998, in Foro it., 1998.
22 Pret. Roma, 11 novembre 1996, in Nuova giurisprudenza civile commentata, con nota di G. GALLO, In tema di applicazioni del testo unico in materia di contratti bancari.
23 Trib. Milano, 23 febbraio 1999, in Contratti, 1999.
24 Legge 7 marzo 1996, n. 108.
25 B. INZITARI, Profili di diritto delle obbligazioni, op. cit., p. 408.
26 La quale, in tema di tutela degli interessi dei consumatori, si è sempre mostrata molto attenta, per via della stretta connessione di tale esigenza con quella, di primaria importanza nell’ambito degli obbiettivi dell’Unione europea, della libertà concorrenza.
27 Legge 17 febbraio 1992, n. 154, recante norme sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari.
28 E. GINEVRA, Sul divieto di anatocismo, op. cit., p. 401; V. FARINA, Recenti orientamenti in tema di anatocismo, op. cit., p. 785.
29 Cass., 16 marzo 1999, n. 2374, in Banca Borsa Tit. Cred., 1999, 389 e in Contratti, 1999, con nota di G. DE NOVA, Capitalizzazione trimestrale: verso un revirement della Cassazione?
30 Le quali, tuttavia, secondo la presunzione semplice disposta dall’art. 9 delle disposizioni preliminari al Codice civile, dimostrano, fino a prova contraria, l’esistenza degli usi in esse contenuti.
31 Cass., 30 marzo 1999, n. 3096, in Corr. giur., 1999.
32 Cass., 17 aprile 1999, n. 3845, in www.Foro.it., 1999.
33 In particolare ove si legge che “l’esistenza di un siffatto uso per il periodo successivo alla chiusura finale del conto è sicuramente da escludere dal momento che gli usi e le consuetudini del settore del credito accertati su base nazionale si riferiscono agli interessi maturati nel corso del rapporto, i quali hanno natura compensativa e sono quindi diversi da quelli di natura moratoria dovuti sul saldo finale del conto”.
34 Cass., 11 novembre 1999, n. 12507, in Corr. giur., 1999, p. 1485, con nota di V. CARBONE, Interessi anatocistici tra interventi giurisprudenziali, salvataggi normativi e questioni di costituzionalità. Con tale sentenza la Cassazione ribadì che la clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 C.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al C.c.), come esige l’art. 1283 C.c., laddove prevede che l’anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, “in mancanza di usi contrari”. L’inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme uniformi bancarie, predisposte dall’A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poiché a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi.
Le quali, tuttavia, secondo la presunzione semplice disposta dall’art. 9 delle disposizioni preliminari al Codice civile, dimostrano, fino a prova contraria, l’esistenza degli usi in esse contenuti.
35 Cass., 4 maggio 2001, n. 6263, in Diritto e pratica soc., 2001; Cass., 28 marzo 2002, n. 4490, in Giust. civ., 2002; Cass., 13 giugno 2002, n. 8442, in Giust. civ., 2002; Cass., 20 febbraio 2003, n. 2593, in Banca Borsa e Tit. Cred., 2004, con osservazioni di N. SALANITRO, Gli interessi bancari anatocistici.
36 Trib. Roma, 26 maggio 1999, in Giur. it., 1999; Trib. Monza, 2 ottobre 2000, in Nuova Giur. civ. comm., 2001; Trib. Bari, 28 febbraio 2001, in Nuova Giur. civ. comm., 2001; Trib. Firenze, 8 gennaio 2001, in Nuova Giur. civ. comm., 2001, con nota di A. SPANGARO, Anatocismo bancario: i giudici di merito contrastano la Cassazione.
37 App. Lecce, 22 ottobre 2001, Giur. it., 2000; App. Milano, 6 marzo 2002, in Giur. it., 2003, con nota di V. PANDOLFINI, L’usura sopravvive ancora?; Trib. Milano, 4 luglio 2002, in Banca Borsa e Tit. Cred., 2003, con nota di B. INZITARI, Diversa funzione della chiusura nel conto corrente ordinario e in quello bancario. Anatocismo e commissione di massimo scoperto; Trib. Napoli, 25 marzo 2004.
38 In effetti la vicenda in questione vede sullo sfondo la presenza di forti interessi in gioco, per cui era inevitabile il tentativo di interferenza di tali poteri latu sensu politici nel campo del diritto.
39 O. T. SCOZZAFAVA, Note in tema di interessi e anatocismo, in Riv. dir. comm., 240, 2002, il quale a tal proposito afferma che “un diritto certo in concreto non è mai esistito, dal momento che la certezza del diritto è solo un’aspirazione o un valore tendenziale, però, dalla constatazione che determinate garanzie non possono essere agevolmente assicurate ai privati, non può desumersi la conseguenza che esse debbano essere del tutto disattese”.
