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La tassazione dell'economia digitale: dal commercio elettronico alla Web taxation, crisi della income tax

Scritto da Emanuela Di Rauso • gen 2023

Sintesi

La Sharing Economy è fondata su piattaforme collaborative online, esse sono utilizzate da consumatori per offrire temporaneamente beni e servizi oppure per venderli. L'OCSE nel cercare di trovare la giusta tassazione ha evidenziato numerosi pareri. La vendita, il prestito di beni porta sempre più all'idea che queste azioni prima avvenivano sulla base di un rapporto di fiducia. Oggi queste persone che fanno queste operazioni si conoscono sempre meno oppure non si conoscono affatto; quindi, prima non si sentiva il bisogno di una normativa “ad hoc” di diritto tributario. Il problema fondamentale è l'avvenimento dei numerosi scambi senza l'esistenza di una normativa tributaria e senza il controllo “ad hoc” per avere questi scambi. Inoltre, questi numerosi scambi degli operatori digitali concordano continuamente agli scambi tra operatori professionali. Come bisognerebbe gestire allora l'economia virtuale? Bisognerebbe aumentare i controlli su questi scambi; Bisognerebbe individuare “La Tax Ruies”, cioè individuare cosa tassare e in quale misura; Servirebbero norme sostanziali innovative a tal proposito per aggiornare la disciplina esistente e garantire i controlli in modo più efficace. Con una buona normativa, addirittura la tassazione degli scambi online, potrebbe diventare più semplice perché i sistemi sarebbero in grado di gestire le transazioni e (si riconoscerebbero in maniera di transazioni avvenute online quelle da tassare). Inoltre, le tassazioni online dovrebbero essere viste così: per fare una normativa “ad hoc” si dovrebbe parlare di “Access Economy”. L'Access Economy non rappresenta la pura vendita dei prodotti bensì va a rappresentare un intermediario che mette in luce il maggior numero di prodotti possibili attraverso il permesso alla vetrina virtuale dei suoi clienti. Sulla tassazione si sono pronunciati diversi organi: - L'OCSE. Ha richiamato la disciplina dicendo che purtroppo attraverso queste piattaforme digitali, gli utenti su sottraggono alla tassazione; - La Commissione dell'Unione europea. La Commissione europea, con l’approvazione del Parlamento europeo, aveva messo un'imposta sulle transazioni digitali pari al 3%. Sarebbe però opportuno estendere inoltre questa tassazione a tutti i servizi digitali per evitare l'evasione o l'elusione degli utenti della piattaforma.

Abstract

Sharing economy is based on online collaborative platforms, they are used by consumers to temporarily offer goods and services or to sell them. The OECD in this regard i.e., in the purpose of finding the right taxation has highlighted numerous opinions. The selling, the lending of goods increasingly leads to the idea that these actions used to take place on the basis of a relationship of trust. Today these people who do these transactions know each other less and less or do not know each other at all; therefore, previously there was no need for “ad hoc” legislation of tax law. The fundamental problem is the occurrence of the numerous exchanges without the existence of tax law and without the “ad hoc” control to have these exchanges. Moreover, these numerous exchanges of digital traders agree continuously to the exchanges between professional traders. How then should the virtual economy be managed?. ● There should be increased controls on these exchanges;. ● One would need to identify “The Tax Ruies” i.e., identify what to tax and to what extent;. ● Innovative substantive regulations would be needed in this regard to update existing regulations and ensure controls are more effective. With good regulations, even the taxation of online exchanges, could become simpler because systems would be able to handle transactions easily (one would recognize in a manner of transactions that occurred online those to be taxed). In addition, online taxation should be viewed thus: To make a “ad hoc” regulation, one should speak of “Access Economy”. The Access economy does not represent the pure sale of products but rather goes to represent an intermediary that brings out as many products as possible through permission to the virtual storefront of its customers. Several bodies have commented on taxation:. - THE OECD. It recalled the discipline saying that unfortunately through these digital platforms, users on evade taxation;. - The European Union Commission. The European Commission with the approval of the European Parliament had put a 3% tax on digital transactions. However, it would be appropriate to further extend this taxation to all digital services to avoid evasion or avoidance of Platform users.

Contenuto


1. “Normativa ad hoc” e tassazione sharing economy

L’Amministrazione finanziaria italiana è consapevole dei problemi legati alla sharing economy ma le manifestazioni più importanti si ricavano dagli schemi del sistema tributario italiano. Sono stati effettuati diversi tentativi da parte dell’ordinamento italiano di fornire una disciplina speciale ai redditi1 della sharing economy. Con l’art. 5 del Atto Camera n. 3564 del 28 settembre 2016, si prevedeva un’apposita categoria di “reddito da attività di economia della condivisione non professionale” fino alla soglia di 10.000 euro annui, soggetto ad un’imposta sostitutiva del dieci per cento applicata dai gestori delle piattaforme come sostituti d’imposta (obbligandoli ad istituire una stabile organizzazione in Italia e a comunicare all’Agenzia delle Entrate i dati relativi a tutte le operazioni effettuate attraverso le loro piattaforme); in caso di superamento di detto limite i redditi sarebbero stati cumulati con quelli di lavoro dipendente e autonomo. Nella dottrina italiana questa proposta ha sollevato molte critiche, poiché non era molto chiaro il criterio della determinazione della base imponibile ed dell’eventuale rilevanza di rimborsi spese, per l’irragionevolezza dell’introduzione di una nuova categoria reddituale in deroga ai princìpi sui redditi da attività professionali ed occasionali, nonché fondiari, e perché sarebbe lesiva della libertà di stabilimento dei gestori di piattaforme dove vi è l'obbligo ad istituire una stabile organizzazione. Di contro, il Legislatore è intervenuto con l’art. 4, D.L. 24 maggio 2017, n. 50, convenzionata dalla Legge n. 96 del 2017, nello specifico settore delle “locazioni brevi”, anche per assicurare un trattamento uniforme fra i casi in cui il rapporto si realizzi tramite soggetti esercenti attività di intermediazione immobiliare con modalità tradizionali e quelli in cui sia impiegata una piattaforma digitale.2 Il contenzioso sollevato dal gestore di una di queste ha posto in luce le difficoltà sollevate da tale allineamento. Questo articolo ha incluso nel suo campo di applicazione anche i contratti stipulati da persone fisiche, fuori dell’esercizio d’impresa,3 tramite “soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare”. Questi soggetti, come gli intermediari, sono obbligati a trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il 30 giugno di ogni anno i dati relativi ai contratti conclusi nell’anno precedente per loro tramite e, se incassano i canoni o corrispettivi dei suddetti contratti o intervengono nel pagamento di essi, ad operare, all’atto del pagamento al locatore, una ritenuta del ventuno per cento. Questa disciplina va a contrastare l’evasione fiscale in un determinato settore, rimediando alla difficoltà di controllo provocata dalla non soggezione ad obbligo di registrazione delle locazioni di durata fino a 30 giorni, senza però riuscire ad adeguare la tassazione4 al valore sociale della sharing economy. Il Legislatore ha capito il ruolo pratico che hanno le piattaforme on line e ha preso al volo l’opportunità di avvalersi degli intermediari immobiliari, inclusi i gestori di quei portali, per il contrasto all’evasione, obbligandoli a fornire dati per il monitoraggio di queste operazioni ed a svolgere il ruolo di sostituti d’imposta. Nemmeno l’applicabilità di questo regime solo a contratti conclusi fuori dell’esercizio d’impresa va a favorire lo spirito “collaborativo” della sharing economy: semplicemente, il Legislatore non ha voluto estendere il regime sostitutivo ad attività commerciali.5 In mancanza del regolamento previsto dall’art. 1, comma 3-bis, D.L. n. 50 del 2017, che avrebbe potuto definire “i criteri in base ai quali l’attività di locazione si presume svolta in forma imprenditoriale avuto anche riguardo al numero delle unità immobiliari locate e alla durata delle locazioni in un anno solare”, l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate riconduce la questione alle regole generali, e queste non escludono il carattere fondiario del reddito tratto da un immobile acquistato solo per affittarlo. Dunque, il regime delle locazioni brevi non riguarda esclusivamente chi offra l’uso della propria abitazione per i pochi giorni in cui è altrove. La locazione, a prescindere dalla sua durata, è considerata attività statica di godimento di un immobile e non di impresa o lavoro autonomo, lo rimane sia che venga stipulata con l’ausilio di un intermediario tradizionale o di una piattaforma telematica. D’altra parte, chi suo mercato è lavoratore autonomo o imprenditore diventa soggetto passivo IVA perché ha avviato una “professione abituale”, anche se sia soltanto auto-organizzato: l’avvalersi di una piattaforma collaborativa non gli conferisce una “forma di impresa”, ma aumenta semplicemente le sue possibilità di trovare clienti. Dunque, l’essere, come prestatore di servizi, utente di una piattaforma può considerarsi uno tra i vari indici di abitualità, ma in concreto questa posizione può benissimo corrispondere ad un’attività occasionale, che un soggetto voleva svolgere ed in effetti ha compiuto solo per pochi giorni. In conclusione, resta imprescindibile esaminare le circostanze concrete per stabilire se sussistano soggettività passiva IVA ed attività abituale ai fini delle imposte sui redditi. Non bisogna dimenticare che l’imposta sui servizi digitali di cui all’art. 1, comma 35 e ss., Legge 30 dicembre 2018, n. 145 grava anche sulle attività di sharing economy, in quanto si applica a ricavi derivanti dalla “messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche allo scopo di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi”, provenienti da utenti localizzati nel territorio italiano, cioè che utilizzino in esso un dispositivo per accedere a quell’interfaccia digitale e concludervi un’operazione corrispondente.


2. Dal commercio elettronico alla Web taxation

Si sono sviluppate con delle nuove piattaforme digitali nuove forme di tassazione nell'ordinamento giuridico. Le aree di tassazione che si sono sviluppate nell'ordinamento giuridico sono tre:

  1. Inizialmente Google Tax;

  2. Poi Digital Tax

  3. E infine web tax.


Sulla web tax6 se sono sviluppate due di normative: Una che è stata abrogata del tutto e un'altra in corso (non ancora uscita). La tassazione delle operazioni online diventa sempre più complessa a causa della mancanza dei principi fondamentali di essa. Tra i principi fondamentali per la tassazione vi è il principio di territorialità. Nelle operazioni online questo principio viene meno. La difficoltà fondamentale in questo tipo di tassazione sta nel trovare il luogo esatto di tassazione e nel vedere quale aliquota dobbiamo applicare nell'ordinamento di riferimento. Poiché si tratta di operazioni internazionali. Cosa accade a tal proposito in ambito tributario?

Lo sviluppo eccessivo delle transazioni online crea competitività tra gli Stati oggetto di tali transazioni. L'operatore economico e il cliente non si trovano nello stesso luogo così si accentua la competizione fiscale tra gli Stati. Inoltre, si ha anche difficoltà nel tassare i passaggi intermedi da operatore economico a consumatore finale del bene i cosiddetti “Taxation points”. È difficile nella tassazione online individuare il gestore (service provider), gli utenti (contenta provider). L'unico modo, quindi per regolarizzare questi tipi di tassazione è regolarizzare una tassazione quasi equa nell'ordinamento tributario. È l'introduzione di tutti i molteplici strumenti a disposizione: (scambio d'informazione, modello OCSE di convenzione fiscale, convenzioni internazionali contro la doppia imposizione). La rete, secondo la comunità scientifica potrebbe essere considerata luogo della tassazione ma secondo l'ordinamento giuridico no. Le grandi piattaforma digitali (Google, eBay, Amazon, Apple, Facebook, Twitter, Airuno ecc..) però producono dei veri e propri redditi (redditi da lavoro dipendente, redditi da lavoro autonomo, redditi diversi ecc..). Queste piattaforme però nonostante producono questi grandi redditi, le loro tassazioni sono sempre più ridotte o addirittura alcune transazioni non sono proprio tassate e ciò crea dei veri e propri paradisi fiscali di fiscalità internazionale.7 Questo garantisce una significativa erosione della base imponibile. Il diritto tributario per adattarsi alle transazioni nazionali ed internazionali ha adottato una serie di norme preimpostate chiamate netiquette. Internet a tal proposito è un cyberspazio che non ha una tassazione precisata da norme ed è difficile che l'abbia. È una specie di “Far West telematico”, in quanto privo della materialità dei beni e caratterizzato dal principio di libertà. Internet rappresenta però comunque uno spazio dove vengono svolte delle attività giuridicamente rilevanti, e quindi esse devono essere tassate attraverso un'apposita normativa. Varie sono state le tappe prima di arrivare ad una pseudo tassazione con normativa, non ancora esistente nell'ordinamento tributario:

1) Direttiva del Consiglio 17 maggio 1997, n° 77/388/CEE “Regime d'Imposta sul valore aggiunto applicabile a determinati servizi prestati mediante mezzi elettronici”. Ha apportato modifiche al regolamento del 27 gennaio n° 1992/218/CE. Questa direttiva ha individuato il luogo delle prestazioni di servizi con riferimento ai servizi elettronici, di telecomunicazione e di tele radio diffusione. La normativa ha confermato innanzitutto l'intento di non tassare il commercio8 digitale con tributi ulteriori rispetto alla tassazione tradizionale. Inoltre, ci è stato il tentativo di andare a cogliere il momento esatto della tassazione che in un'economia tradizionale nella maggior parte dei casi è quando avviene la consegna del bene. Ad oggi, l'esatta tassazione secondo questa normativa nell'economia digitale dovrebbe essere durante il pagamento del bene anche se ciò avviene con la moneta elettronica. Ma questa “Pseudo normativa”, non può essere data così per scontata, perché nelle transazioni online c'è la “smaterializzazione delle operazioni”. Gli orientamenti del commercio online tendono a prediligere la diffusione di servizi piuttosto che di beni. I fattori esogeni come ad esempio “La residenza del fornitore” non dovrebbero influire nella tassazione online. I problemi della tassazione online sono problematici di natura sostanziale e sono:

- Cessione di beni o prestazioni di servizi;

- Qualificazione dei corrispettivi;

- Individuazione del luogo di effettuazione delle operazioni, residenza fiscale degli operatori.

2) Intervento dell'organizzazione9 per la cooperazione e lo sviluppo economico che attraverso il documento: Elettronici Commerce: The Challenges to tax aithorities and Tax payers presentato l'11 novembre 1997 e ripresentato alla Conferenza ad Ottawa in tema di “A barderfess Word realising the potential of elettronic Commerce”. L'intento era mirato a risollevare le problematiche di natura fiscale relativo a questo tipo di tassazione delle operazioni online. Secondo quest'organismo le problematiche sono le seguenti:

1) La tassazione dell'e-commerce deve assumere i seguenti principi:

- Neutralità fiscale: Parità di trattamento rispetto al tradizionale commercio;

- Certezza e semplicità nell'applicazione dei tributi;

- Efficienza intesa come riduzione dei costi d'imposta per il contribuente e dei costi di verifica per il fisco;

- Flessibilità e dinamicità per adeguare il prelievo agli sviluppi tecnologici e commerciali;

- Le operazioni similari vengono assoggettate quasi allo stesso modello impositivo.