40 In Contratti, 2005, 225, con nota di O. T. SCOZZAFAVA, L’anatocismo e la Cassazione: così è se vi pare.
41 Ed in effetti, analizzando la sentenza nel suo complesso, ci si accorge immediatamente di come la Corte abbia, probabilmente in modo del tutto consapevole, limitato la sua indagine ai soli motivi puntualmente denunciati dal ricorrente principale, il che sarebbe assolutamente naturale, ed anzi necessario, se si trattasse di un semplice giudizio di merito, ma non risulta altrettanto normale se si considera tutta la questione precedentemente dibattuta, che ha coinvolto anche la stessa Corte Suprema: sembra potersi ricavare da tale precisa e puntuale motivazione l’intento precipuo del giudice di legittimità di confermare pienamente le conclusioni cui è pervenuta la precedente sentenza del 1999, preoccupandosi così più di risolvere il contrasto giurisprudenziale recentemente verificatosi che di svolgere la sua essenziale funzione di nomofilachia.
42 Si tratta di una questione di particolare importanza, specialmente dal punto di vista pratico, dal momento che tale interpretazione ha permesso, permette tutt’oggi, e permetterà ancora in futuro per un tempo ancora indeterminabile, ai clienti delle banche di chiedere la restituzione delle somme indebitamente corrisposte a titolo di interessi anatocistici, soprattutto se si considera che la prescrizione del diritto alla ripetizione delle somme versate decorre dal momento della chiusura del conto, e non da quello delle singole operazioni di versamento, instaurando il contratto di conto corrente tra le parti un rapporto di durata ed essendo considerato dalla prevalente dottrina come un rapporto unitario.
43Ad onor del vero, si tratta di un accertamento sicuramente non facile, vista la peculiarità della norma consuetudinaria, che consiste nel suo provenire da fonti non scritte, quali sono appunto i comportamenti della collettività.
44 Cass., 5 giugno 1987, n. 4920, in Banca Borsa e Tit. Cred., 1988, p. 578.
45 Insieme a quella secondo cui “gli elementi dell’uso normativo sono l’uno esteriore, consistente nella ripetizione costante di un dato comportamento, l’altro psicologico, costituito dalla generale opinione di osservare, così operando, una norma giuridica”, Cass., 8 agosto 1979, n. 4616, in Giust. civ. mass., 1979, p. 8.
46 G. GABRIELLI, Capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi e usi creditizi, in Riv. dir. civ., 1999, 450. Nello stesso senso anche G. DE NOVA, Capitalizzazione trimestrale, 1999, p. 444, il quale rileva al contrario che, pena l’inconfigurabilità stessa degli usi normativi nella materia contrattuale, proprio la reiterata previsione e applicazione di clausole del contratto costituisce la fonte dell’uso normativo.
47 P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, XII ed., Milano, 1998, 8, osserva che “gli usi non possono per intuitive ragioni, esprimere regole di protezione dei ceti più deboli nei rapporti con i ceti più forti”.
48 N. SALANITRO, Le banche e i contratti bancari, in Trattato Vassalli, Torino, 1983, p. 35.
49 G. MOLLE, Contratti bancari, in Trattato diritto civ. comm., Milano, 1973, 46, per il quale non si può a priori escludere che le norme bancarie uniformi, pur se siano da qualificare come semplici condizioni generali di contratto, possano essere meramente riproduttive di usi normativi, limitandosi esclusivamente a formalizzare in clausola contrattuale un uso preesistente. Nello stesso senso anche G. TUCCI, Norme bancarie uniformi e condizioni generali di contratto, in Contratti, 1996, p. 152.
50 B. INZITARI, Le Sezioni Unite e il divieto di anatocismo: la asimmetria contrattuale esclude la formazione dell’uso normativo, in Corr. giur., 2005, 224. Nello stesso senso F. REALMONTE, Condizioni generali di contratto e norme bancarie uniformi, in Le operazioni bancarie, Milano, 1978, p. 89.
51 A. NIGRO, L’anatocismo nei rapporti bancari tra passato e futuro, in Foro it., 2000, p. 462.
52 Nello stesso senso anche G. DE NOVA, Capitalizzazione trimestrale, op. cit., p. 444.
53 Anche se molto spesso la linea di confine tra un’operazione meramente interpretativa ed una di vera e propria creazione giuridica è estremamente labile: basti pensare alla sottile differenza che intercorre tra interpretazione estensiva e applicazione analogica di una norma, consistendo la prima in un’operazione meramente interpretativa, la seconda in un’operazione di costruzione giuridica.
54 La posizione assunta a tal proposito dalle Sezioni Unite corrisponde all’impostazione più rigorosa della dottrina: F. FERRARA, Potere del legislatore e funzione del giudice, in Riv. dir. civ., 1911, p. 490, E. QUADRI, Dell’applicazione della legge in generale, in Commentario Scialoja e Branca, 1974, p. 194. Anche se attualmente parte rilevante della dottrina si mostra propensa a collocare la giurisprudenza tra le fonti del diritto.