Differenza tra (ISP) Internet service provider e server

Gli ISP non possono essere considerati elementi per la stabile organizzazione nell'ambito della tassazione.10 Perché un sito web difetta di materialità ed è inidoneo per essere comunque una sede fissa di affari. Al contrario il server potrebbe essere una “stabile organizzazione”, perché è un macchinario elettronico munito di sede fissa. Tra i tentativi di connessione nei vari Stati vi è quello dell'economia Circolare che voleva introdurre lo Stato nordamericano ed era la tassazione Bilts. Questa tassazione nel diritto tributario è una tassazione non giusta. Perché sarebbe di tipo quantitativo e non qualitativa, perché non rispetta i canoni prevista dalla capacità contributiva. Va a tassare e a controllare i numeri di accessi e non quelli effettivamente di consumo. La dottrina ha anche valutato la cosiddetta tassazione congiunta (imposta valore aggiunto più bilts) ma è comunque una doppia tassazione. Con la web tax il legislatore cerca di sottoporre a tassazione coloro che prestano servizi digitali, operando sulla rete e realizzando profitti in diversi Stati: l’obiettivo è quello di contrastare l'elusione fiscale che si registra nelle transazioni on-line, che sfuggono al regime11 di tassazione nei paesi in cui vengono utilizzati i beni ceduti ed i servizi prestati e nei quali si produce reddito. Quindi, si vuole evitare che le società estere, attive soprattutto nel settore virtuale, non siano sottoposti, come dovrebbero, al carico fiscale, ad esempio, fissando la sede legale in paesi a fiscalità privilegiata, pur operando effettivamente in Stati caratterizzati da un'imposizione fiscale molto più elevata. Per effetto di tali “scelte fiscali”, si viene a ridurre la base imponibile rispetto a quella prevista dal sistema tributario dello Stato nel quale i ricavi sono stati realmente conseguiti, spostando parte dei profitti, in maniera legale, in giurisdizioni in cui vengono tassati di meno. Le esperienze più importanti in ordine alla web tax, prima che nell’ordinamento giuridico italiano, vi sono state in legislazioni straniere, appartenenti sia a sistemi economici avanzati che in via di sviluppo: queste misure tributarie sono state adottate allo scopo di assicurare parità di trattamento tra contribuenti residenti e contribuenti non residenti, nell’ipotesi in cui questi ultimi, pur in presenza di una significativa attività economica svolta nel territorio che non era la loro residenza, non abbiano i requisiti minimi per assoggettare ad imposizione il reddito; in assenza di strumenti quali la web tax, sarebbe concreto il rischio che tali operatori economici, non tassati né nel mercato di riferimento, né in quello di residenza, finiscano per usufruire di un indebito vantaggio, anche in termini di concorrenza, nei confronti dei contribuenti residenti che svolgono la stessa attività. Tra le economie avanzate, di grande importanza è l’esperienza del Regno Unito, che, per fronteggiare le strategie fiscali adoperate dai colossi della digital economy, ha introdotto, a partire dal periodo d’imposta 2015, la “Diverted Profits Tax”, cioè la tassa sui profitti dirottati, tributo poi recepito anche dall’ordinamento belga con la “Cayman Tax”, strumento impositivo simile che colpisce, con l’aliquota del 25%, i redditi sottratti in maniera elusiva alla tassazione nello stato della fonte, in quanto dirottati dalle multinazionali12 del web in Paesi caratterizzati da bassa imposizione; si tratta di situazioni in cui si ha il motivo di pensare che il contribuente non residente svolga nel Regno Unito un’attività economica, evitando il sorgere di una stabile organizzazione, cioè di soggetto residente o non residente esercente un’attività assoggettata ad imposizione nel Regno Unito che riesca ad eludere la tassazione in detto Stato attraverso la stipulazione di accordi o avvalendosi di soggetti terzi senza di sostanza economica. Questa misura impositiva trovando applicazione in presenza di una significativa attività economica svolta sul territorio dello Stato, a prescindere dalla sussistenza degli elementi idonei a configurare una stabile organizzazione, e previa dimostrazione del comportamento, tenuto dal contribuente non residente, con lo scopo di evitare le norme sulla stabile organizzazione consentendo di superare gli ordinari criteri di collegamento, rendendo inopponibili all’amministrazione finanziaria gli accordi stipulati dai grandi gruppi societari al fine di colpire la base imponibile nel Regno Unito. Gli effetti applicativi del tributo corrispondono a quelli che conseguirebbero alla condotta del contribuente operante nel territorio di riferimento mediante una stabile organizzazione o una società controllata: sull’ipotetico reddito così generato trova applicazione la “Diverted Profits Tax”. È di una soluzione organica, pienamente conforme agli obiettivi del Beps13 Action Plan promosso dall’OCSE durante il G20 di Mosca del 19 luglio 2013 e ai principi della Raccomandazione C (2012) 8806 in materia di pianificazione fiscale aggressiva adottata dalla Commissione Europea il 6 dicembre 2012. In realtà, lo strumento impositivo costruito attorno al concetto di elusione fiscale come mezzo a disposizione dell’ente impositore per scongiurare l’aggiramento delle norme sulla stabile organizzazione, accanto a profili di evidente vantaggio individuati nella facoltà riconosciuta al fisco di avvalersi di una presunzione legale relativa, consistente nel considerare come base imponibile i profitti che sarebbero stati tassati dove le operazioni fossero state poste in essere attraverso una stabile organizzazione, applicando le norme interne eluse, presenta molte criticità, non essendo di facile applicazione, in ragione dell’onere gravante sull’amministrazione finanziaria di determinare, in via induttiva e indiretta, i profitti dichiarati da paesi caratterizzati da un livello di tassazione particolarmente basso. L’amministrazione finanziaria si troverebbe, così, ad utilizzare le stesse tecniche di accertamento adottate per ricostruire i redditi delle stabili14 organizzazioni “occulte”, assurgendo a presupposto del tributo l’esistenza di un “reddito senza Stato” (c.d “stateless income”), a prescindere dal suo formale radicamento all’interno del territorio e dal riferimento di un’imposta societaria ad un soggetto passivo residente nello Stato della fonte. Il pregio di questa misura fiscale volta a contrastare condotte di pianificazione fiscale aggressiva e di abuso del diritto, senza condizionare in alcun modo la concorrenza nel mercato UE, limitandosi a contrastare pratiche di concorrenza fiscale suscettibili di provocare vantaggi per alcuni Stati membri e svantaggi per altri, con conseguente lesione dell’interesse dello Stato che è quello di legittimare nuovi strumenti impositivi fondati sulla vera presenza e sull’esistenza di un valido collegamento di natura economica (c.d. “nexus”) tra attività svolta dall’impresa digitale e territorio e sull’utilizzo del mercato locale dall’esterno: così facendo si riesce ad assicurare ai singoli Stati la tutela e la protezione delle proprie basi imponibili ostacolate da condotte abusive e artificiose senza colpire i principi e le libertà economiche, compreso il diritto del privato ad operare liberamente sul mercato. Molto importante è anche l’esperienza dello Stato di Israele, nel cui ordinamento sono stati introdotti dei meccanismi volti ad aumentare le imprese digitali a trasferire nel Paese le attività di ricerca e sviluppo, unitamente ai beni immateriali. Tra le economie emergenti, vi è quella dell’ordinamento giuridico indiano, che, ad iniziare dal periodo d’imposta 2016, ha introdotto la “Equalisation Levy”, con lo scopo di porre rimedio al mancato gettito derivante dalla pubblicità online, settore nel quale le multinazionali del web, in assenza di un criterio di collegamento, conseguono alti profitti, completamente detassati. Queste misure hanno causato problematiche di natura interpretativa ed applicativa, poiché, le stesse, essendo che non sono presenti fisicamente, rischiano di dar vita a trattamenti discriminatori, trasformandosi in un cattivo strumento di protezione degli operatori residenti, a scapito di quelli non residenti. Per quanto riguarda l’Italia è stata presentata una proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati il 27 aprile 2015, che, riprendendo gli studi elaborati dall’OCSE, al fine di contrastare l’elusione fiscale delle transazioni eseguite per via telematica, ha tentato di modificare la definizione di “stabile organizzazione”, di cui all’art. 162, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), prevedendone una “occulta” di tipo virtuale, ed ha promosso l’istituzione della “digital tax”,15 consistente in una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, operata da parte degli intermediari finanziari in misura pari al 25%, sui pagamenti effettuati da soggetti residenti in Italia al momento dell’acquisto di prodotti o servizi presso un operatore digitale (c.d. e-commerce) residente all’estero, nei cui confronti fosse stata accertata l’esistenza di una stabile organizzazione “occulta” nel territorio dello Stato; questa ritenuta non sarebbe, invece, applicata agli operatori non residenti muniti di una stabile organizzazione in Italia. È stato previsto un meccanismo rimettendo il relativo potere all’Agenzia delle Entrate, che, accertata la sussistenza dei presupposti applicativi, è tenuta ad effettuare apposita comunicazione servendosi di almeno un intermediario finanziario incaricato dal soggetto non residente e, in caso di blocco da parte di quest’ultimo, incaricando gli intermediari finanziari residenti di effettuare la ritenuta sui pagamenti a favore del soggetto estero al soggetto non residente, invitandolo a regolarizzare la propria situazione in modo da far emergere l’esistenza della stabile organizzazione. Queste misure si spiegano in quanto, com’è facilmente intuibile, nell’ambito dell’economia digitale è possibile operare in un mercato locale senza dover necessariamente mantenere una presenza fisica al suo interno, configurabile come stabile organizzazione, con conseguente assoggettamento ad imposizione in tale Stato dei profitti dell’impresa immateriale. Non potendo, però, i consumatori finali essere qualificati in termini di sostituti di imposta, l’unica soluzione per applicare la ritenuta fiscale fatta propria in queste proposte di legge consiste nel coinvolgere le istituzioni finanziarie incaricate di regolare il pagamento degli acquisti on line, salvo che le multinazionali digitali non abbiano fissato una stabile organizzazione sul territorio italiano ovvero abbiano concluso un accordo con l’Agenzia delle Entrate detto tax ruling, con lo scopo di assoggettare ad imposizione i proventi dell’attività svolta in Italia. Tali tentativi non sono andati a buon fine poiché non hanno ricevuto alcuna approvazione da parte del legislatore. In realtà, anche se queste misure fiscali fossero state adottate, si sarebbe comunque trattato di soluzioni occasionali, parziali ed unilaterali, insuscettibili di ricevere concreta applicazione in ragione del contrasto con le previsioni contenute nelle convenzioni internazionali stipulate per evitare fenomeni di doppia16 imposizione riguardanti la nozione di stabile organizzazione e l’individuazione dei redditi a cui è possibile applicare la ritenuta alla fonte; ne sarebbe derivata una prevalenza delle disposizioni di diritto internazionale rispetto a quelle di diritto interno relative allo stesso oggetto, in virtù del principio di specialità, che le multinazionali digitali avrebbero potuto invocare per superare contrasti di natura interpretativa dati dalle conseguenze dell’applicazione della normativa domestica di carattere unilaterale in ordine all’individuazione del luogo di residenza. Viste le soluzioni elaborate dall’OCSE sulle modalità di tassazione dell’economia digitale ed a causa delle irragionevoli distorsioni nella concorrenza tra gli Stati e tra le imprese, in relazione al grado di digitalizzazione, generato dagli attuali criteri di localizzazione della ricchezza reddituale, si è reso necessario un intervento comunitario. In questo contesto, si è inserita la proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea il 21 marzo 2018 a cui, in realtà, si è ispirato il legislatore italiano nella seconda versione di web tax domestica di istituire una web tax europea, denominata “Imposta sui servizi digitali”17 (ISD), inizialmente munita di carattere temporaneo e successivamente applicabile a regime (con l’aliquota del 3%) ai ricavi annuali lordi, al netto dell’IVA e di altri tributi analoghi, derivanti da alcune specifiche attività digitali, caratterizzate da un più significativo contributo degli utenti alla creazione di valore per l’impresa digitale: si tratta dei “servizi digitali” definiti dall’art. 3, par. 1, della proposta di direttiva quindi si fa riferimento vendita di spazi pubblicitari on-line; cessione di dati generati dalle informazioni fornite dagli utenti; attività di intermediazione digitale che consentono agli utenti di interagire tra loro, attraverso interfacce digitali multilaterali, per facilitare la vendita di beni e servizi. In tal modo, il nuovo tributo europeo, a differenza della prima versione di web tax domestica, potrebbe realmente colpire solo specifiche transazioni digitali delle grandi multinazionali del web, assoggettando a tassazione gli imponibili che sfuggono ai sistemi fiscali dei singoli Stati membri e fornendo risposta a tre interrogativi di fondo: chi tassare, cosa tassare e dove tassare nel vigente sistema normativo, la tassazione dell’economia digitale18 appare ancora un cantiere aperto, con una serie di proposte elaborate in più ambiti da ultimo, nel G7 dei Ministri delle Finanze, svoltosi a Chantilly il 17 e 18 luglio 2019, con lo scopo di determinare un livello minimo d’imposizione effettiva detto minimum tax, non necessariamente legato ai tradizionali indici di capacità economica, per aprire la strada all’istituzione dei “non tributi”. Nel febbraio 2019, l’OCSE, in un proprio rapporto denominato “Addressing the Tax Challenges of the Digitalisation of the Economy” ha ribadito l’importanza di revisionare i criteri di collegamento esistenti, focalizzando l’attenzione su tre modelli: la partecipazione dell’utente (user partecipation); l’attribuzione residuale degli utili (residual allocation of profits); la presenza economica significativa (significant economic presence) Mediante i primi due modelli, è riconosciuto il contributo dell’utente alla creazione del valore nell’economia digitale, superando alcuni postulati dell’arm’s lenght principle (ALP), e sono delineate le regole relative all’attribuzione residuale degli utili. Il terzo modello, invece, ricollega la potestà impositiva di una giurisdizione fiscale all’esistenza, nel suo territorio, di una presenza economica significativa dell’impresa multinazionale19 operante sul piano virtuale. In tale contesto, durante il vertice dei Ministri delle Finanze che si è svolto a Fukuoka (Giappone) l’8 e il 9 giugno 2019, in anticipazione del G20 di Osaka del 28 e 29 giugno 2019, è emersa la volontà di condividere un modello di tassazione dell’economia digitale, da adottare entro la fine del 2020, riprendendo i due pilastri elaborati in sede OCSE il 28 e 29 maggio 2019. Il “Pillar One”, detto “Unified Approach” (rectius, Approccio unificato sul trattamento fiscale dell’economia digitale), stabilisce una funzione “riallocativa”, essendo volto a revisionare i criteri di collegamento e di allocazione dei redditi, cambiando le disposizioni sul trasferimento degli utili, in deroga all’arm’s lenght principle, e la predisposizione di nuove “nexus rules”, fondate sui concetti di “partecipazione dell’utente”, “significativa presenza digitale ed economica”, “approccio basato sulla distribuzione”, in modo da riconoscere potestà impositiva alle giurisdizioni nel cui territorio sono localizzati i consumatori e chi utilizza i modelli di business20 digitalizzato. La proposta di “new taxing rights”, a cui è seguita una successiva consultazione pubblica, attraverso l’adozione di scelte condivise, mira a superare il criterio della stabile organizzazione, risalente agli inizi del XX del secolo, va a redistribuire le potestà impositive tra gli Stati, assoggettando a tassazione, all’interno di un dato territorio, gli utili conseguiti dalle imprese multinazionali (con ricavi superiori ad un determinato ammontare) in esso operanti, anche in mancanza di una presenza fisica. Il “Pillar Two”, denominato “Global Anti-Base Erosion Proposal” (GloBE), tende a predisporre un sistema per assoggettare le multinazionali del web ad un livello minimo di tassazione globale, apportando modifiche alla normativa domestica ed alle disposizioni dei trattati contro le doppie imposizioni, in modo da approntare strumenti capaci di contrastare l’erosione delle basi imponibili e il trasferimento21 di utili verso giurisdizioni a bassa o fiscalità nulla. Le proposte avanzate in sede OCSE (con i tre rapporti ed i due pillars) possono essere implementate e, soprattutto, ricevere attuazione prima della diffusione di “web taxes” nazionali nei singoli ordinamenti domestici.