55 La complessità della questione deriva anche dalla sua stretta connessione con il problema dell’accertamento e della prova della consuetudine, oltre che con quella più generale del fondamento stesso del diritto consuetudinario.
56 N. BOBBIO, La consuetudine come fatto normativo, 1942, p. 435, il quale riconosce in sostanza al giudice un vero e proprio potere di costituzione della regola consuetudinaria.
57 In quest’ottica, si finirebbe col ridurre l’insieme delle norme giuridiche che compongono l’ordinamento ad un complesso di regole applicate dai giudici, ossia al diritto vivente. In tal senso F. FERRARA, Potere del legislatore, op. cit., p. 40, per il quale riconoscere all’attività di interpretazione della giurisprudenza funzione integrativa della legge significa “seppellire il diritto positivo per mettere al suo posto un elastico ed incerto diritto giudiziario”.
58 In realtà la tesi sostenuta da N. BOBBIO, La consuetudine, op. cit., p. 431, è ancora più radicale, giungendo a negare che la fattispecie della norma consuetudinaria comprenda l’elemento soggettivo, rilevando questo solo come elemento probatorio, ma non costitutivo, dell’uso.
59 G. MINERVINI, Stralcio della Memoria Conclusionale prodotta nell’interesse della banca ricorrente, in Banca Borsa e Tit. Cred., 2005, p. 121.
60 Ci si riferisce in particolar modo alla Legge sulla trasparenza bancaria, 17 febbraio 1992, n. 154, alla Legge sull’usura, 7 marzo 1996, n. 108, nonché alla Legge antitrust, 10 ottobre 1990, n. 287, tutte di derivazione comunitaria.
61 In particolare, la revisione del precedente indirizzo è stata operata tramite la tecnica dell’overruling, fondando il mutamento giurisprudenziale sull’errore in cui sarebbero incorsi i giudici sia di merito che di legittimità qualificando l’uso bancario di capitalizzazione trimestrale degli interessi come uso normativo.
62 GABRIELLI, Capitalizzazione trimestrale, op. cit., p. 451, ritiene ovvia e scontata la costatazione per cui le norme consuetudinarie si formano, per evidenti ragioni pratiche, in corrispondenza degli interessi dominanti nella società, come l’esperienza storica non ha mai mancato di dimostrare.
63 Oltre che, ovviamente, a tutti i principi che sono sottesi alla nuova legislazione, in particolare quelli affermati in tema di tutela del consumatore nell’ambito della disciplina comunitaria
64 Art. 4 della menzionata legge, poi trasfuso negli artt. 117 e 118 del Decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, anche noto come Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, o con la semplice sigla T.u.b.
65 Art. 10 della menzionata legge, il quale ha così modificato l’art. 1938 C.c.
66 La quale ha così modificato il secondo comma dell’art. 1815 C.c.
67 Problema che si è rivelato fin dall’inizio di difficile soluzione, nonché di fondamentale importanza per via delle rilevanti conseguenze pratiche che ne sarebbero direttamente scaturite.
68 N. SALANITRO, Interessi bancari anatocistici, op. cit., p. 4, il quale afferma anche che questa vicenda “dovrebbe indurre a riflettere sulla correttezza della formula con cui si attribuisce agli orientamenti giurisprudenziali costanti e generalizzati la qualifica di diritto vivente, in quanto questo è per sua natura un diritto instabile, vuoi perché non formalmente vincolante per i giudici, vuoi perché sostituibile da un altro, e magari esattamente contrario, nuovo diritto vivente, con efficacia addirittura retroattiva”.
69 Questa situazione ha permesso inoltre agli istituti di credito di operare notevoli interventi di pressione sul legislatore di dubbia opportunità e legittimità, che sicuramente esulano dagli schemi costituzionali di bilanciamento dei poteri, intromettendosi così nell’esercizio della funzione legislativa affidata in via esclusiva al parlamento.
70 Trattasi di un chiaro esempio del fenomeno della delegificazione, tramite il quale si conferisce in via legislativa il potere ad un organo facente parte della Pubblica Amministrazione di emanare atti regolamentari in deroga a disposizioni di legge.
71 Corte Cost., sentenza 17 ottobre 2000, n. 425, in Foro it., 2000, 345.
72 Corte Cost., sentenza 12 ottobre 2007, n. 341, in Giur. cost., 2007, 3418, e Corte Cost., ordinanza 4 luglio 2008, n. 254, in Archivio informatico Juris Data.
73 L’originario testo dell’art. 120, comma 2, T.u.b., è stato dapprima sostituito dall’art. 4, comma 2, D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’art. 3, comma 3, D.lgs. 14 dicembre 2010, n. 218. Successivamente è intervenuta la novella operata dall’art. 1, comma 629, L. 27 dicembre 2013, n. 147, a decorrere dal 1° gennaio 2014. Mentre una successiva modifica apportata dall’art. 31, comma 1, D.L. 24 giugno 2014, n. 91 non è stata confermata dalla Legge di conversione (L. 11 agosto 2014, n. 116). Si giunge così all’ultima novella del 2016, di cui più ampiamente nel testo.