3. Le caratteristiche della Web Tax

La legge di Bilancio del 2020 ha introdotto la web tax che è stata introdotta dall'ordinamento giuridico italiano. Subito dopo, l'Italia è stata la Francia ad introdurla. La web tax non è una tassazione come le altre, bensì ha alcune caratteristiche:

- La territorialità: Il concetto di territorialità nella web tax è inteso diversamente. Si va a tassare il paese dell'utente che acquista il bene e servizio online non quello dell'impresa produttiva. Perché la web tax è una tassa che colpisce l'Ip del consumatore del bene/servizio.22 Il numero o Ip si trova nel provider del (PC, tablet, smartphone) del consumatore per questo, questa norma ha avuto difficoltà nell'applicazione. Ma non solo per il principio di territorialità, ha avuto difficoltà d'applicazione sia a livello soggettivo che oggettivo nella dottrina giurisprudenziale.

- Presupposti soggettivi di non applicabilità: La ISD (Tassa web tax) si applica ai redditi delle cosiddette “GAFA”. Gara comprende i redditi prodotti da (Google, Apple, Facebook, Amazon. Si applica solo alle grandi imprese perché sono quelle che producono i paradisi fiscali all'estero) dove la tassazione è più ridotta. L'intento del legislatore era quello però di applicare la ISD ai soggetti non residenti in Italia. Anche se inevitabilmente vengono purtroppo tassate le imprese che vendono anche prodotti online ma che hanno “Stabile organizzazione in Italia”. Ad esempio: (Rcs, Mediaset e Gedi). Quindi l'applicazione della ISS nelle grandi imprese provoca quasi una doppia tassazione su certi tipi di servizi di certe imprese.

- Ambito di applicazione oggettivo. Il seguente ambito tratta della dottrina, spiega in quali operazioni si applica questo tipo di tassazione. Le macrocategorie sono le seguenti:

- Pubblicità online;

- Big data;

- Social network;

- Sharing economy.


Questi tipi di tassazione ISD, si applica alle transazioni che hanno come oggetto terzi con “Intermediazione”. Il servizio a consumo diretto fatto da produttore e consumatore finale non applica la ISD. L'imposta sui servizi digitali (ISD) è imposta proporzionale al 3% che si applica sui ricavi al lordo dei costi ma al netto dell’IVA e delle altre imposte indirette che sono generati da servizi digitali tassabili in Italia. Quindi, l’imposta va a colpire ciò che è stato prodotto dall’impresa e viene calcolata su una base imponibile che non tiene conto dei componenti negativi di reddito, ad eccezione dell’e-commerce che, per disposizione normativa, viene tassato al netto dei corrispettivi pagati per la cessione di beni o prestazione di servizi e, dunque, sulle commissioni incassate. Ciò comporta, un onere fiscale alto per i soggetti passivi del tributo anche se con un’aliquota contenuta (come quella del 3%), può comunque avere un forte impatto sui profitti dell’impresa tassata.23 L'e-commerce e anche la sharing economy sono tassati non tenendo conto del corrispettivo del bene ceduto o del servizio prestato comportando un danno minore per il soggetto passivo. La base imponibile della ISD viene calcolata dal risultato del “prodotto del totale dei ricavi che derivano dai servizi digitali realizzati per la percentuale che rappresenta la parte dei servizi collegata al territorio dello stato”. La disciplina della ISD presenta molte criticità: (i) La ISD penalizza i soggetti residenti che sono già soggetti ad IRES e IRAP e non specifica che l’imposta sia deducibile dal reddito d’impresa; (ii) L’accertamento del superamento delle soglie dimensionali da parte dei soggetti non residenti risulta non sempre agevole; (iii) L'ambito di applicazione oggettivo della norma è indeterminato e non consente di individuare con immediatezza la gamma di servizi digitali soggetti a tassazione; (iv) La ISD presenta profili di incompatibilità con la normativa a tutela della privacy in merito agli obblighi di tracciamento dell’indirizzo IP degli utenti i quali, tra l’altro, potrebbero, anche involontariamente, essere deviati su circuiti digitali non nazionali; (v) L’onere economico della ISD sarà probabilmente traslato sull’utente finale e rischia di discriminare le imprese che, non possedendo ancora un marchio noto, si avvalgono di intermediari alle vendite; (vi) Il nuovo tributo presenta possibili profili di censura costituzionale sia con riferimento alla selettività dell’ambito soggettivo dell’imposta, sia con riguardo al metodo “volumetrico” di determinazione della base imponibile.24 Da un punto di vista economico, la ISD è esposta alle dure critiche provenienti da Stati Uniti e Cina. Questi paesi lamentano che l’imposta risulti essere sostanzialmente una forma di prelievo discriminatoria nei loro confronti, e quindi, genera ritorsioni protezionistiche da parte dei medesimi o di altri paesi. Infatti, proprio la configurabilità della ISD come una forma di imposizione discriminatoria comporta una serie di problemi di compatibilità del tributo con le fonti del diritto internazionale. Innanzitutto, con il diritto comunitario, giacché la misura in commento potrebbe, da un lato, rappresentare una misura discriminatoria nei confronti delle imprese non residenti e, dall’altro lato, costituire una forma di aiuto di Stato verso le imprese nazionali che si posizionano al di sotto della soglia di rilevanza. L’introduzione della ISD ha sicuramente molti pregi. Lo scopo dell’imposta è arginare le condotte elusive e la pianificazione fiscale aggressiva messa in atto dalle multinazionali dell’economia digitale. L' ordinamento italiano prevede in termini generali una clausola antiabuso applicabile alle varie fattispecie di elusione fiscale25 che non siano espressamente destinatarie di apposita disciplina. Tuttavia, l’articolo 10-bis, Legge 27 luglio 2000, n. 212 (il c.d. “Statuto dei contribuenti”) sembrerebbe non idoneo a contrastare i comportamenti sleali. La norma prevede il potere di disconoscimento dell’operazione elusiva solo nei casi in cui l’indebito vantaggio fiscale assume le caratteristiche di “essenzialità”. Contrariamente, la clausola antiabuso comunitaria di cui all’articolo 6 Direttiva ATAD I richiede, invece, la vera natura “principale” del vantaggio fiscale conseguito. La ISD ha colto nel segno e rappresenta, nonostante le criticità, una soluzione idonea26 e praticabile per l’Italia e per qualsiasi altro paese che cerchi di effettuare un tentativo di ripresa a tassazione dei profitti generati con la partecipazione degli utenti localizzati. Da un punto di vista tributario la ISD rappresenta un traguardo, da una diversa prospettiva dietro la necessità di ricorrere a misure fiscali vi è una situazione patologica di sottosviluppo digitale che riguarda l’intero continente europeo e l’Italia in particolare. Gli Stati Uniti sono contrari a qualsiasi forma di digital services tax e sono favorevoli s forme di tassazione per trasparenza come il nuovo regime “GILTI” (global intangible low-taxed income) che costituisce un nuovo metodo di tassazione CFC rafforzato. Il dibattito giuridico sulla ISD durerà ancora molto tempo e ci si augura che l’eventuale pubblicazione di un decreto ministeriale o di una circolare esplicativa cioè di un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate potrà offrire utili spunti da un lato per risolvere i problemi evidenziati dall'imposta sui servizi digitali e dall'altro per ulteriori riflessioni riguardanti la fiscalità digitale. Di notevole importanza sarà anche la futura condotta dei contribuenti soggetti alla ISD che andrà a chiarire le modalità applicative.


4. La crisi della Corporate Income Tax

Nel paragrafo si intende rispondere alla domanda se la Corporate Income Tax è ancora oggi un modello equo di tassazione27 per i redditi delle imprese. A tal proposito le risposte per il quale il motivo è no sono tante.

- La doppia tassazione che causa (la tassazione del reddito d'impresa in capo alla società e tassazione come dividendo per i soci).

- I bilanci in termini di dichiarazioni sono poco veritieri; eppure, rappresentano la base per tassare i redditi d'impresa. I bilanci sono redatti, purtroppo, non solo sulla base di principi quantitativi ma influisce anche molto il fattore soggettivo (si pensi alla valutazione della posta di bilancio “Crediti inesigibili”. La tassazione dei redditi d'impresa ha avuto una lunga storia e diversi concetti che hanno portato a numerose discussioni. Ricordiamo due teorie più importanti:

- Ricostituzione di Einaudi; Einaudi agli enti societari valenza meramente strumentale: La società raccoglieva tributi da dare al fisco.

- Griziotti. Questa teoria riconosceva alle società una capacità contributiva propria, diversa e ulteriore rispetto a quella propria dei soci (persone fisiche). Dall'inizio del '900, nascono allora queste due divergenze sulla tassazione dei redditi d'impresa. Secondo la prima teoria la tassazione dovrebbe avvenire solo in capo ai soci. Secondo la teoria di Griziotti invece in capo alla società. La tassazione in capo alla società è però considerata un ottimo strumento di monitoraggio dell'economia. Da queste teorie si è poi arrivati alla cosiddetta Dual Income Taxation, introdotta prima in (Svezia, poi in Norvegia, Finlandia e Danimarca) poi anche in Italia. Nel 1997, poiché il sistema del credito d'imposta creava numerosi problemi il credito di imposta28 prevedeva così la tassazione: l'impresa subiva la prima tassazione, poi in seguito veniva tassato il socio sotto forma di suo dividendo, quando la tassazione arrivava al socio, quest'ultima veniva applicata per scaglioni (com'è giusto che sia), al base d'imposta per scaglione veniva tolta la parte d'imposta già pagata dalla società. È un sistema sicuramente idoneo ma per le imprese internazionali (non va bene). A tal proposito fu introdotto la Dual Income Taxation, così strutturata:

- In Italia voleva favorire la capitalizzazione della società.

- Questo tipo di tassazione divisa in due parti Capital e Earned voleva dividere in due parti l'Income, la prima è la parte di reddito che si riferisce alla remunerazione del capitale29 e la seconda è quella riferita alla quota del reddito. In tutto ciò negli ultimi trent'anni, il fenomeno dell'economia digitale ha inciso profondamente sulla crisi della (Corporate Taxation). Il fenomeno dell'economia digitale ha alternato l'internalizzazione dei processi produttivi, la digitalizzazione dell'economia. E il peso sempre maggiore sulla determinazione del reddito d'impresa. L'internalizzazione dei processi produttivi ha portato le imprese allo spostamento delle basi imponibili (Profit-Shifting), e all'erosione di esse (Base Erosion). Inoltre, ha portato anche allo sviluppo di una forma di economia diversa. Ogni sfera d'impresa si occupa dello sviluppo di ogni singola parte del prodotto, “Sfera di business” anche questo ha aiutato ad aumentare l'evasione fiscale e l'elusione fa parte delle imprese internazionali. L'economia digitale purtroppo in termini di fiscalità internazionale, si sviluppa maggiormente su beni immateriali (valutazione conoscenze, skills ecc.). Questo causa la non possibilità di valutazione dell'investimento in tempi celeri e quindi problemi di tassazione. Inoltre, un altro problema che causa problemi di tassazione è l'integrazione degli utenti nella vita d'impresa. L'impresa sfrutta gli utenti per la produzione anche dei fattori che servono per la produzione del prodotto. È una rivoluzione industriale silenziosa. Le imprese internazionali hanno creato veri e propri paradisi fiscali30 ed anche l'OCSE si è espressa a tal proposito. All’interno dell’Unione europea, il tentativo di trovare soluzioni alla crisi della Corporate Income Tax e all’individuazione di nuove modalità di tassazione del reddito delle imprese multinazionali non è semplice a causa dell’esigenza di trovare soluzioni comuni per molti Stati, ognuno dotato di un proprio particolare sistema impositivo, non armonizzato con quello degli altri. Nella Comunicazione del 2001 la Commissione ipotizzò diverse opzioni tecniche. Un primo schema fu quello della Home State taxation (HST). La Home State Taxation si basava in un sistema di tassazione basato sul mutuo riconoscimento volontario (mutual recognition) del regime fiscale vigente negli altri Stati membri: le società operanti in più di un Paese membro avrebbero potuto calcolare la propria base imponibile secondo le disposizioni del Paese di residenza della capogruppo. L’unica base imponibile determinata, dopo aver consentito la compensazione tra utili e perdite transfrontaliere secondo l’ordinamento dello Stato di origine, sarebbe poi stata ripartita fra tutti gli Stati membri in funzione dei salari o del fatturato di ogni Paese; e su questa parte di imponibile ogni Paese avrebbe applicato le proprie aliquote. Era una proposta che aveva il vantaggio della buona accettabilità politica, posto che non richiedeva un’armonizzazione delle regole, ma presentava anche diverse criticità: avrebbero operato fianco a fianco nello stesso mercato imprese soggette a legislazioni fiscali diverse. Ogni amministrazione fiscale avrebbe dovuto essere in grado di accertare l’imposizione secondo le regole di ciascuno degli altri Stati membri dell’Unione europea. Il sistema della Home State Taxation avrebbe potuto funzionare solo in presenza di una sostanziale convergenza dei sistemi fiscali e legali dei diversi paesi dell’Unione europea, obiettivo molto difficile da raggiungere. In seguito, la Commissione si orientò sul modello della Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB). Nella sua prima versione, la CCCTB era prospettata come un sistema impositivo opzionale che le imprese avrebbero potuto scegliere in alternativa a quello del loro Paese di residenza. Assumeva importanza il profitto unitario del gruppo a livello consolidato da ripartirsi, in una fase successiva, in base a una formula basata su tre fattori:

  • vendite sui mercati di destinazione,

  • occupati

  • asset materiali.