74 Per una analisi approfondita della novella del 2016, cfr. V. Farina, La (ennesima) resurrezione dell’anatocismo bancario, in I Contratti, 2016, pp. 705 e ss.
75 V. Farina, op. ult. cit., p. 713, osserva come in effetti si assista ad «una riedizione per mano del legislatore del vecchio anatocismo consuetudinario sotto forma ora di anatocismo “autorizzato”», la cui sola peculiarità starebbe nella periodizzazione annuale anziché trimestrale.
76 P. Serrao d’Aquino, L’anatocismo bancario vietato, ma non troppo. La legge 49 del 2016 modifica ancora l’art. 120 T.u.b., in www.giustiziacivile.com, 31.8.2016.
77 Ci si riferisce all’accoglimento da parte di alcune recenti sentenze del principio per cui il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione di tali somme non cominci a decorrere dalla data di chiusura del conto, il che esporrebbe le banche ad ingenti pretese restitutorie, bensì dal momento in cui tali somme sono state effettivamente corrisposte, con riferimento dunque ad un termine differenziato per ogni singola operazione di versamento, il che significherebbe limitare in modo tutt’altro che trascurabile l’obbligo di restituzione gravante sugli istituti di credito.
78 R. SCOGNAMIGLIO, Sulla invalidità sopravvenuta dei negozi giuridici, Napoli, 2008, 349; R. TOMMASINI, Invalidità (diritto privato), in Enc. Dir., 575; C. M. BIANCA, Diritto civile, Milano, 2000, 609; A. DI MAJO, La nullità, in Trattato Bessone, Torino, 2002; V. SCALISI, Invalidità e inefficacia. Modalità assiologiche della negozialità, in Riv. dir. civ., 2003, 205; A. RICCIO, Nullità sopravvenuta del contratto, in Contr. e impr., 2000, p. 628.
79 Rispettivamente, si tratta della Legge 17 febbraio 1992, n. 154, recante norme sulla trasparenza bancaria, e della Legge 7 marzo 1996, n. 108, in materia di usura. Negli stessi termini si è posta la questione sia per quanto riguarda la fideiussione omnibus, per la quale il legislatore è intervenuto, in modifica dell’art. 1938 C.c., imponendo ai fini della validità della garanzia stessa la previsione di un importo massimo che il fideiussore si obbliga a garantire per l’adempimento da parte del debitore delle obbligazioni future che potranno sorgere nei confronti della banca in dipendenza del rapporto di conto corrente, sia in relazione ai contratti di mutuo ancora in esecuzione al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, la quale prevede la nullità della clausola con cui sono convenuti interessi che superano il tasso soglia, oggettivamente fissato secondo un sistema di rilevazione dei tassi medi (F. DI MARZIO, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della clausola interessi, in Giust. civ., 2000, p. 3103), prevedendo altresì, a differenza della disciplina previgente, che in caso di pattuizione usuraria, il mutuante perde completamente il diritto alla corresponsione degli interessi, anche nella ridotta misura legale.
80 In effetti, la questione ha indubbiamente dei punti di contatto con quella relativa all’efficacia della legge nel tempo.
81 Sono sostenitori di quest’orientamento R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 33, e R. TOMMASINI, op. cit., p. 901.
82 Tra gli altri, C. DONISI, In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, 1967, p. 757; C.M. BIANCA, Diritto civile, op. cit., p. 611, il quale precisa che l’inefficacia derivante da invalidità successiva è una vicenda risolutiva, poiché trae titolo da un fatto successivo al perfezionamento del contratto.
83 C. DONISI, op. cit., p. 767.
84 Come è avvenuto in tema di fideiussione omnibus, avendo la Corte di Cassazione affermato che “il giudizio circa la conformità di un atto alla legge non può che essere riferito al momento in cui esso è stato posto in essere”, proseguendo tuttavia in motivazione “è certo che il sopravvenire di nuove norme imperative, pur non potendo incidere sulla validità dei contratti già conclusi, vale tuttavia ad impedire che essi producano ulteriori effetti contrastanti con quanto da essa stabilito”. Cass., 28 gennaio 1998, n. 831, in www.Foro.it., 1998, p. 770.
85 Cass., 22 aprile 2000, in www.Foro.it., 2000, p. 519.
86 C.M. BIANCA, op. cit., p. 611, il quale, ammettendo la configurabilità dell’invalidità successiva, la riconduce ad una vicenda risolutiva.
87 A. DI MAJO, op. cit., p. 99.
88 Fra gli altri, R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., p. 88; C. DONISI, op. cit., p. 795; C.M. BIANCA, Diritto civile, op. cit., p. 611, il quale tuttavia sostiene che il problema della retroattività degli effetti dell’invalidità successiva vada risolto di volta in volta attraverso l’interpretazione della norma o della circostanza invalidatrice, dovendosi escludere una soluzione fondata su discutibili assunti teorici, come la distinzione tra incidenza sulla fattispecie e incidenza sull’efficacia.
89 M. MANTOVANI, Le nullità e il contratto nullo, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 35.
90 Viceversa si dovrebbe pervenire ad opposta conclusione se si accogliesse la prospettiva del Bianca in base a cui dovrebbe concludersi per la nullità delle clausole colpite dalla nuova normativa che vietasse l’abusivo esercizio di poteri privati, C. M. BIANCA, Diritto civile, la norma giuridica e i soggetti, 115 e Le autorità private, Napoli, 1977, p. 55.
91 Cass., 2 dicembre 2010, n. 2418, in Archivio informatico Iuris Data, secondo cui il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro. Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quello non è configurabile alcun diritto di ripetizione.
92 Corte cost., 5 aprile 2012, n. 78, in Archivio informatico Iuris Data.
93 L’accennata distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca è ben nota alla giurisprudenza che ne ha fatto applicazione in innumerevoli casi, a partire da Cass., 18 ottobre 1982, n. 5413, sino a tempi più recenti: si vedano, ad esempio, Cass., 6 novembre 2007, n. 23107; Cass., 23 novembre 2005, n. 24588.
94 “Un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo, credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile, bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia o ripristina la facoltà d’indebitamento del correntista; di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”.
95 Articolo 2, comma 61, del Decreto-Legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla Legge 26 febbraio 2011, n. 10.
96 Il quale testualmente dispone che “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
97 È evidente come nella vicenda in esame vi sia stato un problema di netta interferenza dei “poteri forti” con la funzione legislativa, complice anche l’alternarsi di una serie di governi filobancari, non essendo infatti un caso che tutte le norme cosiddette “salva banche” siano state emanate nella forma del decreto legislativo o del decreto legge.
98 Cass., SS.UU., 5 aprile 2017, n. 8806; in senso conforme Cass., 24 settembre 2018, n. 22458, la quale, ha osservato come, “nella prospettiva della repressione del fenomeno usurario, l’esclusione di talune delle voci per sé rilevanti potrebbe indurre naturalmente il risultato di spostare – al livello di operatività pratica – la sostanza del peso economico del negozio di credito dalle voci incluse verso le voci escluse, con evidente elusione delle prescrizioni dettate”, e più recentemente Cass., 1° febbraio 2022, n. 3025, e Cass., 21 giugno 2023, n. 17839.
99 Sulla scorta di tale presupposto, Cass., 21 giugno 2023, n.17839, ha di conseguenza sottolineato come “non ha nessun rilievo che la Banca d’Italia, ai fini del calcolo del T.E.G. del singolo rapporto di credito, non abbia inserito nelle Istruzioni per la rilevazione del T.E.G.M. i costi assicurativi. In proposito anche la sentenza a Sezioni Unite n. 16303/2018, ha affermato che la circostanza che i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM non includano nel calcolo di esso una particolare voce che, secondo la definizione data dall’art., comma 5, c.p., dovrebbe essere inserita rileva ai soli fini della verifica di conformità dei decreti stessi, quali provvedimenti amministrativi, alla legge di cui costituiscono applicazione, in quanto la rilevazione sarebbe effettuata senza tenere conto di tutti i fattori che la legge impone di considerare e, pertanto, la mancata inclusione nei decreti ministeriali non comporta l’esclusione di tale voce ai fini della determinazione della soglia usuraria, imponendo semmai al giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e disapplicarli”.
100 Come già chiarito da Cass., SS.UU., 5 aprile 2017, n. 8806.
101 Cass., 17 novembre 2022, n. 33964. In dottrina in questo senso v. B. RICCIO, Nota ad ordinanza dell’Ufficio dell’indagini preliminari di Salerno del 21/05/2013, in DeJure, 2013, 1001, il quale sottolineava come l’operazione che occorre compiere per la determinazione del TEG consiste nell’identificare le poste a debito, per distinguere il capitale prestato dalla banca dalle remunerazioni di esso: queste ultime si identificano negli interessi, nelle commissioni, nelle valute, nell’anatocismo che lo hanno fatto lievitare, in ragione dell’intero arco di tempo intercorrente dall’inizio della relazione sino alla sua conclusione o, comunque, all’ultima scrittura disponibile.
102 Cass., 28 marzo 2024, n. 8383.
103 Tale definizione è di V. FARINA, La ricostruzione giudiziaria del rapporto di conto corrente, in Obb. e Contr., 2012, p. 777, secondo il quale il collegamento tra il conto ordinario e conti ancillari, privi di autonomia giuridica, non solo comporta la canalizzazione dei saldi, ma anche degli interessi e delle commissioni sul conto ordinario, con produzione di anatocismo di provenienza esterna ed identificati come “occulti”.