Occorreva che i Paesi aderissero a una definizione di base imponibile comune, ma che trovassero anche un accordo per la definizione di un utile consolidato, dato che le regole cambiavano tra Paesi. Il vantaggio principale di questo sistema di tassazione consisteva nella possibilità di compensare le perdite nell’ambito delle società appartenenti allo stesso gruppo collocate in diversi paesi e nell' eliminazione dei problemi legati ai prezzi di trasferimento. Questi benefici avrebbero riguardato solo le società localizzate all’interno dell’Unione europea,31 mentre non avrebbero operato nei confronti di collegate in Paesi terzi. La proposta ha faticato a decollare per la mancanza di accordo tra i diversi Paesi e più recentemente, nel 2016, il progetto di base imponibile comune è stato ripreso in una prospettiva diversa. La nuova proposta di CCCTB appare articolata in due diverse direttive: una prima relativa alla definizione di una base imponibile comune per l’imposta sulle società (CCBT) e una seconda direttiva relativa a una base imponibile comune consolidata per l’imposta sulle società (CCCBT). Dopo grandi sforzi per arrivare a una definizione comune di base imponibile, la CCCTB dovrebbe risolversi nella ripartizione dell’utile così identificato in base a indicatori presuntivi, secondo il metodo del “formulary apportionment”. Ma anche nella nuova versione, la proposta continua a trascurare fattori ormai fondamentali per la creazione del valore, come gli intangible, i Big Data, l’apporto gratuito degli utilizzatori della rete, le piattaforme e i mercati multi-face, i robot “intelligenti” dell’industria 4.0. Il limite principale della CCCTB resta tuttavia il suo campo applicativo, limitato al territorio dell’Unione europea. Dopo essersi astenuti dalla partecipazione ai lavori dell’OCSE sul tema BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) e aver introdotto una impegnativa disciplina dello scambio di informazioni con il FACTA, gli Stati Uniti hanno scelto di agire unilateralmente sul tema dello Stateless Income, riposizionando il loro sistema fiscale attorno al principio di territorialità. È quindi necessario riuscire a trovare soluzioni internazionali che ristabiliscano efficienza ed equità dei sistemi fiscali, individuando nuovi collegamenti imponibili per le imprese digitali che operano a livello transfrontaliero in assenza di una presenza fisica. La ricerca di queste soluzioni si è tradotta in due proposte di direttiva rispettivamente COM (2018)148 e COM (2018)147 del 21 marzo 2018 che tracciano un percorso in due passi. Il primo passo è la soluzione targeted che è rappresentato dalla proposta di direttiva “relativa al sistema comune d’imposta sui servizi digitali32 (ISD) applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali”. L’idea è quella di introdurre temporaneamente un’imposta indiretta sui ricavi derivanti da quelle tipologie di servizi digitali per i quali la partecipazione degli utilizzatori gioca un ruolo centrale nella creazione del valore. Soggetti passivi di questa imposta dovrebbero essere le imprese con ricavi mondiali superiori a 750 milioni di euro, di cui più di 50 milioni prodotti all’interno della UE. Presupposto impositivo della ISD sarebbero i ricavi derivanti da tre macro tipologie di servizi digitali: a) la pubblicità collocata su un’interfaccia digitale e diretta agli utenti di tale interfaccia; b) la messa a disposizione di interfaccia digitali multilaterali che consentono agli utenti di interagire tra di loro ed eventualmente agevolare cessioni di beni e prestazioni di servizi peer to peer (social network, sharing economy, ecc.); c) i servizi di trasmissione dei dati raccolti sugli utenti e generati dalle attività digitali degli utenti sulle interfacce digitali. Il secondo passo, la soluzione comprehensive, è rappresentato dalla proposta di direttiva sulla “tassazione delle società che hanno una presenza digitale significativa”. Si tratta di individuare un nuovo criterio di collegamento territoriale (diverso dalla presenza fisica) e potenzialmente globale, che vada a integrare la tradizionale nozione di stabile organizzazione attribuendo rilievo a “nuovi indicatori della presenza digitale significativa”. In dettaglio, la presenza digitale significativa in uno Stato membro si considererebbe verificata, in base alla proposta di direttiva, se nel periodo di imposta l’impresa che fornisce servizi digitali tramite un’interfaccia risponde ad una o più delle seguenti condizioni: a) realizza ricavi totali per più di 7 milioni di euro dalla fornitura di servizi digitali a clienti localizzati nello Stato membro; b) ha più di 100.000 utenti di uno o più servizi digitali localizzati nello Stato membro; c) conclude più di 3000 contratti commerciali di fornitura di servizi digitali con utenti localizzati nello Stato membro. Per servizio digitale si intende il “servizio fornito attraverso Internet o una rete elettronica, la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata e quindi riduce al minimo gli interventi dell’uomo”; in questa prospettiva non rientra nel concetto di servizio digitale la vendita di beni o servizi agevolata dal ricorso ad internet o alla rete elettronica. Una soluzione diversa, volta ad abbandonare il collegamento tra la tassazione delle imprese e l’utile di bilancio, potrebbe essere la Cash Flow Tax,33 proposta per la prima volta alla fine degli anni ’70 dal Comitato Meade. Se il problema dei sistemi fiscali34 nasce dalla possibilità, per le imprese, di allocare strumentalmente i loro profitti in giurisdizioni a bassa fiscalità (profit shifting e base erosion), le amministrazioni fiscali potrebbero semplicemente smettere di allocare il reddito e tassare direttamente le risorse finanziarie che scorrono nelle casse delle imprese, cioè il cash-flow. A differenza dell’imposta societaria attuale, la Cash Flow Tax registra le operazioni al momento del pagamento, abbandonando il criterio contabile della competenza. Vi sarebbero due vantaggi: i flussi di cassa sono più facili da rintracciare e più difficili da manipolare degli utili. I vantaggi di una Cash Flow Tax destination based sono molti: 1) L’eliminazione della residenza dell’impresa quale fattore determinante dell’imponibilità fiscale, con la conseguente eliminazione dell'incentivo agli spostamenti;

2) L’eliminazione degli incentivi a manipolare i prezzi di trasferimento, visto che le transazioni infragruppo sarebbero ignorate dal sistema fiscale;

3) La piena e immediata deducibilità degli investimenti al contrario dei nostri ammortamenti, che ripartiscono l'abbattimento del costo dell'investimento su tante annualità successive, generalmente legate alla vita utile del bene o servizio acquistato;

4) L’assenza di distorsioni sulle scelte di finanziamento delle imprese, posto che la tassazione avverrebbe sulle transazioni reali e ignorerebbe quelle finanziarie quindi le imprese avrebbero meno incentivi a finanziarsi a debito piuttosto che ad equity.