104 Cass., 5 maggio 2022, n. 14321.
105 Altra è, invece, l’ipotesi in cui la linea di credito per anticipazioni su fatture si atteggi in modo del tutto autonomo, come quando l’anticipazione sia configurata come un ordinario finanziamento, concesso dalla banca, dove il saldo del c.d. conto anticipi rappresenti effettivamente il capitale anticipato e non rimborsato, quale posizione debitoria distinta, rispetto al saldo (a credito o a debito) di un separato, anche giuridicamente, conto corrente di corrispondenza.
106 Cass., 20 giugno 2011, n. 13449.
107 Così Cass., 15 giugno 2020, n. 11524.
108 Cass., 5 maggio 2022, n. 14321, che osserva come In tal modo, non occorre discorrere di “collegamento” negoziale e funzionale tra contratti distinti, se non quale mero passaggio intermedio e ricostruttivo della causa concreta dell’intera operazione realizzata.
109 Cass., 5 maggio 2022, n. 14321, che rileva ancora come nella c.d. compensazione impropria” la valutazione delle reciproche pretese delle parti comporta soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, ed a ciò il giudice può procedere senza incontrare ostacolo nelle limitazioni vigenti per la compensazione in senso tecnico-giuridico (Cass., n. 30220/2019; Cass., n. 4825/2019) e l’elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza è la conseguenza di un mero accertamento contabile di dare e avere di poste attive e passive.”
V. FARINA, La ricostruzione giudiziaria del rapporto di conto corrente, op. cit., pp. 779 e s., il quale sottolinea come, al fine di meglio far comprendere il ruolo e la funzione svolta dai “conti anticipi” giova porre l’attenzione soprattutto sul momento in cui, conclusasi con esito favorevole per il cliente la fase istruttoria, si provvede alla cessione del credito (assimilabile allo sconto) o ad un mandato irrevocabile all’incasso, dopo aver compilato un modulo che, oltre ad indicare il titolare del credito, l’impresa debitrice e gli estremi delle fatture, elenca le condizioni generali e le clausole specifiche, che regolano l’apertura di credito per cassa utilizzabile in c/c mediante anticipo su fatture. Dopo avere provveduto agli adempimenti connessi alla notifica della cessione, la banca detrae normalmente dal totale delle fatture cedute uno scarto prudenziale, compreso solitamente tra il 20% e il 30%, ed anticipa, pertanto, un importo compreso tra l’80% e il 70% del credito ceduto. L’importo netto del finanziamento viene accreditato, normalmente con valuta in giornata, dalla banca sul c/c di ordinario di corrispondenza dell’impresa cedente e, al contempo, viene addebitato in uno speciale «conto anticipi su fatture», collegato con l’apertura di credito, sul quale maturano a favore della banca gli interessi relativi all’anticipazione avuta. Questi ultimi, però, vengono poi addebitati direttamente sul c/c ordinario di corrispondenza dell’impresa cedente. Alla scadenza, la banca, se incassa l’importo delle fatture, accredita sul c/c di corrispondenza la differenza tra quanto riscosso e quanto anticipato al correntista, mentre sul conto anticipi addebiterà tale differenza ed accrediterà l’importo totale della fattura azzerando, in tal guisa, lo stesso conto anticipi. Se il debitore ceduto, alla scadenza, non provvede al pagamento delle fatture, la banca invita il cliente a pareggiare l’anticipo mediante un versamento diretto sul conto anticipi o un giroconto dal c/c di corrispondenza. Il tasso d’interesse del conto anticipi fatture è normalmente inferiore a quello applicato nei c/c di corrispondenza non garantiti. Ciò in considerazione del fatto che l’anticipo fatture è un’operazione autoliquidabile con garanzia atipica rappresentata dalla cessione di credito.
111 V. FARINA, La ricostruzione giudiziaria del rapporto di conto corrente, cit., p. 781.
112 In altre parole, nelle prime fasi del piano di ammortamento, la quota della rata destinata agli interessi è maggiore, mentre la quota destinata al capitale è minore. Con il passare del tempo, e con l’abbattimento del capitale residuo, la situazione si inverte: la quota degli interessi diminuisce progressivamente, mentre quella del capitale aumenta.
113 In dottrina, pur con diverse argomentazioni, tra i tanti: G. COLANGELO, Mutuo, ammortamento “alla francese” e nullità, in Foro It., 2014, I, p. 1246; P. FERSINI e G. OLVIERI, Sull’anatocismo nell’ammortamento alla francese, in Banche e banchieri, 2015, pp. 134 e ss., secondo i quali, poiché la rata dell’ammortamento “francese” è calcolata nel regime finanziario della capitalizzazione composta, ciò comporta, necessariamente, il calcolo di interessi su interessi»; N. DE LUCA, Interessi composti, preammortamento e costi occulti. Note sul mutuo alla francese e all’italiana, in Banca, Borsa Tit. Cred., 2019, p. 371; V. FARINA, Interessi, finanziamento e piano di ammortamento alla francese: un rapporto problematico, in Contratti, 2019, p. 450; N. DE LUCA, Mutuo alla francese: anatocismo, indeterminatezza od altro: di sicuro, c’è qualcosa che non va, in Banca Borsa Tit. Cred., 2021, p. 233, secondo cui il mutuo alla francese, rendendo parte degli interessi corrispettivi esigibili prima della loro maturazione, inficia (parzialmente) la validità del contratto per mancanza di causa attributiva. Di conseguenza, parte delle somme pagate quali interessi devono essere imputate a rimborso del capitale. Le somme pagate in eccesso, costituiscono indebito e devono essere restituite; A. DOLMETTA, A margine dell’ammortamento “alla francese”: gravosità del meccanismo e sua difficile intelligenza, in Banca Borsa Tit. Cred., 2022, I, p. 641, il quale si interroga sulla questione della meritevolezza ex art. 1322 C.c. della detta tecnica di calcolo degli interessi e sul conseguente parallelismo sistematico (e sulla ricorrenza dei medesimi effetti «pregiudizievoli» per il debitore) col fenomeno dell’anatocismo; nonché, sulla considerazione della scarsa intellegibilità dei termini di funzionamento tecnico del suddetto metodo di calcolo, con conseguente contrasto sia con le regole cardinali della disciplina sull’imputazione dei pagamenti, poste a tutela della «conoscenza» del debitore (artt. 1195, 1185, comma 2°, C.c.), sia con le clausole generali del diritto privato d’impresa (trasparenza, buona fede); V. FARINA, Piano di ammortamento alla francese: liceità, meritevolezza e trasparenza della relativa clausola, in Riv. dir. banc., 2023, pp. 131 e ss.
114 Trib. Napoli, 16 giugno 2020, n. 4102; Trib. Napoli, 13 febbraio 2018, n. 1558; Trib. Massa, 5 agosto 2020, n. 384; App. Campobasso, 5 dicembre 2019, n. 412; Trib. Cremona, 28 marzo 2019, n. 227; Trib. Massa, 7 novembre 2018, n. 797.
115 R. NATOLI, L’ammortamento “alla francese”: una questione di trasparenza, in Banca, Borsa Tit. Cred, 2023, 207; M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, in Dialoghi di dir. dell’econ, ottobre 2023 D. CARLOMAGNO, L’ammortamento alla francese verso l’esame delle Sezioni Unite, fra la matematica ed il diritto, ivi, gennaio 2024; T. DI MARCELLO, Il mutuo con ammortamento “alla francese” tra norme attuali e prospettive future, in ivi, febbraio 2024.
Nel senso della legittimità dei mutui con ammortamento alla francese anche la prevalente giurisprudenza. Tra le tante, v. App. Roma, 30 gennaio 2020, n. 731; App. Torino, 17 settembre 2020, n. 905; n. 487; App. Roma, 10 ottobre 2023, n. 6488; App. Firenze, 11 ottobre 2023, n. 2040; App. Campobasso, 17 aprile 2023, n. 124; App. Taranto, 17 aprile 2023, n. 157; App. Brescia, 17 marzo 2023, n. 460; App. Bari, 7 maggio 2021, n. 866; App. Perugia, 15 gennaio 2023, n. 33; App. Napoli, 19 febbraio 2020, n. 772; Trib. Asti, 11 ottobre 2023, n. 738; Trib. Roma, 22 febbraio 2023, n. 3228; Trib. Napoli, 7 febbraio 2023, n. 1376; Trib. Pistoia, 1° febbraio 2023, n. 78; Trib. Roma, 7 dicembre 2022, n. 18133; Trib. Bari, 31 aprile 2022, n. 1507; Trib. Trapani, 24 gennaio 2022, n. 82; Trib. Palermo, 10 agosto 2021, n. 3310; Trib. L’Aquila, 12 maggio 2021, n. 334; Trib. Lecce, 22 marzo 2021, n. 799; Trib. Roma, 8 febbraio 2021, n. 2188; Trib. Roma, 18 gennaio 2021, n. 868;
116 Cass., SS.UU., 29 maggio 2024, n. 15130, in Foro it., 2024, 7-8, 2017, con note di ROMANO, PARDOLESI, DE LUCA, PAGLIANTINI.
117 Trib. Salerno (ord.), 19 luglio 2023, in Foro It., 2023, I, 2785, con nota di richiami, la quale ha disposto il rinvio per la risoluzione della questione di diritto concernente l’interpretazione delle conseguenze giuridiche derivanti dalla omessa indicazione, all’interno di un contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori, pure a fronte della previsione per iscritto del Tasso Annuo Nominale (TAN), nonché della modalità di ammortamento c.d. alla francese.