5. Risultati di ricerca e conclusioni

La soluzione alle sfide da affrontare non è semplice, però è possibile cercare di gestire la tassazione delle imprese in un mondo in cui la digitalizzazione ha modificato definitivamente il modo di produrre redditi. In primo luogo, se la tassazione del reddito d’impresa rimanesse legata all’utile di bilancio sembrerebbe indispensabile assumere quest’ultimo a riferimento univoco e stabile nel tempo nel tempo anche ai fini fiscali, evitando le variazioni, in aumento e in diminuzione, come i “doppi binari”. Questa soluzione creerebbe un forte diminuzione di condizionare il bilancio per ragioni fiscali perché eventuali scelte valutative rivolte a ridurre il carico impositivo determinerebbero effetti negativi sui risultati di bilancio che l’impresa mostra al mercato e agli investitori. Sorgerebbe inoltre un aumento diretto a rivelare al mercato i reali rendimenti dell’impresa derivanti da attività immateriali. In secondo luogo, nel caso in cui la riflessione si orientasse verso una soluzione più radicale che abbandoni il riferimento al Corporate income, per la tassazione delle imprese si potrebbero valutare le caratteristiche della Cash Flow Tax sulla base della destinazione. Questo approccio rappresenterebbe un cambiamento decisivo rispetto al modello attuale e richiederebbe senz’altro opportune soluzioni per i problemi di compatibilità con le regole attuali e con la gestione amministrativa. Una volta introdotto però, rappresenterebbe una semplificazione importante del sistema rispetto al modello attualmente in vigore. Vi sarebbero forti guadagni in termini di neutralità ed efficienza del sistema fiscale35 rispetto alle scelte di investimento e di finanziamento delle imprese. Infine, abbandonate sia le tentazioni di costruire un sistema di tassazione completamente legate al bilancio sia lo stesso riferimento al reddito d’impresa, si potrebbe più semplicemente lavorare su una nuova ipotesi di base imponibile comune tra le diverse giurisdizioni di un sistema federale, come potrebbe essere in prospettiva l’Unione europea.

1 ALBANO G., “La qualificazione del reddito prodotto all’estero, in Corriere Tributario, n. 15, 2015.

2 G. MOLINARO, ‘’La tassazione della ricchezza derivante dall’economia digitale”, in il fisco, n. 39, 2015.

3 V. CERIANI, G. RICOTTI ‘‘Riflessioni sul coordinamento internazionale della fiscalità’’, mimeo. 2019.

4 L. GAIANI, ‘’Normativa CFC: problemi applicativi vecchi e nuovi per la tassazione delle controllate estere’’, in il fisco, 2015.

5 T. Di Tanno, “OCSE: unified approach nella tassazione delle attività digitali”, in Corriere Tributario 2020, fasc. 7, p. 655.

6 B. Bonini - G. Galli, “La web tax italiana: prospettive e problemi”, Osservatorio Conti Pubblici Italiani, Milano, 25 gennaio 2020.

7 S. MICOSSI, ‘‘La fiscalità d’impresa nel nuovo mondo globalizzato e digitalizzato’’, Note e Studi Assonime n. 1, 2017.

8 CORABI G., ‘’Il commercio elettronico e la crisi della fiscalità internazionale’’, 2000, IPSOA, Milano.

9 V. PERRONE - D. STEVANATO - R. LUPI, “Ulteriori riflessioni sulla web tax: estendere i criteri di collegamento o il concetto di stabile organizzazione?’’, in Dialoghi Tributari, n. 1, 2015.

10 G. Colombaioni, “Italy Unilaterally Implements the European Commission’s Digital Service Tax Proposal”, Rivista di Diritto Tributario Pacini Giuridica, 2019, nota 11.

11 F. ZACCARIA, “Commercio elettronico diretto: disciplina MOSS anche per i soggetti in regime fiscale di vantaggio’’, in Il fisco, 2015.

12 S. MICOSSI, P. PARASCANDOLO (2010), ‘‘The taxation of multinational enterprises in the European union: views on the options for an overhaul’’, Ceps policy brief, n. 203.

13 C. Garbarino, “L’impatto del progetto BEPS sul concetto di stabile organizzazione”, Diritto Pratica Tributaria, fasc. 2, p. 587, Padova, CEDAM Editore, 2019.

14 A. TOMASSINI, ‘’Stabili organizzazioni e commercio elettronico’’, in Corriere Tributario n. 19, 2013.

15 S. Dorigo, “Sharing Economy e imposta sui servizi digitali: le piattaforme per affitti brevi”, Corriere Tributario, 2020, fasc. 6, p. 607.

16 F. ROCCATAGLIATA, ‘’Per la stabile organizzazione occorre una idonea combinazione di risorse umane e tecnologia’’, in Corriere Tributario n. 26, 2015.

17 E. Della Valle, “L’imposta sui servizi digitali: tanto tuonò che piovve”, Rassegna Tributaria (il Fisco), fasc. 5, p. 407, Assago, IPSOA Editore, 2020.

18 F. ANTONACCHIO, ‘’Nuove strategie di contrasto all’evasione IVA nell’economia digitale’’, in Il fisco, 2015.

19 G. SEPIO - M. D’ ORSOGNA, “Impresa multinazionale digitale e tassazione delle transazioni online’’, in Il fisco n. 29, 2015.

20 M. OLBERT - C. SPENGEL - A. WEMER (2019), ‘‘Measuring and Interpreting Countries’Tax Attractiveness for Investments in Digital Business Models’’, INTERTAX, Volume 47, Issue 2.

21 N. LANTERI, “Verifica dei prezzi di trasferimento: una nuova frontiera nel rispetto delle Linee Guida OCSE’’, in “Rivista di giurisprudenza tributaria” n. 4, 2013.

22 C. Bartelli, “Digital tax, imposta su pochi. Non è servizio digitale la fornitura di beni e servizi”, ItaliaOggi, 2019, n. 257, p. 29.

23 A. Purpura, “Tassazione dell’economia digitale tra lo stallo della comunità internazionale la necessità di un’armonizzazione fiscale europea”, Diritto e Pratica Tributaria, fasc. 5, p. 1929, Padova, CEDAM Editore, 2019.

24 P. VALENTE, ‘’Erosione della base imponibile e stabile organizzazione’’, in Il fisco n. 31, 2015.

25 F. Cocco, “Il contrasto alle condotte elusive nella digital economy”, Corriere Tributario, fasc. 5, p. 485, Assago, IPSOA Editore, 2020.

26 F. ROCCATAGLIATA, “Per la stabile organizzazione occorre una idonea combinazione di risorse umane e tecnologia’’, in Corriere Tributario n. 26, 2015.

27 R. Giacobbi, “Web tax: che cos’è? Un’introduzione al tema dell’imposta sui servizi digitali”, Cyberlaws, 24 gennaio 2019.

28 G. MOLINARO, Il meccanismo del calcolo del credito per imposte estere, in Corriere Tributario n.15, 2015.

29 J. HASKEL - S. WESTLAKE (2018), ‘‘Capitalism without Capital: The Rise of the Intangible Economy”, Princeton University Press.

30 G. MARINO, ‘’Paradisi e paradossi fiscali. Il rovescio del diritto tributario internazionale’’, 2009, EGEA, Milano.

31 T. Di Tanno, “L’imposta sui servizi digitali si allinea alla proposta di Direttiva UE”, cit., p. 332.

32 S. Dorigo, “Sharing Economy e imposta sui servizi digitali: le piattaforme per affitti brevi”, Corriere Tributario, fasc. 6, p. 607, Assago, IPSOA Editore, 2020.

33 A. AUERBACH - M. DEVEREUX - M. KEEN - J. VELLA (2017), “Destination-based cash flow taxation, Oxford University Centre for Business Taxation’’, Working paper no. 17.

34 A. Carinci, “La fiscalità dell’economia digitale: dalla web tax alla (auspicabile) presa d’atto di nuovi valori da tassare”, cit., p. 4510.

35 G. LIBERATORE, “Verso un sistema fiscale più equo: l’Europa pone le basi”, in Ipsoa Quotidiano, 10 gennaio 2015.