118 Così Cass., 17 aprile 2023, n. 13144.
119 R. NATOLI, Le Sezioni Unite ‘‘salvano’’ i mutui a tasso fisso con ammortamento “alla francese”, in Giur. it, 2024, 2571, il quale nel condividere la decisione delle Sezioni Unite che hanno fatto giustamente strage della tesi avversa secondo cui “se pure matura giorno per giorno, il debito da interessi diventa esigibile... quando esigibile è diventato il capitale”, rileva come “la scadenza degli interessi non coincide necessariamente con la scadenza del capitale. L’obbligazione degli interessi è definita come “accessoria” per indicare che il vincolo è genetico nel senso che dipende nella sua vicenda costitutiva dalla obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, si stacca dalla sua causa genetica e assume una propria autonomia”. Per quanto riguarda poi l’anatocismo (che considera “il vero elefante nella stanza del dibattito”), pur rilevando come l’ordinanza di rimessione non ha direttamente sollevato il problema, ma l’ha evocato facendo perno sul regime di capitalizzazione composta utilizzato nell’ammortamento alla francese, sottolinea come la soluzione offerta dalla Corte - pur con qualche sbavatura terminologica lungo tutto il suo ordito argomentativo – sia coerente con la chiara comprensione del fenomeno economico; A. STEFANI, Dalle Sezioni Unite via libera all’ammortamento alla francese, in I contratti, 2024, p. 343; M. SANTUCCI, Ammortamento alla francese. Per le Sezioni Unite il contratto è valido, in La Nuova giur. civ. comm., 2024, p. 1033.
120 Estremamente critico verso la decisione delle Sezioni Unite, R. PARDOLESI, Chi tocca i fili... Ovvero le virtù composte dell’ammortamento alla francese, in www.Foro.It., 2024, 2036, il quale osserva, innanzitutto che la pretesa neutralità/autonomia degli interessi riproduce il postulato che si voleva esorcizzare, quello secondo cui nella fattispecie dell’ammortamento francese gli interessi coinvolti sono sempre e solo primari, perché comunque riferiti al capitale residuo; in altre parole, la questione che si era detta ineludibile viene elusa perché si dà per dimostrato ciò che si doveva suffragare. A dispetto del fatto che, nella fase iniziale della vicenda, il capitale non scende in proporzione a quanto si paga, mentre gli interessi lievitano. Inoltre, sostenere “inipotizzabile” che siffatto ammortamento sia fondato su un meccanismo che trasforma l’obbligazione per interessi in base di calcolo di successivi ulteriori interessi persino in astratto, secondo l’Autore è attribuzione discutibile in quanto si può ipotizzare — o ritenere persino plausibile — che nell’ammortamento alla francese, salva la prima rata, gli interessi siano computati sul capitale residuo per così dire resiliente, perché inizialmente poco sensibile ai versamenti del mutuatario (ossia più elevato di quello che risulterebbe da un ammortamento a quota capitale costante). Analoghe considerazioni da N. DE LUCA, Le Sezioni Unite sul mutuo alla francese: più dubbi che certezze, ivi, p. 2042, il quale sottolinea come, pur essendo condivisibile la risposta al quesito posto in via pregiudiziale, oggetto della massima: se al contratto è allegato il piano, con analitica indicazione di quota capitale e interessi per ciascuna rata, non si può dire che l’oggetto sia indeterminato, nel lungo percorso che conduce alla massima, la sentenza affronta, incidentalmente, molte questioni aperte e, invece di chiuderle, dice la propria, lasciando residuare molti dubbi: gli argomenti impiegati per tentare di superarli risultano spesso assertivi, apodittici o, comunque, privi di quella forza persuasiva che un pronunciamento delle Sezioni Unite dovrebbe avere.
121 Così A.A. DOLMETTA, Debolezza delle Sezioni Unite sull’ammortamento alla francese, 2024, in https://www.dirittobancario.it/art/debolezza-delle-sezioni-unite-sullammortamento-alla-francese/, secondo il quale la sentenza non va oltre la constatazione che l’ammortamento alla francese non integra, strutturalmente, un fenomeno di anatocismo. Così facendo, però, essa rimane proprio ai bordi del problema: il fatto che l’ammortamento alla francese non dia vita a un fenomeno di anatocismo – il relativo meccanismo facendo capo a una peculiare clausola di imputazione dei pagamenti – invero, non esclude affatto la possibilità (forte, in realtà) che l’ammortamento produca effetti di gravosità, per il cliente mutuatario, del tutto analoghi a quelli propriamente prodotti dal fenomeno dell’anatocismo. Sarebbe stato necessario e doveroso, dunque, chiedersi se (e quando) il principio del divieto di anatocismo non sia da ritenere esteso pure al vicino fenomeno dell’ammortamento alla francese.
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